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Il nuovo ciclo economico postfordista


Immagine di Sergio Bianchi

Quella di «postfordismo» è una delle categorie su cui ci eravamo ripromessi di ritornare nella bozza di programma al lavoro sui decenni smarriti di Transuenze. Presentiamo qui un testo di Christian Marazzi, tratto dal n. 7 della rivista DeriveApprodi ma originariamente ricompreso in Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica. Il testo è particolarmente significativo perché oltre a spiegare con perizia il funzionamento del ciclo economico nel postfordismo (forma a rete e globalizzazione delle imprese, centralità del sapere nel processo produttivo, nuova forma del conflitto sociale) ci fornisce indicazioni di metodo, oggi estremamente attuali, sul comportamento e sul ruolo delle banche centrali.


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La caratteristica senza dubbio più sorprendente del ciclo economico postfordista è di essere un ciclo in cui la ripresa, la fase espansiva, oltre ad essere lenta non innesca processi inflazionistici. Crescita lenta con modesti tassi di inflazione, questa combinazione contraddice la dinamica tradizionale del ciclo economico secondo la quale l'inflazione dovrebbe riaccendersi nel momento in cui la disoccupazione scende al di sotto del suo tasso «naturale» e l'utilizzazione delle capacita di produzione si avvicina al suo livello di guardia. Nella dinamica classica del ciclo economico, quando la disoccupazione scende al di sotto di un determinato livello, le imprese, per trovare personale, accettano di aumentare i loro salari, trasferendo sui prezzi l'aumento dei costi del lavoro. D'altra parte, per rispondere ad una domanda superiore all'offerta (di cui è indice l'utilizzazione massima delle capacità di produzione), le stesse imprese aumentano i prezzi dei loro prodotti[1]. Il ciclo economico postfordista smentisce però la teoria, impedendo agli indicatori economici di indicare alcunché, spianando le autorità monetarie che, sulla base di questi indicatori, decidono di anticipare le sfide inflazionistiche intervenendo sugli aggregati monetari[2]. Le ragioni sono molteplici. In primo luogo, è nella natura stessa del regime di crescita postfordista la spinta verso il massimo di apertura dei mercati (ciò che comporta una crescente deregolamentazione, la soppressione di tutte le norme protettive dei mercati locali), con la conseguente globalizzazione delle imprese alla ricerca non solo dei costi del lavoro più bassi, ma anche di posizioni strategiche sui mercati esteri per sfruttare appieno ogni occasione di vendita. La globalizzazione delle imprese è una conseguenza del rovesciamento del rapporto tra produzione e mercato che ha portato alla ristrutturazione postfordista dei processi di produzione. La saturazione dei mercati non può che creare le condizioni di una concorrenza feroce tra imprese dello stesso settore sugli stessi mercati. Piuttosto che aumentare i prezzi, anche nella fase di ripresa della domanda, i produttori preferiscono realizzare guadagni di produttività risparmiando sul personale. La globalizzazione delle imprese permette di soddisfare le variazioni della domanda interna di ciascun paese con un’offerta mondiale. Se le capacità di utilizzazione degli impianti sono sature negli Stati Uniti, le fabbriche messicane, cinesi o europee – sovente anche di proprietà americana – completeranno l'offerta americana mancante, soddisfacendo in tal modo l'aumento della domanda negli Stati Uniti. In un'economia globale, in altre parole, la nozione di «capacita nazionale di produzione» non ha più alcun significato operativo. In secondo luogo, il rischio di un'inflazione da costi, provocata dall'aumento dei salari come conseguenza della riduzione del tasso di disoccupazione è notevolmente ridotto nella fase di ripresa del ciclo postfordista. La perdita secca di posti di lavoro nella fase recessiva del ciclo, l'aumento, per contro del numero di posti di lavoro precari, a tempo parziale, come pure la paura di perdere il lavoro (una paura tanto maggiore quanto minori sono le garanzie dello Stato sociale e la forza sindacale), creando una popolazione con «attese diminuite» secondo l’espressione di Paul Krugman, economista al MIT di Boston. I conflitti sociali lungo il ciclo postfordista rivelano infatti cambiamenti tattici delle forze in campo di grande importanza: mentre i sindacati, per difendere gli occupati sono sovente costretti a cedere sul piano salariale o su quello dei «diritti acquisiti» pur di assicurare l'impiego ai loro affiliati, laddove la resistenza alle pressioni padronali è maggiore si ricorre al sub­appalto, dove personale malpagato, non protetto e non sindacalizzato viene assunto just-in-time. L’esempio dello sciopero di tre settimane dei 75 mila Team-sters, i camionisti sindacalizzati americani, del mese di aprile del 1994, viene spesso citato per illustrare la modificazione dei rapporti di forza maturata nel corso del ciclo economico postfordista. Infatti, nel 1979 lo stesso sciopero, durato 10 giorni soltanto, paralizzò l'economia nazionale americana, mentre 5 anni dopo l'economia americana ha continuato ad espandersi senza interruzioni. Il settore dei trasporti, per il ruolo strategico che gioca all'interno dell'economia del just-in-time, in cui la circolazione spaziale delle materie prime, dei semi-lavorati e dei prodotti finiti è fondamentale, è il settore che meglio riassume la logica della politica della deregulation: forma a rete delle imprese, quindi il ricorso sistematico ad imprese esterne per risparmiare sui costi e per aumentare la produttività; dequalificazione del lavoro diretto, specie del lavoro di manutenzione, con effetti spesso disastrosi per quanto riguarda la sicurezza e l'ambiente come espressione della ratio «prima le merci, poi i passeggeri»; massimo sfruttamento degli impianti per accelerare gli ammortamenti del capitale fisso, assunzione di forza-lavoro nel bacino del precariato. Nella fase recessiva del ciclo si ha un'accelerazione della ristrutturazione nella direzione della deregolamentazione, ciò che permette di privare la forza-lavoro, in virtù della forma a rete delle imprese, di uno strumento classico come lo sciopero per resistere contro la compressione dei salari e la svalorizzazione del lavoro[3]. Non è dunque sul versante dei salari che può ripartire l'inflazione perché a causa dell'indebolimento della forza contrattuale degli operai e della riarticolazione spaziale della produzione, i salari aumentano meno degli aumenti di produttività, ciò che fa abbassare il costo unitario del lavoro. La diminuzione reale dei salari innesca anche (e questa è una novità) una pressione da parte dei consumatori per il miglioramento della qualità dei servizi e per un rallentamento dell'aumento dei prezzi dei medesimi, come sta accadendo nel settore della salute statunitense. La resistenza sul fronte del consumo di servizi, come reazione all'indebolimento nei rapporti di forza sul versante della creazione e della distribuzione dei redditi, agisce ciò in modo ristrutturante e razionalizzante nel settore dei servizi, ne fa aumentare la produttività sull'onda delle tecniche postfordiste già sperimentate nel settore industriale. Anche da questo settore, tradizionalmente focolaio d’inflazione per scarsa produttività, non ci si devono attendere spinte verso aumenti inflazionistici dei prezzi. Le tecnologie del postfordismo, proprio per la loro natura informatico-comunicativa, generano effetti intersettoriali decisivi accelerando l'aumento della produttività complessiva del sistema economico. Gli indicatori classici non riescono a misurare gli aumenti di produttività indotti, ad esempio, dalla utilizzazione dei lettori ottici dei prezzi alle casse dei supermercati (riduzione del tempo di rotazione dei beni di consumo), come non riescono a misurare la crescita della produttività generata dall'aumento della potenza degli ordinatori e delle reti tele-comunicative. Essendo indicatori costruiti per misurare un'economia materiale, non riescono a fornire dati statistici relativi al flusso d’informazioni che sta alla base della nuova economia immateriale [4]. La definizione della produttività in termini di output per ore di lavoro, una definizione che, apparentemente, autorizza a non ritenere spettacolari gli aumenti di produttività dei prossimi anni, non rende conto della potenza produttiva contenuta nelle tecnologie informatiche e nei nuovi sistemi di organizzazione aziendale. La potenza produttiva, infatti, non é più misurabile sulla base del solo rapporto tra spese per beni di investimento e loro prezzi: si sa che i beni nei quali le imprese stanno investendo massicciamente sono beni ad alta tecnologia a prezzi rapidamente decrescenti. Ma da ciò non consegue la possibilità di relativizzare l'aumento degli investimenti (nel senso che, diminuendo i prezzi, in termini reali il volume degli investimenti non risulta più così eclatante). Le nuove tecnologie informatiche sono ben più di «macchine da scrivere perfezionate»! I benefici di questa ondata di investimenti non si manifesteranno subito, a causa del tempo necessario per ristrutturare i modi di lavorare e di adattare la formazione professionale, ma è su questo terreno che si gioca l'innovazione del modo di produrre, e nient'affatto sul terreno del solo rapporto quantitativo tra capitali investiti e loro prezzi di vendita. Globalizzazione dell'economia, investimenti ristrutturanti, mutazione dei conflitti sociali e miglioramenti indotti nel settore dei servizi, sono tutti fattori del ciclo postfordista che, interagendo, smorzano l'inflazione nella fase di ripresa. D'altra parte, la centralità dell'agire comunicativo e dell'organizzazione immateriale dei processi produttivi che le è propria rendono meno importanti i rischi d'inflazione derivanti da eventuali aumenti delle materie prime, come il petrolio. In epoca post-materialista, le materie prime piu importanti sono il sapere, l'intelligenza, le qualità cognitive-immateriali attivate lungo i processi produttivi. Le materie prime fisiche, fondamentali nell'epoca fordista, perdono di peso rispetto alle risorse umane immateriali nella determinazione dei prezzi finali di beni e servizi. Ciò non significa che la natura reale del ciclo economico postfordista porti di per se a dissuadere le autorità monetarie dall'intervenire sui tassi di interesse (elevandoli) non appena si registri una variazione del livello generale dei prezzi. È vero, semmai, il contrario, e cioè che le autorità monetarie, anticipando un'inflazione altamente improbabile arrischiano di crearla esse stesse destabilizzando i mercati finanziari e monetari, creando aspettative auto­validantesi. Le autorità monetarie fanno il loro mestiere, che è quello di prevenire la spirale inflazionistica agendo sugli aggregati monetari. Che gli indicatori da loro utilizzati siano sbagliati, inadeguati a riflettere la dinamica del ciclo economico postfordista, sembra ormai certo. Sta di fatto che è proprio sulla base di questa tensione tra «economia reale» e «economia monetaria» che i cicli economici si stanno gradualmente sincronizzando. Stati Uniti, Europa e Giappone, i tre «poli» i cui cicli economici sono stati in passato de-sincronizzati (con notevoli vantaggi per l'economia statunitense), si avviano verso la sincronizzazione dei loro rispettivi cicli. Infatti, se è vero che nell'economia globale postfordista l'offerta dì beni e servizi è mondiale, è altrettanto vero che la domanda, da nazionale, si fa gradualmente ed irreversibilmente mondiale. La deregolamentazione dei mercati finanziari dei primi anni '9o porta alla sincronizzazione dei cicli economici perché, grazie alla mobilità internazionale dei capitali, accelera la ristrutturazione postfordista laddove essa è ancora in ritardo, mentre rallenta l'espansione laddove la ristrutturazione dei processi produttivi è già avvenuta. Di conseguenza, nell'economia globale la moneta del paese che si trova più vicino al termine della fase espansiva del ciclo si svaluta in rapporto alle monete dei paesi ancora in fase di ripresa. È quanto è accaduto nel corso del 1994. Paradossalmente, gli aumenti dei tassi di interesse degli Stati Uniti decisi dalla Federal Reserve per anticipare la ripresa inflazionistica, sono stati accompagnati dalla svalutazione del dollaro, contraddicendo tutti coloro che ancora pensavano che i tassi di interesse più elevati negli USA avrebbero attirato capitali dall'Europa e dal Giappone, rafforzando di conseguenza la moneta americana. È successo letteralmente l'opposto: il dollaro si è svalutato, permettendo all'economia americana di alimentare le esportazioni (e i profitti) in un periodo in cui la bilancia commerciale americana non ha cessato di deteriorarsi (a causa della forte crescita della domanda interna agli USA durante il 1993 e il '94 a fronte di una stagnazione della domanda all'interno degli altri paesi ancora in fase di ristrutturazione). Il rafforzamento delle altre monete, per contro, ha frenato l'aumento dei tassi di interesse nei paesi ancora in fase di ripresa, evitando così ad Europa e Giappone di dover smorzare troppo presto la ripresa e di ridurre le importazioni dagli USA. Senza una modificazione dei tassi di cambio delle monete quale effetto della «curiosa» svalutazione del dollaro, i tassi di interesse europei e giapponese sarebbero aumentati assai più rapidamente. È in questo modo che Stati Uniti, Europa e Giappone stanno sincronizzando i propri cicli: la fase espansiva americana, prolungandosi grazie alla svalutazione del dollaro che assicura l'aumento della domanda mondiale di beni e servizi, terminerà non appena le economie europee e giapponese saranno costrette a rallentare la loro ripresa in conseguenza di un aumento eccessivo dei loro tassi di interesse. Nel corso del 1994 sono state soprattutto le esportazioni verso il Nord America, l'America latina, l'Asia e i paesi dell'Est europeo a «tirare» le economie europee, mentre la domanda interna di beni durevoli non ha dato segni di ripresa consistente, tenendo in tal modo bassi i tassi di inflazione e simmetricamente alti i tassi di interesse reali. Si può quindi dire che la crisi degli indicatori economici contribuisce ad accelerare la globalizzazione non solo dei processi produttivi (dell'offerta) ma anche della domanda di beni e servizi. Se da una parte, in un mercato finanziario internazionale fortemente liberalizzato, si può solo parlare di offerta mondiale di moneta, dall'altra parte la natura non-inflazionistica della ripresa economica post-fordista muove i capitali secondo logiche diverse dal passato. I capitali si spostano da un mercato all'altro anticipando just-in-time le variazioni della domanda di beni e servizi, indipendentemente dalle variazione dei tassi di interesse reali. E non potrebbe essere diversamente in un regime economico con un'abbondante disponibilità di capitali, in cui contano sempre più le oscillazioni della domanda, oscillazioni che vanno anticipate per poter essere capitalizzate. Se questo è vero, e la dinamica del ciclo economico della prima metà degli anni '90 sembrerebbe confermarlo, i movimenti contraddittori tra tassi di interesse e tassi di cambio delle monete sono, in realtà, perfettamente coerenti con il paradigma produttivo post­fordista. Una riprova di quanto siamo venuti dicendo la si ha nel processo di globalizzazione degli investimenti americani. Tra il 1992 e il 1994 sono aumentati fortemente gli investimenti americani all'estero. Man mano che la ripresa fuori dagli USA è venuta rafforzandosi, i capitali si sono mossi verso l'esterno degli USA. L'aumento molto lento di beni e servizi e la politica prudente delle banche centrali che globalmente comprime l'offerta di moneta sul piano mondiale, fa si che la ripresa in Europa e in Giappone e nei paesi in via di sviluppo sia considerata degli investitori statunitensi al riparo da rischi inflazionistici tali da deprezzare troppo presto il valore dei titoli a cui il «global investor» [5] ha piazzato i suoi capitali. Di fatto, in termini reali i tassi di interesse tedesco e giapponese sono superiori a quelli statunitensi, appunto perché in questi paesi l'aumento dei prezzi è stato quasi nullo. D'altra parte, la crescita della domanda interna degli USA è stata fin qui possibile grazie al prosciugamento del risparmio interno, caduto a livelli record (3,8% del reddito disponibile) nel corso del 1994, e all'aumento del credito al consumo. Si spiega così il paradosso della svalutazione del dollaro a fronte dei ripetuti aumenti dei tassi di interesse americani: i capitali sono andati laddove gli investitori hanno anticipato un aumento della domanda (più bassi tassi inflazionistici e più elevati margini di risparmio spendibile rispetto agli USA). Mai come nel postfordismo l'«adagio» eterodosso secondo cui è la domanda che crea l'offerta sembra perfettamente confermato. Resta il fatto che nei paesi economicamente avanzati, e in particolare negli Stati Uniti, si sta giocando una partita decisiva attorno alla questione dell'inflazione. Da una parte, coloro che sostengono che l'impennata inflazionistica è «dietro l'angolo», malgrado l'inesistenza di segnali in tal senso ancora alla fine del 1994, fanno il possibile costringere le autorità monetarie ad aumentare tassi di interesse, mirando in tal modo a proteggere i redditi (le rendite) dei detentori di buoni del Tesoro. A guadagnarci dai ripetuti alimenti dei tassi di interesse, infatti, è solo la classe di reddito più elevata che detiene la maggior parte dei titoli, mentre la classe media e medio-bassa maggiormente indebitata subisce un'ulteriore riduzione del suo reddito spendibile. Ne risulta così un netto peggioramento della distribuzione dei redditi. D'altra parte, la crescita economica non-inflazionistica, per le caratteristiche che siamo venuti elencando, non sembra governabile facendo leva sui tassi di interesse, e questo favorisce coloro che vogliono regolare il ciclo economico con la politica fiscale. I tassi di interesse reali, risultanti dalla differenza tra tassi nominali e tassi di inflazione, sono già molto elevati, al punto che le banche stanno rendendo il credito sempre più facile, ciò che rende ancora meno efficace la politica monetaria della banche centrali [6]. Tutto ciò non fa che confermare l'urgenza di ridefinire gli indicatori statistici a partire dalla trasformazione postfordista dell'economia.

Da ultimo, la sincronizzazione dei cicli economici modifica alla radice la razionalità della divisione internazionale della ricchezza. I poli di crescita Stati Uniti, Europa e Giappone si stanno infatti gerarchizzando tra loro e con il resto del mondo non soltanto in virtù della loro potenza economica, ma sempre più sulla base della loro posizione rispettiva nel flusso mondiale di informazioni. Sotto questo profilo, importa relativamente poco se il tasso di crescita annua della provincia cinese di Guangdong è pari al 15%, mentre negli Stati Uniti o in Europa lo stesso tasso è pari solo al 2 o al 3% [7]. Conta assai di più il fatto che il sistema globale delle reti informatiche delle tele-comunicazioni cresca al ritmo mensile del 15%, perché questo tasso misura la crescita del potere e della sua gerarchia su scala mondiale, il potere derivante dal comando sulle nuove risorse strategiche. E il comando sui processi di globalizzazione delle reti informatico-comunicative che deciderà della nuova divisione internazionale del potere. Il potere si sta rapidamente avviando verso la gerarchizzazione della divisione internazionale della proprietà del sapere, della proprietà di quella «materia prima» il cui costo determina in modo crescente i prezzi relativi dei beni e servizi scambiati sul pano internazionale. L'importanza degli accordi commerciali multilaterali di questi ultimi anni non è che il prologo della modificazione nei contenuti dei futuri accordi internazionali. D'ora in poi patenti, copyrights, trade-marks e trade-secret saranno i veri oggetti del contendere nei negoziati internazionali [8].

La ridefinizione della divisione internazionale del comando politico ed economico non ha nulla di occasionale, segue le linee geografiche tracciate dagli investimenti e dalle concentrazioni di capitali nelle reti della tele-comunicazione. I tempi di realizzazione sono definiti dalla resistenza delle barriere all'entrata dei capitali nei paesi del globo, e cioè dal loro grado di deregolamentazione. In questa tele-geografia del pianeta, risultante di decisioni di investimento, di alleanze, di concentrazioni e fusioni, matura la nuova divisione del lavoro dei prossimi decenni all'interno della quale la distribuzione del lavoro verrà determinata gerarchicamente dai differenziali del costo del lavoro. La posizione di ciascun paese dipenderà dalla sua capacità di capitalizzare il lavoro vivo immateriale, il sapere e la conoscenza, e dalla possibilità di rovesciare i costi del sapere della conoscenza sui prezzi relativi, veri veicoli dello «scambio ineguale» tra i nuovi centri e le nuove periferie, tra i nuovi Nord e i nuovi Sud.

ln questa geo-politica economica, come ha scritto recentemente Massimo Cacciari, «l'Europa

non decade tramontando, ma decade perché rifiuta il tramonto, perché vi resiste invece di insistervi» [9]. Ma insistere per far tramontare questa Europa, «mausoleo di ricordi», luogo di concorrenza spietata tra paesi membri, calvario di violenze e lotte fratricide, comporta la costruzione di un'unità europea a partire dai suoi saperi specifici. In un'economia postfordista, in cui il lavoro immateriale ha una valenza strategica, lo Stato europeo può solo essere uno Stato extra-territoriale, uno Stato cioè che rispetta e valorizza i saperi locali, senza ucciderli sul nascere con l'imposizione di regole, norme e tassi di cambio ereditati dal regime di crescita fordista e dal sistema di scambi tra nazioni che gli era proprio, quel sistema che oggi riproduce su scala europea la «società duale» a due velocità [10]. La «libera circolazione delle merci» non può nulla se non diventa libera circolazione dei saperi e delle identità sociali che questi saperi producono.

Per essere «liberi» i saperi locali devono poter essere rimunerati attraverso dispositivi ridistributivi sovrannazionali tali da garantire la continuità degli investimenti locali o regionali nella Ricerca e Sviluppo, laddove cioè la ricerca è impregnata di comunità sociale e politica. Senza questo salto l'Unione Europea non è «destinata al tramonto», è già tramontata.

L'analisi del ciclo economico postfordista, con le sue «stranezze» rispetto ai cicli precedenti, ha rivelato precisamente la natura di questo salto innovativo e ristrutturante, i suoi effetti politico-istituzionali su scala mondiale, come pure la necessità di elaborare nuove regole senza le quali i pericoli che ci stanno di fronte saranno troppi rispetto alla nostra capacità di risolverli.



Note

[1] Cfr. Erik Izraelewicz, L'Amerique sans l'inflation, Le Monde, 19 April 1994

[2] Dal 1993 il settimanale «Business Week» ha pubblicato una serie molto lunga di articoli, analisi, commenti sulla crescita non inflazionistica, criticando la politica della Federal Reserve. «The Economist», per contro, persiste col suo approccio monetarista, cercando in tutti i modi di mantenere alta la tensione sull'«imminenza dell'inflazione».

[3] v. Sergio Bologna, Volare è un po' cadere. I perversi meccansimi della deregulation aerea, in «il manifesto», 21 febbraio 1989.

[4] Sulla crisi degli indicatori statistici si veda The real Truth about the Economy. Are Government statistics so much pulp fiction in «Business Week», 7 novembre 1994, p. 44-49.

[5] v. The Global Investor. As foreigns economies revive, Americans are buying up overseas stocks in «Business Week», 19 settembre 1994, p. 40-47

[6] v. George Graham, Haunted by the spectre of inflation, in «Financial Times», 27 ottobre 1994, p.15. Del tutto in linea con la tesi dell'inflazione «dietro l'angolo» è il Wall Street Journal, come risulta evidente da un suo editorale Taxing to Prosperity del 27 ottobre 1994. Si noti che, per essere incisiva nella sua lotta contro l'inflazione, la FED dovrebbe aumentare di molto i tassi d'interesse. Infatti, la crescita dei settori dei servizi (meno sensibile alla variazione dei tassi d'interesse a breve), l'aumento del credito non bancario alle imprese (come conseguenza del ruolo sempre più decisivo della domanda) e la globalizzazione dell'economia (e quindi la forte presenza di acquirenti stranieri) sono tutti fattori che indeboliscono il suo ruolo.

[7] v. The Information Revolution in «Business Week», 13 giugno 1994, p.38. Sulla «mappa» degli investimenti nella rete delle telecomunicazioni, si veda The Global Free-for-All. As huge new telecom markets open, carriers aim to carve up the world in «Business Week», 26 settembre 1994.

[8] Cfr. Trade tripwires. Tighter patent and copyright laws well soon become part of world trade rules. Fear that developing countries lose heavily are ill-founded in «The Economist», 27 agosto 1994.

[9] Massimo Cacciari, Geo-filosofia dell'Europa, Adelphi, Milano, 1994, p.168.

[10] In questa direzione vanno i risultati dello studio di Pierre Maillet e Dario Velo (a cura di), L'Europe à géométrie variable. Transition vers l'intégration, L'Harmattan, Paris, 1994.



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Christian Marazzi, dopo aver insegnato all’Università di Padova, alla State University di New York e alle Università di Losanna e di Ginevra, è diventato docente presso la Scuola universitaria della Svizzera italiana. È autore di numerose pubblicazioni in campo socio-economico e politico; in particolare di saggi sulle trasformazioni del modo di produzione postfordista e sui processi di finanziarizzazione, tra le quali segnaliamo: E il denaro va. Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari (Bollati Boringhieri, 1998), Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica (2° ed., Bollati Boringheri, 1999), Capitale e linguaggio. Dalla new economy all’economia di guerra (DeriveApprodi 2002), Finanza bruciata (Casagrande, 2009), Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale (Ombre corte, 2010), Diario della crisi infinita (Ombre Corte, 2015) e Che cos’è il plusvalore? (Casagrande, 2016).


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