Sergio Bianchi, Penna
1. Giovani Leoni
«E poi i vigliacchi, con i galloni e le stellette prese al mercatino del dopolavoro editoriale. Infami pezzi di merda che sfruttano il lavoro culturale precario, riempendosi la bocca di indipendenza e le vene di alcol e dei loro fallimenti esistenziali. Ossequiosi e deferenti con i padroni di turno, pelosi e risentiti in ogni loro espressione. Parassiti, rintanati come topi nei covi del lavoro nero, nascosti dietro le scrivanie e le tastiere, livorosi e codardi, pieni solo di paura. Non temete, non dimenticheremo i vostri nomi e i vostri cognomi, e state pur certi che, quando meno ve lo aspettate, vi verremo a cercare».
Messaggio firmato, postato su facebook il 15 novembre 2019 alle ore 18.00. Una faccina adirata, tre faccine stupite, 23 «mi piace».
Il furente autore non specifica a chi sono indirizzati i suoi avvelenati strali. Afferma, parlando al plurale, quindi misteriosamente a nome collettivo, che verranno svelati a tempo debito in occasione di una minacciata visita di cortesia (forse in compagnia dei 23 «mi piace» più il solitario adirato?) probabilmente ispirata nella fantasia da qualche cronaca degli anni Settanta riferita alle «ronde» che i terribili militanti autonomi operavano contro gli odiati «covi del lavoro nero». Un che di romantico, tipico di ogni spacconeria.
Ma al di là del livore di una prosa che fa facilmente indovinare un fondamento di patita e lancinante frustrazione, l’argomento sotteso ha un suo fondamento di verità. Ossia è vero che il magico mondo dell’editoria, nella sua quasi totalità, vive, o meglio dire sopravvive, di lavoro precario sottopagato, spesso al nero e a volte addirittura neppure pagato. La questione ha una tale ovvietà che sovviene alla memoria la chiamata di correità per il sistema di finanziamenti illeciti ai partiti che il cinghialone Craxi fece in Parlamento quasi trent’anni fa: si alzi in piedi in quest’aula chi ha il coraggio di affermare che ne è stato e ne è tuttora indenne. Non si alzò nessuno. Come nessun editore si potrebbe alzare in piedi oggi per sostenere che non si è mai avvalso di una qualche irregolarità nell’uso della propria forza lavoro. E, per paradosso, certo è che anche il nostro furioso Orlando, essendo pure lui editore di qualcosina, le prestazioni dei suoi autori mica li pagherà a regola di contratto sindacale, con tanto di saldo degli F24 per i relativi contributi previdenziali. Eh!
1.1. Il turnover dei morituri
Le imprese dell’editoria cosiddetta, impropriamente, indipendente, cioè quella ritenuta, per fatturati realizzati, piccola e piccola-media, scontano una mortalità nei primi tre anni della loro esistenza dell’80-90%. Mortalità subito colmata da altri successivi sicuri morituri, meccanismo dovuto alla bassa barriera del costo di ingresso, cioè del basso capitale di investimento utile per l’avviamento dell’impresa. Perché avviare una casa editrice costa meno che avviare un negozietto di 3x4 di pizza al taglio. Ragion per cui tra i tanti spettacoli ai quali si assiste nel magico mondo dell’editoria c’è anche quello, per esempio, di affannati apprendisti, dilettanti piuttosto allo sbaraglio, che spavaldamente si avventurano con pressapochismo in prestigiosi percorsi culturali che dilatando l’ego compensano alle loro identità smarrite, o forse mai addirittura trovate. Passata l’euforia dell’ubriacatura per l’effimera notorietà acquisita sui piccoli palcoscenici di una mondanità che inclina man mano verso la marginalità, restano sul tavolo i carteggi debitori saldabili con il salvadanaio della mamma, fino alla inevitabile resa della consegna dei libri contabili in Tribunale. Amen.
C’è da chiedersi, poi, per quale bizzarra ragione buona parte di queste case editrici siano fondate e gestite da coppie fidanzate, sposate, o addirittura separate, che si sacrificano al martirio della sacra causa: il nutrimento culturale da dispensare al popolo.
1.2. La miserevole arte del botteghismo
Questa tipologia di case editrici si dividono grosso modo in due categorie. Quella che ha disponibilità finanziaria a prescindere – dovuta al benessere del proprio status famigliare, o al collegamento amministrativo con una qualche società nel cui pozzo con o senza fondo gettare a fine anno i debiti disinvoltamente accumulati – e quella che dovendo suo malgrado sopravvivere a vista si obbliga nello stressante gestione dislocativa di debiti inestinguibili.
Ciò che comunque le accomuna è un medesimo spirito da botteghismo artigianale nel quale macerano i cattivi sentimenti dell’arrivismo, della piccola invidia e gelosia, dell’ansia spionistica nei confronti dei propri «competitor», della vanità narcisistica e altro di peggio. Altro che esaltazione della «bibliodiversità». In meschinità privatistica costoro appaiono tutti indistintamente apparentati.
E la riprova di ciò la danno nelle decantate fiere animate da un pubblico perlopiù distratto e lì convenuto non tanto per amore della cultura, quanto con l’obiettivo di strappare un selfie alla star televisiva scema convocata da una programmazione culturale che necessita di una presenza di massa, condizione indispensabile per accaparrarsi l’appalto del baraccone, e quindi la grana, l’anno successivo.
Li si vede lì, i nostri eroi, tutti ordinatamente in fila nei loro standini separati come in un’infilata di gabbie per conigli, con i loro bravi libretti ordinatamente impilati, con un’espressione triste che tradisce sì la depressione, ma anche con l’occhietto vigile e incarognito per ogni registrazione di movimentazione concorrenziale degli stand dappresso.
E questa tara individualistica e privatistica che li perseguita è la medesima che impedisce loro una qualche forma di cooperazione, pur solo banalmente sindacale, utile in qualche modo a evitare il loro andare tutti in fila, uno dietro l’altro con il cappello in mano, a farsi sistematicamente sodomizzare da una filiera commerciale che gli ciuccia il 60% e oltre del prezzo di copertina. Una condizione cagnottara che li mantiene in un costante, irrisolvibile indebitamento.
1.3. Indipendenti da cosa? e per fare che cosa?
La definizione di indipendenza non ha mai avuto riferimento a caratteri e connotazioni di tipo politico o culturale bensì, diciamo, più banalmente giuridico. Sono definiti editori indipendenti coloro che nella propria compagine societaria non annoverano la presenza di quote appartenenti a uno dei cinque gruppi editoriali più importanti. Davvero qualcosa di troppo poco per qualificarne l’indipendenza che, come lucidamente dice nel testo qui di seguito Marco Bascetta, dovrebbe connotarsi per la capacità di dare risposta alle domande: indipendenza da cosa? per fare cosa? «Alla difesa dell’indipendenza abbiamo dedicato nel corso degli anni decine di articoli, convegni, manifestazioni, fiere, presìdi, petizioni. Abbiamo proposto, e a volte sperimentato, formule organizzative reti e associazioni, mentre, in ordine sparso, editori piccoli e medi, librerie “di proposta”, produzioni cinematografiche e musicali, continuavano a proliferare, a nascere e morire in gran copia (…). Converrà allora porsi qualche domanda priva di tatto su quella rivendicazione di indipendenza senza aggettivi che per tanto tempo abbiamo considerato una qualità morale autosufficiente, un certificato di qualità senza altri requisiti. Un principio di legittimazione a uso di piccoli e medi narcisismi. Un certificato di identità a costo ridotto e alla portata di tutti. Ignoriamo forse come le piccole imprese editoriali possano spesso essere un gioco, talvolta un capriccio, geloso delle proprie fisime e prigioniero dei propri umori? Certo queste qualità così infantili possono favorire la sperimentazione, l’azzardo, l’inconsueto. E questo è un pregio. Ma anche la stonatura, la mediocrità, l’approssimazione, perfino l’autismo. E questo è senza dubbio un inconveniente. Che esista un’equivalenza garantita tra editoria indipendente ed editoria “di qualità” è una credenza infondata e autoconsolatoria. In tutta indipendenza si può scegliere di imitare in sedicesimo le più banali scelte orientate al mercato o fare anche di peggio.
Ma volendo prendere seriamente atto di questi limiti ed esaminare senza infingimenti le peripezie dell’indipendenza, allora non potremo esimerci dal porre una semplice domanda: indipendenti da cosa e per fare che cosa? Non basta sottrarsi ai cartelli editoriali, non basta non dover rispondere a un padrone o a una assemblea di azionisti, nemmeno collocarsi, più o meno concretamente al di fuori da quella che una volta veniva chiamata “industria culturale”. Bisogna combatterla. Destrutturarne i meccanismi, disturbarne le abitudini, scompaginarne l’agenda. E questo non lo si può fare rinchiudendosi in un cenacolo che si ciba della propria squisitezza. Non lo si consegue mettendo in scena uno stucchevole exemplum virtutis e men che meno crogiolandosi nella condizione operosamente sobria del lavoro artigiano nelle sue innumerevoli botteghe. L’indipendenza dalle contraddizioni e dai conflitti che lacerano la società non è che un esercizio narcisistico privo di qualunque interesse. Che cosa farsene di un’autonomia incapace di sviluppare discorso critico? Di non stare solo fuori, ma di essere anche contro? Di parlare a chi non ha fatto pace con “lo stato di cose esistente”. L’indipendenza costituisce la condizione di un progetto, non ancora il progetto stesso. La possibilità di scegliere non sostituisce l’oggetto della scelta. È di questo, semmai, della capacità di sovvertire il senso comune, di alterare l’ordine del discorso, di deviare dalle regole e dalle consuetudini, di svelare ciò che è celato, che ci interessa parlare».
1.4. L’inconsistenza politica della soggettività editoriale indipendente
Nello scorso decennio, per un lungo periodo, in alcuni ristretti ambiti dell’editoria si è scommesso sulla potenziale soggettività diciamo così, politica, dell’editore indipendente. Si è cioè creduto che tale soggettività potesse conquistare un ruolo nella costruzione di un progetto di alternativa all’industria culturale omologata. Si è creduto che se si fosse data la possibilità di ricomporre collettivamente quella soggettività, superandone l’individualismo che caratterizzava il suo agire quotidiano, si sarebbe potuto avviare il progetto. Quella scommessa si è però rivelata illusoria, e a farla naufragare, per paradosso, sono stati proprio perlopiù gli editori catalogabili sia nella sinistra perbene che in quella cosiddetta «antagonista». Nel lontano 1990 Paolo Virno aveva saputo sagacemente cogliere, nelle soggettività messe all’opera nei nuovi scenari del lavoro culturale e cognitivo postfordista, i sentimenti prevalenti dell’opportunismo, del cinismo e della paura. Occorrerebbe trovare tempo e voglia per analizzare materialisticamente le ragioni di questi sentimenti che derivano da una condizione di micro imprenditorialità che subisce insieme effetti derivanti dalla commistione di narcisismo intellettualistico, egocentrismo autoreferenziale, stress lavorativo caratterizzato da una costante precarietà, insufficienza finanziaria, indebitamento cronico, frustrazione, competizione paranoica, stati di ansia e di depressione.
1.4. Ruggiti e belati
Stando così le cose in questo disgraziatissimo «mercato» come è pensabile che non vi sia utilizzo di lavoro non normato, intermittente, sottopagato o non pagato? Non dovrebbe esserci perché l’aulico mondo dell’editoria non può degradarsi a tal livello come invece sistematicamente fanno tutti gli altri mercati che producono merci più rozze e volgari? O perché è proprio nelle imprese editoriali, in specifico, che si annida la più deprecabile specie del genere umano capace di ogni nefandezza contro «il lavoro culturale precario»?
Mah. Si ha piuttosto l’impressione che la vittoria capitalistica a termine del lungo conflitto di classe del ventennio Sessanta e Settanta ha comportato, per tutto il corso del quarantennio successivo, una incapacità strategica, da parte del lavoro sfruttato, di capire bene chi sono i suoi veri nemici. Col risultato di assistere al susseguirsi di minacciosi roboanti ruggiti leoneschi che nella concretezza della realtà si risolvono in flebili e innocui belati da pecorelle smarrite.
2. Come butta?
E così, un anno dietro l’altro, i nostri impavidi editori indipendenti vanno spidati alle grandi e magnifiche kermesse del libro.
Mica si può mancare, sennò gli altri editori se ne accorgono al volo e al primo giorno mettono in giro la voce che sei in crisi, al secondo che sei cotto, il terzo che sei in coma, il quarto che sei fottuto, il quinto che sei morto stecchito. E allora devi andare a far vedere a tutti che invece sei ancora lì con tutti i tuoi bravi libretti pilettati in fila. Anche perché è solo lì che li puoi far vedere e sperare di venderne qualcuno, dato che ormai nelle librerie ci vai con trecento copie di un titolo novità in tutta Italia, che sui banchi ci stai sì e no un mesetto, poi il tuo titolo finisce per un altro mese di costa in qualche anonimo scaffale e al terzo mese te lo ritrovi indietro come resa.
Così cacci i tremilaseicento euro per lo standino e cominci a smadonnare per tutta l’altra grana che dovrai sborsare in quelle stramaledette cinque giornate. I viaggi, gli alberghi (se non c’hai il culo di farti ospitare da qualche amico), i ristoranti fino a quei panini dei baretti a cinque euro l’uno che fanno schifo solo a guardarli, pensa un po’ a mangiarli.
Il primo giorno arrivano ondate di marmocchi delle scolaresche coi palloncini che fanno un casino infernale, ti buttano in aria tutto e ovviamente non comprano un cazzo, così se ti va bene alla sera ti ritrovi giusto coi soldi per la pizza. Poi comincia il pellegrinaggio di tutta la fauna che sta attorno a ’sta follia degli editori, soprattutto quelli sfigati. Gli aspiranti autori sono i più scassamaroni. Arrivano lì in punta di piedi, si mettono in un angolino con la faccia da cani bastonati con in mano il loro romanzetto autobiografico che considerano un capolavoro di sicuro successo e cominciano anche a raccontartelo, fosse per loro te lo leggerebbero tutto in diretta. Poi arrivano quelli con i curriculum da centodieci e lode e tre master in Oregon che cercano lavoro come correttori di bozze o in subordine come addetti alle pulizie dell’ufficio. Poi quelli che si dicono professori di non so cosa che cercano di farsi dare i libri gratis perché sono interessati a un’adozione. Idem i sedicenti giornalisti di riviste on line con dieci visitatori all’anno. Poi arrivano gli autori che si mettono a contare e ricontare dieci volte le copie del loro libro, ti riempiono lo stand di valige, valigette, borse e borsoni, spariscono per tutto il giorno e tornano alla sera per vedere se almeno riescono a rimediare una cena, dato che di cuccare qualche euro in diritti ormai c’hanno rinunciato da un pezzo. Poi arrivano quelli che vogliono venderti i programmi informatici di service editoriale, poi i tipografi coi preventivi, i promotori e i distributori che chissà perché sorridono sempre, gli agenti letterari, i librai di Vanzaghello e di Porto Ceresio che ti propongono di farsi dare i libri in conto vendita con l’ottantacinque percento di sconto, saldo a due anni e mezzo.
Un po’ perché ti fai due balle così e un po’ perché cerchi di scappare da tutta ’sta banda di sciroccati ti ritrovi ogni giorno a fare dieci volte il giro di tutta la fiera con i piedi che ti diventano gonfi come due palloni da rugby.
Ogni tanto ti passa a trovare un collega di sfiga e ti chiede Come butta? Tu non rispondi e allora si resta lì insieme in silenzio, pensierosi. Poi quello si alza e dice Ci vediamo dopo, passa tu. E tu dopo un po’ passi da lui e gli chiedi Come butta? E si va avanti e indietro così per cinque giorni.
Ogni anno gli organizzatori all’ultimo giorno fanno due cose: ti regalano un cioccolato (a volte anche a forma di libro) e annunciano ai giornali che hanno superato il record di presenza di pubblico dell’anno prima. Così anno dopo anno tutti i record vengono bruciati e si va sempre più avanti con l’editoria e la cultura facendo un sacco di affari. O almeno questo è quello che si dice, ogni anno.
I piccoli editori, che sono quasi tutti convinti di fare cose meravigliose perché sono piccoli (cosa che non sono mai riuscito a capire), chissà perché fanno finta di crederci. E così la baracca tira avanti.
Alla fine della fiera però ai piccoli editori succedono anche due cose, sempre le stesse. La prima è che gli viene come una tristezza perché finisce un momento in cui ci si vede tutti insieme e sembra di stare per qualche giorno in una grande famiglia (poi però quando ognuno torna a casa riprende puntualmente a farsi i cazzi della sua bottega e per tutto il resto dell’anno non gli passa neanche per l’anticamera del cervello di sentire o di vedere gli altri). La seconda è che quasi tutti dicono Basta, non si può andare avanti così, l’anno prossimo non vengo più.
Tutte balle.
3. Dove siete finiti tutti quanti?
Libreria del Mondo Offeso (18 giugno 2020)
RIPARTENZA? Ma dov’è siete finiti tutti? Avvertiamo una sorta di psicologia di massa che spinge le persone a stare non sappiamo dove ma di certo non in giro. Sarà lo smart-workng, sarà la paura, sarà qualche altra cosa che non capiamo ma è così. Per non parlare della lettura! Noi dopo la riapertura abbiamo mediamente due clienti al giorno che ci vengono a trovare. Pensavamo che stando a casa leggere un libro fosse quel lusso che in altre condizioni non si poteva avere... Evidentemente sbagliavamo. O forse è solo che le persone non vengono da noi perché siamo particolari, forse anche antipatici. Eppure di cose ne facciamo e ne abbiamo fatte tutti i giorni anche durante il periodo duro di lockdown. Abbiamo parlato di filosofia, di libri, di poesia, di scienza e di mille altre questioni nel nostro cyberspazio. Sarà un periodo? Non lo sappiamo e nemmeno lo immaginiamo. Di certo, però, se continua così siamo costretti a metterci seriamente in discussione. Scusateci per questo sfogo ma siamo un po’ demoralizzati. La nostra Libreria è stata sempre un luogo di incontro, di discussine, di sorriso e di confronto. Non sappiamo vivere senza questo scambio. Speriamo di rivedervi presto.
Laura e Marco
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