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Il metodo Revelli e la miseria del ghetto



Nuto Revelli
Immagine: Lenora de Barros, Poema #3, 1979

Questo primo articolo della sezione «longitudini», a firma di Marco Garbaccio, interroga una questione fondamentale del metodo storico: le fonti. E lo fa a partire non solamente dal cosiddetto «contesto», ma anche e soprattutto nella prospettiva della produzione di tracce del passato, di memorie capaci di riportare al presente eventi che, per numerose ragioni, stanno scivolando verso l'oblio. Garbaccio, nell'imboccare questa traiettoria analitica, torna al metodo di Nuto Revelli. Ad affrancarsi da ogni possibile definizione che lo possa collocare nelle forme riconosciute di produzione di sapere, è lo stesso Revelli che travalica la tradizione scientifica e rompe con il modo formalizzato di fare approcciare lo studio del passato. Con questo primo contributo intendiamo illuminare, come rubrica «longitudini», lo slittamento di senso nel fare storia, tanto nelle pratiche, quanto nell'approccio e nelle finalità.


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Revelli Benvenuto, autodidatta.

Scegliere un’unica apposizione per descrivere il personaggio di Nuto Revelli si è rivelato compito assai problematico. La biografia dell’intellettuale cuneese spazia attraverso tempi, luoghi, opere e persone: dal biennio speso alla Regia Accademia Militare di fanteria e cavallerie di Modena appena ventenne (1939) alla pubblicazione del L’anello forte (1985) trascorrono circa quarantasei anni; nel mezzo la campagna di Russia, la ritirata attraverso le pianure dell’Europa dell’Est e poi la guerra partigiana, la difesa delle valli, infine il racconto, suo e della sua gente.


 

Il rifiuto dell’accademia

Esplicita e veemente, la volontà di estraniarsi dalla metodologia dell’universo accademico diviene essa stessa modus operandi caratteristico delle opere di storia orale del Nuto Revelli ricercatore. «Non sono dottore, non sono professore, sono niente, ecco tutto» afferma nelle pagine introduttive de Il testimone, l’opera raccoglitrice delle risposte date dall’autore a vari interlocutori, desiderosi di comprendere la sua attività d’indagine tra le comunità montane del cuneese, gli ex-partigiani delle campagne e i contadini langaroli.

  Come frutto delle riflessioni degli oralisti che lo hanno succeduto, che il diretto interessato avrebbe con ogni probabilità aberrato, Revelli viene inserito in una particolare categoria di ricercatori «eterodossi» a cavallo del secondo e terzo quarto del Novecento. Attivi nel dopoguerra, mossi dal desiderio di dare sfogo alle memorie dei «sommersi» della storia, si tratta, in massima parte, di intellettuali con un retroterra di militanza politica e lotte, militari e di classe. Parliamo di veri precursori della storiografia orale, disciplina che vedrà il riconoscimento nelle cattedre italiane solo agli inizi degli anni ʼ70. In questo contributo è significativo ricordare: Gianni Bosio e il suo lavoro di raccolta di canti popolari toscani e di testimonianze di vita del Mantovano; Ernesto de Martino, fecondo studioso dei fenomeni di sincretismo religioso delle regioni del Sud, quest’ultimi spesso posti all’origine di credenze e rituali tradizionali del Meridione; Danilo Montaldi e la vita delle famiglie operaie lombarde del boom economico.

  Revelli fece dello studio solitario e della pratica collaudata le bandiere della sua ricerca. Il rifiuto categorico degli epiteti accademici nasconde il desiderio di non elevarsi al di sopra dei propri interlocutori, in parte anche per limitare le aspettative scientifiche sul suo operato da ricercatore: l’autore sembra voler mantenere il carattere genuino delle proprie indagini, votate al semplice racconto di un definito spaccato sociale, difendendo queste dalle metodologie e dalle «buone pratiche» di una disciplina ancora acerba. In realtà, come vedremo, il «metodo Revelli» esiste e rispetta non pochi dettami sperimentati.

 


Il «metodo Revelli»

Ne L’elogio del magnetofono (1998), Gianni Bosio celebra l’avanzamento tecnico e la conseguente acquisita dignità dei racconti orali: «[...] il magnetofono restituisce alla cultura affidata ai mezzi di comunicazione orale lo strumento per emergere [...]. La possibilità di fissare col magnetofono modi di essere, porsi e comunicare [...] ridona alla cultura delle classi oppresse la possibilità di preservare i modi della propria consapevolezza, cioè della propria cultura». Revelli fa proprie le riflessioni di Bosio e sceglie l’invenzione degli anni ʼ30 quale compagno di lavoro prediletto.

Egli, nel corso della sua attività, svilupperà una serie di consuetudini che permetteranno al suo magnetofono di entrare nelle case dei contadini piemontesi, ospitali certo, ma da sempre restii ad esporsi pubblicamente, e soprattutto nelle loro vite.

La preparazione di ogni intervista racchiude diplomazia e conoscenza del contesto di appartenenza dell’interlocutore. Revelli è accompagnato da una figura che lui stesso definisce «il mediatore»: il ponte che collega ricercatore e intervistato. «Il mediatore» propone le conversazioni da registrare, introduce e presenta il nuovo venuto come una persona fidata; il suo intervento è fondamentale per fare breccia nella diffidenza degli anziani, una sfiducia giustificata che non offende, ma che va affrontata con apertura.

  Il tempo di arrivo è altrettanto essenziale. L’autore cuneese racconta nei suoi scritti di prediligere l’inverno. Nella stagione fredda, infatti, i campi riposano e i contadini tirano il fiato assieme ad essi; «nelle altre stagioni anche i novantenni lavorano», spiega, non c’è tempo per raccontarsi. Per lo stesso motivo, la serata è il momento in cui i lavoratori, agricoli ma anche di fabbrica, sono più ricettivi. Ne Il mondo dei vinti – la principale raccolta di conversazioni intrattenute da Nuto Revelli con gli abitanti della Granda – l’autore descrive le difficoltà incontrate nell’ottenere stralci di tempo all’interno delle giornate di lavoro dei vecchi: «Non è facile entrare nelle case contadine, non è facile inchiodare un contadino a un tavolo per ore e ore»; in molti si alzano a metà discorso per tornare in campagna.

  Il linguaggio comune è aspetto imprescindibile per ottenere l’apertura dell’intervistato. Il dialetto è il principale lasciapassare, è condizione non sufficiente ma necessaria all’intavolarsi del dialogo. Chi non parla piemontese è straniero, con esso vige l’autocensura.

L’autocensura si vince con l’ascolto. Apprendere è la costante che ritorna ciclicamente negli scritti dell’alpino da Cuneo. Si ascolta con attenzione, per imparare, mostrando interesse anche quando le storie deragliano dai binari programmati. Il ricercatore può introdurre alcune tematiche d’interesse, porre l'accento o insistere su altre, ma è vivamente sconsigliato interrompere il flusso del racconto. In alcuni casi, l'interlocutore si sforza di giungere nel minor tempo possibile ad un determinato tema, spesso la guerra. Reduci, ex-partigiani, combattenti del 15-18, vecchi stanchi che premono per poter raccontare le ferite dei combattimenti. Revelli mostra come sia cruciale tergiversare, permettere ad altri argomenti di emergere, prima di affondare nei resoconti delle bombe e delle privazioni del conflitto: uomini con un vissuto e dei saperi da tramandare, prima che soldati.

Il «metodo Revelli» si chiude con gli obblighi degli ospiti. Vino e caffè erano imposti in tutte le case. Il bicchiere di vino prodotto dai contadini andava accettato, per non offendere; un accenno di ospitalità contadina.

 


La feticizzazione della miseria

Oltre a commilitoni, combattenti del CNL e reduci di Vittorio Veneto, Revelli dedica Il mondo dei vinti e L’anello forte all’indagine della nuova realtà del cuneese degli anni ʼ60 e ʼ70, travolta dal progresso del capitale: le grandi fabbriche, Michelin e Ferrero su tutte, divengono calamite sociali per le nuove generazioni, in fuga dalle fatiche contadine dei padri e dei nonni, così le aree depresse si svuotano. Le campagne arretrate del cuneese, feudo della Monarchia nel referendum del 1946, sono la perfetta fonte di manodopera disillusa, attirata dallo stipendio operaio e senza vere alternative. I pullman delle aziende iniziano il rastrellamento delle matote e dei fanciot (ragazze e ragazzi) all’alba, i campi si desertificano di giorno e rimangono solo i vecchi. Al tramonto il ritorno a casa, la ruralità ringiovanisce di nuovo per il tempo di una nottata.

  Ma la Granda non sperimenta uniformemente le stesse miserie. Le pianure che da Cuneo giungono alle porte di Torino sono puntellate di latifondi ricchi, aziende agricole e frutteti d’avanguardia. I veri miliardari, racconta Revelli, si trovano nel Saluzzese, a Fossano e a Racconigi, dove l’agricoltura è moderna e non si è indebitata, a forza di cambiali, per acquistare il trattore più potente, come invece successo nei piccoli poderi fuori Cuneo, sulle montagne e nell’Alta Langa. Qui, alla migrazione giornaliera verso le industrie si è risposto con un turismo insensato.

«Il turismo che non rispetta l’ambiente, che ferisce il paesaggio, che umilia il fragile tessuto contadino, non fa che riproporre sotto nuova forma l’antico sfruttamento, l’eterno colonialismo», Revelli si scaglia contro gli agriturismi barbari, le colate di cemento sulle creste di Limone Piemonte e Prato Nevoso, le seconde, terze e quarte case degli abitanti delle città, agglomerati sfitti per la maggior parte dell’anno che diventano appendici di Torino solo in alta stagione.

Ma la feticizzazione della miseria non è relegata al solo universo immobiliare.

  È del 24 agosto 2023 la dichiarazione del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, secondo cui «da noi spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi, cercando dal produttore l’acquisto a basso costo spesso comprano qualità». Il significato superficiale potrebbe essere quasi condivisibile: l’individuo meno abbiente che, per evitare i costi della grande distribuzione, compra il necessario per il suo sostentamento direttamente dal produttore, la definizione di filiera corta per intenderci.

Ma è davvero così? O sono solo parole frutto di un profondo distacco dalla realtà?

  L’alpino da Cuneo, nelle sue ricerche tra i «sommersi» della storia, ha continuamente rifiutato la visione nostalgica degli ecosistemi rurali: «non ho mai detto a un montanaro – beato te che respiri quest’aria sana, beato te che vivi delle nostre cose perdute». Il paternalismo delle città e del progresso nei confronti della tradizione e dei saperi tramandati si ripresenta, più di cinquanta anni dopo. Dopo essersi impegnati a fondo per ghettizzare montagna e aree contadine, da Revelli in poi hanno trasformato queste in specie protette, da visitare una volta e commiserare nel resto dell’anno. Modelli di vita a cui ispirarsi, ma troppo faticosi da replicare davvero.

Ma se sono i «poveri», come afferma il ministro, ad essere obbligati a rifornirsi direttamente dai produttori per risparmiare e limitare le spese, scegliendo prodotti di qualità meno lavorati e più sostenibili, allora chi è che andrebbe realmente commiserato?


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Marco Garbaccio è dottorando in Ecogastronomia, scienze e culture del cibo presso l'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Il suo progetto di ricerca intende utilizzare gli strumenti offerti dalla storia orale, e attraverso interviste semi-strutturate, l'evoluzione antropologica e storica del foodscape del basso Piemonte in epoca contemporanea.

 

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