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Fratture e alleanze nella gestione dell’oikos 



Maria Lai, Legarsi alla montagna, 1981, Domusweb

Evelyn Leveghi propone sei approfondimenti sulla storia della Food Governance, attraverso l’analisi critica di una serie di episodi cruciali avvenuti negli anni Novanta. Ci condurrà in un percorso a tappe, in cui sarà possibile osservare da vicino la fisionomia delle questioni che sono state – e tuttora sono – al centro delle più accese contese e negoziazioni in materia di alimentazione, agricoltura e uso delle risorse naturali.

Qui di seguito il suo primo contributo.


* * *

 

«Le questioni più appassionanti si collocano spesso al punto d’incontro dei processi globali con le loro manifestazioni locali»

(Sebastian Conrad, Storia globale)

 

Il 1992 è stato un anno spartiacque nella storia del tempo presente[1] e il culmine di un ampio processo di politicizzazione delle relazioni socio-ecologiche. Nello stesso anno si verificarono la convergenza degli esiti di lunghi iter politico-economici e l’attuazione di importanti rinnovamenti negli assetti nazionali e globali. Particolarmente significativo per la storia italiana (Tangentopoli e le stragi di Capaci e di via D’Amelio), cruciale per quella europea (la firma del Trattato di Maastricht) e non meno rilevante per la geopolitica mondiale (scoppio della guerra in Bosnia ed Erzegovina, fine dell’apartheid sudafricano, «intesa comune» tra Stati Uniti e Russia, firma dell’accordo NAFTA[2]), il 1992 rappresenta un singolare periodo di dedali politici, accordi economici e nuovi sodalizi.

Al di là della fitta coltre mediatica concentrata sui fatti di cronaca che si susseguirono nel mondo, si possono ravvisare tre convegni che hanno segnato la storia della cooperazione internazionale e dei movimenti sociali: il congresso dei produttori agricoli in Nicaragua, la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo di Rio de Janeiro e il parallelo Global Forum delle Ong. Distinti ma strettamente connessi, i tre eventi ebbero una forte valenza socio-politica e sono considerabili come pietre miliari della governance globale.

 

«Illuminare la fisionomia dei processi di sviluppo».[3]

Le questioni affrontate trasversalmente ai tre incontri riguardano i rapporti critici tra ambiente e sviluppo economico e tra agricoltura ed economia di mercato. Il contesto in cui si proposero e svolsero il «Vertice della Terra» dell’Onu e il Global Forum di Rio era di grande preoccupazione per le condizioni ambientali, divenute particolarmente severe, per scala ed intensità. La politicizzazione di tali problemi si era sviluppata prevalentemente nel Nord globale, sin dall’inizio degli anni Sessanta, con il riemergere delle mobilitazioni relative all’ambientalismo[4] e la manifestazione degli effetti negativi dello sviluppo tecnologico sull’ambiente e la salute umana. Su iniziativa dell’ambasciatore svedese delle Nazioni unite[5], nel dicembre del 1968 l’Onu indisse una Conferenza per  affrontare tali problematiche. Nel frattempo, si ottenne un formale riconoscimento dell’interrelazione tra sviluppo e ambiente, grazie al Rapporto Founex[6] (1971) e a una dimostrazione della proporzionalità diretta tra industrializzazione ed esaurimento delle risorse naturali, presentata nel rapporto «The limits to Growth»[7] (redatto dal Mit nel 1972). Nel giugno dello stesso anno, dopo una serie di traversie diplomatiche e tensioni politiche tra governi[8], si inaugurò a Stoccolma la Conferenza delle Nazioni unite sull’Ambiente umano. Il motto recitava «Only One Earth»[9] ed in esso si vollero condensare nuove consapevolezze: l’unicità del pianeta (analogo principio del più recente slogan «There is no planet B») e il legame che unisce uomo e natura. Il summit segnò un formale cambio di passo nelle relazioni internazionali, in particolare nell’asse Nord-Sud, ed inaugurò «una nuova era dei rapporti tra i paesi del mondo, basata sulla cooperazione multilaterale» (Nespor 2022, p. 7). Gli esiti furono importanti: venne istituito un programma globale dedicato ai temi ambientali[10] (United Nation Environmental Programme, UNEP), si posero le basi per l’istituzione del diritto ambientale, ci fu una prima apertura alla partecipazione di attori non statali e furono redatti due documenti essenziali – la Dichiarazione di Stoccolma e lo Stockholm Action Plan[11] ‒ contenenti principi fondamentali e raccomandazioni pratiche per i governi. Per la prima volta nella storia le questioni ambientali divennero materia di politica internazionale e si comprovarono i nessi tra sistemi ecologici, economici e sociali (la cui stabilità era minacciata da rischi interconnessi)[12]. Nel 1982, una sessione speciale del Consiglio direttivo dell'UNEP, incaricato di esaminare i progressi compiuti dopo Stoccolma, riconobbe la necessità di attuare una pianificazione ambientale integrata, a lungo termine e molto più estesa. A tal fine venne istituita la «Commissione Brundtland», organismo indipendente atto a «riesaminare le questioni critiche dell'ambiente e dello sviluppo e formulare proposte innovative, concrete e realistiche per affrontarle» e «rafforzare la cooperazione internazionale in materia di ambiente e di sviluppo»[13].

 

«Uno dei più straordinari eventi congressuali internazionali del secolo»[14]

A distanza di vent’anni da Stoccolma, nel giugno 1992, si tenne il secondo vertice intergovernativo delle Nazioni unite (UNCED), denominato anche Earth Summit, finalizzato ad «esaminare i progressi compiuti e promuovere accordi di follow-up»[15].  Oltre cento capi di Stato e rappresentanti politici da 178 territori del mondo e circa 30.000 persone raggiunsero Rio per il Summit. Ebbe un’eccezionale risonanza mediatica e riscosse un grande interesse pubblico. Fu la più grande conferenza internazionale mai svolta fino a quel momento, ma, al di là dei grandi numeri, rappresentò l’apice di un processo negoziale senza precedenti, durato quasi cinque anni. Di inedita complessità, l’articolato excursus politico consentì di poter giungere a Rio con le convenzioni pronte per essere firmate: una dichiarazione di obiettivi e principi generali, la «Rio Declaration» e un «Piano d’azione» con misure specifiche, operative, per gli Stati: l’Agenda 21, antesignana dell’attuale Agenda 2030. La necessità di rallentare la crescita fu espressa con particolare enfasi e convinzione, alla luce delle profonde ripercussioni negative sull’ambiente e la salute che si registrarono negli anni Settanta e Ottanta[16] . Il valore politico di questo meeting risiede proprio nello sforzo congiunto, senza eguali, per elaborare una linea programmatica condivisa, globale, concertata, a partire dal rispetto delle specificità nazionali.

Uno degli aspetti più sorprendenti fu l’inclusività sociale, inedita per una conferenza Onu. Sin dalle riunioni della fase preparatoria, le Ong poterono intervenire e presentare dichiarazioni scritte. Ai negoziati finali non era loro consentito partecipare alle discussioni, ma molti governi ingaggiarono rappresentanti delle Ong nelle proprie delegazioni. Tale coinvolgimento della società civile segnò una tappa storica, molto rilevante, nel lungo percorso di democratizzazione dei processi decisionali della governance globale, che è ancor oggi in evoluzione.

La Conferenza condusse ad una serie di rilevanti esiti concreti: venne costituita una commissione dedicata allo sviluppo sostenibile[17], finalizzata ad implementare l’Agenda 21, e venne formulato il concetto di «sviluppo sostenibile», fondato sulla necessità di integrare la protezione dell'ambiente con lo sviluppo socio-economico (tema scottante nel dibattito pubblico odierno, soprattutto per la scarsa efficacia dei programmi di attuazione[18]). Vi fu un exploit di accordi multilaterali, ratificati collegialmente,  che hanno segnato la storia degli ultimi 30 anni: la Convenzione quadro sul cambiamento climatico, stabiliva i principi secondo cui «il cambiamento climatico è un problema serio» e che «l'azione non può attendere la risoluzione delle incertezze scientifiche»; non prevedeva impegni politici vincolanti, ma indicava che i paesi industrializzati avrebbero dovuto puntare in primis a riportare le emissioni di gas serra ai livelli del 1990 entro il 2000. La Convenzione sulla diversità biologica, concepita per preservare la biodiversità attraverso la protezione delle specie e degli ecosistemi, sancì che gli Stati hanno «diritti sovrani» sulle risorse biologiche presenti sui loro territori, i cui frutti dovrebbero tuttavia essere condivisi in modo «giusto ed equo», a «condizioni reciprocamente concordate». Molto eclatante fu il rifiuto degli Stati Uniti di firmare tale accordo. L’Agenda 21 venne pensata invece come guida pratica per i governi e come strumento atto ad accogliere stimoli e iniziative dal basso; essa diventò il principale documento intergovernativo di riferimento fino all’istituzione dell’Agenda 2030, nel 2015. La Dichiarazione di Rio espose i principi per guidare l’azione sull’ambiente e lo sviluppo, tra i quali risultano particolarmente ambigui e contrastanti quelli relativi alle relazioni tra commercio e ambiente. Ciò non stupisce poiché la tendenza comune era di interpretare l'ambiente come un ostacolo alla crescita economica e molti governi e imprese non erano disposti ad adeguare le produzioni a standard ambientali (reticenza ancora molto viva oggi seppur celata da slogan di «sostenibilità» e da operazioni di «greenwashing»). Infine, l’accordo denominato Principi della Foresta delineò una serie di norme di protezione e gestione del patrimonio boschivo, ma definì anche il diritto sovrano di poter sfruttare le risorse forestali sul territorio nazionale. Non fu una vera e propria convenzione e ciò riflette la mancata volontà di porre fine all’accaparramento di tali risorse, particolarmente decisive nei settori alimentare, energetico e dei mangimi animali.

Tirando le somme, da una parte molte aspettative vennero deluse, perché gli accordi non furono vincolanti, soprattutto in merito alla limitazione delle emissioni di gas serra, alla conservazione delle foreste e alla tutela delle specie minacciate e delle aree naturali ad alto tasso di biodiversità. Gli accordi non furono sufficienti a dimostrare che i paesi fossero pronti, o seriamente intenzionati, ad attuare i cambiamenti necessari per affrontare le sfide ecologiche. Dall’altra, la maggior parte dei governi si ritenne soddisfatta per il solo fatto di essere giunta alla firma degli accordi e decise di procedere con gradualità e ponderatezza. Benché si sarebbe potuto compiere uno sforzo maggiore in termini di chiarezza, responsabilità ed efficacia , va riconosciuto che notevoli passi avanti sono stati fatti nella strada verso Rio, nonostante le molteplici difficoltà diplomatiche. Rimane una questione di fondo: come disse Alexander Langer[19], «sul treno dello sviluppo sostenibile due terzi dell’umanità non potranno salirci.»

 

Costruire una visione comune, alternativa, dal basso

In parallelo all’Earth Summit, si svolse il Forum globale della società civile. Voluto e programmato dalle Ong e dai movimenti sociali, riconosciuto ufficialmente dall’Onu, esso registrò circa 10.000 presenze da tutto il globo. Le attività svolte furono numerose: seminari, conferenze, riunioni, mostre, eventi culturali e politici. Nelle conferenze intergovernative oltre 500 gruppi si riunirono per discutere i temi caldi relativi all’ambiente e allo sviluppo. Gli incontri furono animati da un intenso dibattito su un’ampia gamma di questioni spinose. Le istanze primarie riguardavano l’incremento della partecipazione dei cittadini al processo decisionale, l’equità dell’ordine economico internazionale, la protezione ambientale e l’efficacia dell’operato Onu. In un’intervista rilasciata da Alexander Langer, successiva al Forum[20], egli evidenziò la grande portata storica di questo ritrovo internazionale della società civile, prima occasione in cui si sono avanzate proposte e rivendicazioni «verificate da gruppi impegnati».

Anche in questo caso l’evento fu l’esito di un processo politico: nel dicembre 1991, le Ong avviarono le negoziazioni di «trattati alternativi» per delineare una visione comune e autonoma. Fu un’opportunità unica per la società civile, sebbene fu molto ardua la contrattazione: gli interessi, le priorità e gli atteggiamenti dei gruppi presenti si mostrarono talvolta molto diversi e distanti tra loro ed immensi sforzi vennero compiuti per mediare le differenti posizioni.

 

Per un modello agrario alternativo

L’appuntamento più rivoluzionario, ma misconosciuto[21], fu quello che si svolse nell’aprile del 1992 a Managua, in Nicaragua. Sulla carta sembrava un incontro poco degno di nota: si trattava del secondo congresso del sindacato nazionale degli agricoltori e degli allevatori nicaraguensi (Unag). Esso fu però preparato in cooperazione con un’ampia delegazione regionale e internazionale di agricoltori e produttori agricoli, organizzati in sindacati ed associazioni[22]. L’incontro si svolse come una tavola rotonda, basata su una salda coesione di intenti, attorno all’urgenza di tracciare un modello agricolo alternativo a quello neoliberista, che fosse in grado di garantire uno sviluppo fondato sul principio di democrazia economica, sul rispetto delle persone e dell’ambiente, e sulla partecipazione delle comunità contadine. Probabilmente i partecipanti stessi non si sarebbero mai potuti immaginare che quell’incontro sarebbe passato alla storia come primo nucleo fondativo di una coalizione agricola senza precedenti.

Il documento redatto, denominato Managua Declaration, fu una sorta di manifesto, formulato in maniera concertata, come una dichiarazione di intenti della nascente alleanza agricola. Nel testo vennero esposte le tematiche più urgenti: il peso e il controllo delle politiche neoliberali sulla produzione agricola; il ruolo delle comunità agricole (costituenti la maggioranza della popolazione in molti territori del mondo) nell’approvvigionare la popolazione mondiale[23]; la necessità di partecipare alla formulazione delle politiche per superare le ingiustizie nel settore agroalimentare. Un passaggio asseriva che: «Le politiche neoliberiste rappresentano una drammatica costrizione per gli agricoltori di tutto il mondo, ci hanno portato sull'orlo di un'estinzione irrimediabile e hanno aggravato ulteriormente i danni irreparabili che sono stati causati al nostro ambiente rurale»[24]. Nonostante siano trascorsi più di 30 anni, le condizioni odierne in cui vertono i piccoli agricoltori[25] sono ancora critiche[26] (Lowder et al. 2021) e ciò risulta ingiurioso. Oggetto di dibattito furono anche la protezione dell’ambiente, per il mantenimento delle famiglie e della vita rurale, attraverso mezzi di sussistenza locali, più sostenibili, sia in termini economici che ecologici; i problemi del debito e dei deficit fiscali (imposti dalle politiche neoliberali e demandati dalle istituzioni finanziarie) e le negoziazioni del GATT[27]. Espressero con vigore il rifiuto delle politiche che promuovevano prezzi bassi, mercati liberalizzati, esportazione dei surplus, dumping e sussidi all’export (tematiche ancor oggi fortemente critiche).

 

Un processo politico dal basso senza eguali

Degno di nota è il percorso di coordinamento internazionale intrapreso dalle organizzazioni di agricoltori e dalle Ong. È possibile analizzarlo attraverso una fonte speciale: il report redatto dal coordinatore delle attività di follow-up, Kees Blokland[28], nell’anno successivo alla riunione. Dal testo emergono alcuni tratti peculiari del clima in cui si svolsero i lavori: una salda coesione sociale e una spiccata proattività nella definizione di un modello agrario democratico, un forte senso di giustizia e di tutela dei beni comuni, delle risorse naturali e delle relazioni socio-ecologiche, il desiderio di ampliare la comunità di pratica anche ad altri agricoltori e organizzazioni e una lucida consapevolezza del ruolo socio-economico che essi hanno nella società, accompagnato da una profonda riflessività e senso di responsabilità per le ricadute delle nuove scelte politiche. I tavoli si conclusero con due azioni: la stipula di un accordo collegiale per continuare a rafforzare i legami tra organizzazioni, in quanto l'unità era ritenuta cruciale per trovare i modi di poter far sentire la propria voce e le proposte; una call to action, un invito esteso alle organizzazioni agricole affini, di tutto il mondo, a unirsi alla coalizione. Questi chiari intenti concorsero a determinare la nascita del movimento agrario transnazionale più ampio e influente  di sempre: la Via Campesina.




Note

[1] Cfr. M. R. Stabili ‒ L . Baldissara ‒  B . Calandra ‒ F. Langue, La storia del tempo presente, «Ricerche di storia politica», 1/2019, pp. 89-100, doi: 10.1412/92753; F. Hartog, Chronos. L’Occidente alle prese con il tempo, Einaudi, Torino 2022; T. Detti  ‒ G. Gozzini,  L’età del disordine. Storia del mondo attuale 1968-2017, Laterza, Roma-Bari 2018.

[2] Accordo nordamericano per il libero scambio, stipulato tra Stati Uniti, Canada e Messico il 17 dicembre 1992 con lo scopo di creare un’area commerciale priva di barriere doganali e caratterizzata dalla libera circolazione di beni e servizi. L’accordo prevedeva anche la reciproca protezione dei diritti di proprietà intellettuale, la creazione di un quadro d’intesa trilaterale di cooperazione economica e l’incremento delle opportunità di investimento tra le parti. Entrò in vigore il 1° gennaio 1994. Fonte: Enciclopedia Treccani.

[3] P. Ginsborg. Storia d’Italia dal Dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino 1989, p. 185.

[4] Il noto testo «Primavera silenziosa» (titolo originale «Silent Spring») di Rachel Carson, pubblicato nel settembre 1962, è diventato una sorta di manifesto del movimento ambientalista.

[5] Preoccupato per i livelli alti di acidificazione dei sistemi acquatici scandinavi, l’ambasciatore scrisse una lettera al Segretario generale delle Nazioni unite in cui affermò: «Le questioni ambientali […] non hanno ancora ricevuto un’adeguata rilevanza nelle deliberazioni delle Nazioni unite, mentre i problemi divengono sempre più gravi [...] c’è quindi un indiscutibile bisogno di creare le basi per una valutazione dei problemi dell’ambiente umano nell’ambito delle Nazioni unite». Egli proponeva dunque l’organizzazione di una conferenza internazionale per affrontare questi temi urgenti. Lettera del 20 maggio 1968 (Document E_4466_ADD.1).

[6] In sintesi il documento fornisce un quadro chiaro e dettagliato delle condizioni ambientali a livello globale, differenziato per territori: nei paesi industrializzati il degrado ambientale è in gran parte imputabile allo sviluppo economico (dunque il pool di esperti suggerì una limitazione di quest’ultimo), nei «paesi poveri», al contrario, i problemi ambientali vennero identificati come l’esito delle gravi condizioni di povertà e di scarso sviluppo.  Il report era stato voluto da Maurice Strong, segretario generale della conferenza, e l'incarico di redazione di tale documento era stato affidato ad un gruppo di 27 esperti, con la richiesta di esaminare a fondo la correlazione tra la crescita economica e le condizioni ambientali.

[7] Risulta ad oggi il libro più tradotto e più venduto di sempre della letteratura ambientalista: due milioni di copie vennero vendute solo nei primi mesi dalla pubblicazione; ad oggi sono circa 30.000.000 le copie vendute e 30 le lingue in cui è disponibile.

[8] Lo sviluppo era diventato il nodo cruciale di un conflitto politico internazionale sull’asse Nord-Sud ed Est-Ovest, che si accese nel 1971, a ridosso del vertice di Stoccolma. I paesi del Sud interpretavano la tutela ambientale come il cavallo di Troia di una nuova politica postcoloniale e imperialista e, dunque, la Conferenza come un «rich man’s show» ove si sarebbero sanciti i nuovi piani di azione, ad esclusivo vantaggio dei Paesi industrializzati. A peggiorare la situazione ci fu anche la dichiarazione di sabotaggio della Conferenza da parte dell’Urss e del blocco sovietico, per via dell’esclusione della Ddr dai tavoli negoziali.

[9] In origine questo fu il nome dato al rapporto preliminare sulle condizioni ambientali che Maurice Strong, segretario generale della Conferenza, richiese ai paesi partecipanti. Tale azione, unitamente alla ricognizione dei problemi più urgenti da affrontare, ad una prima bozza delle raccomandazioni per un Piano d’azione e alla richiesta di un report sulla correlazione tra crescita economica e condizioni ambientali, costituì la strategia vincente che Strong attuò per la situazione critica che si era andata a creare tra i paesi del Sud e del Nord, prima del vertice di Stoccolma.

[10] Il Programma delle Nazioni unite per l’Ambiente fu pensato come catalizzatore per promuovere la consapevolezza e l'azione sulle questioni ambientali all'interno del sistema delle Nazioni unite.

[11] Il Piano d'azione per l'ambiente umano era un quadro funzionale di 109 raccomandazioni, organizzato in tre parti: un programma di valutazione globale, attività di gestione ambientale e misure di sostegno (es. istruzione e formazione). 

[12] Si delineò un nuovo paradigma in cui integrare crescita economica, diritti umani, uguaglianza sociale e ambiente. Si posero altresì le basi per l’istituzione del diritto ambientale.

[13] World Commission on Environment and Development (1987). Our Common Future, Oxford University Press, p.356-357.

[14] M. Grubb ‒ M. Koch ‒  K. Thomson ‒ F. Sullivan ‒ A. Munson, The 'Earth Summit' Agreements: A Guide and Assessment. An Analysis of the Rio’92 UN Conference on Environment and Development, Routledge, London 1993, p.12.

[15] Estratto dai documenti ufficiali delle attività pre-Rio (Grubb et al. 1993), traduzione dall’inglese a cura dell’autrice.

[16] L’aggressività del modello industriale verso la biosfera aveva sortito effetti devastanti: inquinamento (in molteplici forme), deforestazione, cementificazione, ‘effetto serra’, solo per citare i principali. Per dirla in termini economici, si è progressivamente consumato il capitale ecologico a favore dell’accumulazione di capitale, tramite lo sfruttamento predatorio delle risorse naturali ‒ nonostante la conclamata finitezza ‒  in nome della logica del profitto, carburante di un sistema capitalista irrimediabilmente oppressivo ed energivoro.

[17] La Commissione delle Nazioni unite per lo Sviluppo Sostenibile (Csd) è stata istituita dall'Assemblea generale dell'Onu per garantire un efficace follow-up del Vertice della Terra. Fin dall'inizio, la sua struttura e le sue prospettive sono state altamente partecipative, coinvolgendo un'ampia gamma di parti interessate e partner ufficiali. Alla conferenza Rio+20, gli Stati membri hanno istituito un forum politico di alto livello che ha sostituito il Csd.

[18] In un documento di sintesi, redatto dalle Nazioni unite per la recente Conferenza di Stoccolma del 2022 (‘Stockholm+50’), il percorso di raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 viene descritto «fuori rotta», anche in relazione alle mète definite nel 1972.

[19] Attivista e politico, noto per il suo importante contributo al pensiero ecologista, partecipò all’UNCED di Rio.

[20] Ibidem.

[21] Fatta eccezione per gli attivisti rurali, gli esperti di movimenti contadini o di partecipazione politica.

[22] Assieme ad Unag erano presenti i rappresentanti di Asocode, sindacato regionale per la cooperazione e lo sviluppo di piccoli e medi produttori agricoli dell’America centrale (Belize, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua e Panama); sindacati nazionali degli agricoltori del Canada, degli Stati Uniti, della Norvegia e delle isole Windward (Caraibi); il Cpe (European farmers coordination) in rappresentanza europea, il Coag (Coordinadora de organizaciones de agricultores y granaderos) dalla Spagna e, infine, una delegazione agricola olandese.

[23] In merito si suggerisce il seguente passaggio dalla Dichiarazione: «Richiamiamo la vostra attenzione sulla mancanza di rispetto nei confronti della nostra cultura produttiva. È essenziale prestare la dovuta attenzione e rafforzare la nostra vita di generatori di agricoltura come base fondamentale e strategica per la sopravvivenza di tutti i popoli» (p.203).

[24] Managua Declaration (1992), pubblicata come ‘Appendix E’ nel booklet della II Conferenza internazionale della Via Campesina, Tlaxcala, Messico, tenutasi 18-21 aprile 1996, documento datato 26 aprile 1992. Cit. pag. 203.

[25] Costituiscono l’anello cruciale e al contempo il più debole delle filiere alimentari, in quanto operano allo stadio che subisce maggiormente gli effetti devastanti della crisi climatica, del degrado ambientale, ma anche, soprattutto, le pressioni esercitate dai dettami della produzione agroindustriale (ad es. l’uso di sementi OGM, erbicidi, pesticidi e fertilizzanti di sintesi chimica), dalle logiche di mercato (dumping, aste al doppio ribasso, monopoli) e da fenomeni geopolitici (su tutti il land grabbing). La drammaticità di tali condizioni mette a rischio quasi i due terzi della popolazione mondiale, in mancata ottemperanza ai diritti umani fondamentali. Di riflesso, ciò compromette anche l’approvvigionamento globale di alimenti di base (staple foods).

[26] La fascia di popolazione mondiale che è maggiormente schiacciata dalla morsa della povertà estrema (70%) e della fame (80%) è quella dei contadini e dei lavoratori agricoli dei paesi a basso reddito e ciò si verifica, paradossalmente, a fronte del fatto che essi sono fondamentali produttori di materie prime alimentari (Lowder et al. 2021). I dati sono stati resi pubblici in un comunicato diffuso il 16 dicembre 2022, a Ginevra, dalla commissione di Relatori speciali delle Nazioni unite, i quali hanno espresso una forte preoccupazione in merito, nonostante la stipula degli accordi internazionali della Dichiarazione sui diritti dei contadini e dei lavoratori rurali (UNDROP), nel 2018.

[27] General Agreement on Tariffs and Trade, in it. ‘Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio’, particolarmente critico, in quanto colpisce soprattutto gli agricoltori dei «paesi poveri», favorendo invece i monopoli e le corporations transnazionali.

[28] Responsabile delle relazioni agrarie internazionali del Paulo Freire Stichting, Ong olandese attiva nello sviluppo agrario, in termini di cooperazione ed educazione, con una lunga esperienza di supporto alle organizzazioni di agricoltori centroamericani.



Bibliografia

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Evelyn Leveghi è dottoranda in Ecogastronomia, scienze e culture del cibo presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e l’Università di Torino. Il suo progetto di ricerca intende esplorare il potenziale dell’agentività dei movimenti sociali rurali nella definizione delle politiche agroalimentari.

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