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Il linguaggio del genocidio

 

Linguaggio del genocidio Alberto Toscano
Immagine: Fabio Mauri, Linguaggio è guerra, 1974

Alberto Toscano riflette sulla disconnessione sempre più profonda e preoccupante tra il linguaggio politico e la concreta realtà della politica estera degli Stati Uniti, con riferimento al genocidio in corso a Gaza.

L’articolo è apparso anche su «In These Times». Traduzione a cura di Anna Curcio.


 

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Negli ultimi due mesi, la copertura mediatica delle elezioni presidenziali americane si è concentrata incessantemente su questioni relative all’età e alla stabilità mentale dei candidati. Per settimane, dopo la pessima performance del presidente Joe Biden nel dibattito di fine giugno, sui media hanno imperato le domande sulla sua capacità di governare per un secondo mandato. Con il passaggio dei democratici alla nomination presidenziale della vicepresidente Kamala Harris, simili domande sono state invece poste su Donald Trump, con innumerevoli articoli e commenti televisivi che speculavano sul «declino cognitivo» e chiedevano agli esperti di mostrarne le prove cliniche durante i discorsi elettorali e i colloqui con i candidati.

È un'impresa folle cercare di distinguere l'incontinenza verbale dell'ex presidente dalla sua aggressiva ignoranza. Offre ogni giorno nuovi esempi su cui riflettere: di recente, in un bizzarro aneddoto su un volo in elicottero quasi mortale, inteso a diffamare il carattere di Harris, ha confuso due politici neri e, la scorsa settimana,  ha dato vita a uno sconclusionato dialogo con il CEO di X Elon Musk, che l'ambientalista Bill McKibben ha definito «la conversazione sul clima più stupida di tutti i tempi». In definitiva, le speculazioni sul presunto «declino cognitivo» dei politici non è altro che una distrazione dal ben più preoccupante declino del linguaggio e dell’intelligenza politica nel Paese

Per anni, la satira politica progressista ha smesso di fare caricature e si è semplicemente limitata a registrare il flusso incessante di sfoghi razzisti, bizzarre cospirazioni e gaffe della destra. In tempi grotteschi come questi, il confine tra commedia e campagna elettorale è poroso; si veda come la «stranezza» dello slogan repubblicano Make America Great Again sia diventato un potente meme, mentre i democratici sfruttano quella miniera d'oro di sfoghi misogini («gattare senza figli», ecc.) fornita dal compagno di corsa di Trump, il senatore dell'Ohio JD Vance, che non ha rifiutato neanche un invito da parte dei podcaster più fanatici. Come nel caso dell’intervista sull’incidente d’auto di Trump mentre raggiungeva la riunione di fine luglio della National Association of Black Journalists. In quell’occasione Trump si è dichiarato «il miglior presidente per la popolazione nera dai tempi di Lincoln» e ha affermato che Harris «è diventata una “persona di colore”» all’improvviso, a un certo punto della sua carriera politica; l'assurda tossicità di discorsi politici di questo tipo, ci permette di fare a meno di commentarli.

 Ci sarebbe da ridere, ma questa involuzione del discorso politico ha un costo: funge spesso da confortante elemento di distrazione dalle dinamiche sociali ed economiche che stanno rendendo possibile un ulteriore consolidamento della politica di estrema destra. Distoglie, inoltre, l'attenzione dalle prove evidenti che, quando si tratta del genocidio in corso a Gaza che gli Stati Uniti sostengono, anche quella di Biden è stata una presidenza post-fattuale, caratterizzata da uno sfacciato disprezzo per le prove dei crimini israeliani e da una persistente negazione dei verdetti dei tribunali internazionali. 

 Due decenni di «guerra al terrore» statunitense ci hanno abituato alla mendacità ufficiale al servizio dei disegni imperiali, dalla fiala di antrace di Colin Powell all’ONU allo «sporco» dossier di Tony Blair sulle armi di distruzione di massa in Iraq (2003). Tuttavia le risposte esasperatamente insulse che i portavoce dell'amministrazione Biden forniscono quando vengono interrogati sulla collusione degli Stati Uniti con i crimini di guerra israeliani appartengono a un genere diverso. In risposta alle atrocità quotidiane compiute dall’esercito israeliano contro civili, medici e giornalisti, offrono un ritornello già noto: «Israele ha il diritto di difendersi», sono state espresse preoccupazioni, sono in corso indagini e Israele sta rispettando il diritto internazionale.

Quando la più alta corte internazionale si pronuncia in modo incontrovertibile contro l'occupazione, l'apartheid e la guerra di Israele, e un importante storico israeliano dell'Olocausto conclude che Israele sta effettivamente «agendo con l'intento di distruggere, in tutto o in parte, la popolazione palestinese di Gaza», tutto viene liquidato come irrilevante per la politica estera degli Stati Uniti. Il 12 agosto , il Segretario di Stato Antony Blinken ha commemorato il 75° anniversario delle Convenzioni di Ginevra (che comprende «la protezione dei civili in tempo di guerra») ribadendo il «fermo impegno degli Stati Uniti a rispettare il diritto umanitario internazionale e a mitigare le sofferenze nei conflitti armati». Poi, il giorno successivo, ha approvato 20 miliardi di dollari in nuove vendite militari a Israele.

Nel frattempo, l'opinione pubblica è continuamente bombardata da affermazioni secondo cui Hamas sarebbe l'unico ostacolo a un accordo di cessate il fuoco - benché, mentre il gruppo armato palestinese ha ripetutamente accettato i termini del cessate il fuoco, il governo del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha apertamente rifiutato qualsiasi conclusione dell'assalto a Gaza e di recente ha assassinato il capo dei negoziatori di Hamas, Ismail Haniyeh (l'unico primo ministro palestinese mai eletto democraticamente). Interrogato nel merito dell’assassinio, il portavoce del Dipartimento di Stato Vedant Patel ha risposto: «Abbiamo visto gli israeliani impegnarsi in modo costruttivo nei colloqui per un accordo di cessate il fuoco. Continuiamo a credere che un accordo per il cessate il fuoco sia realizzabile e urgente e ciò che vogliono i nostri partner in Israele». Torna alla mente l’osservazione di George Orwell secondo cui, in tempi in cui il linguaggio politico è «in parte difesa dell’indifendibile», esso «deve consistere in gran parte di eufemismi, petizioni di principio e dichiarazioni oscure».

La totale disgiunzione tra questo linguaggio politico e la realtà politica non ha solo un effetto svilente e disorientante sul discorso pubblico; è anche sintomatico di un vuoto di pensiero al cuore dell'establishment della politica estera statunitense. Prendiamo il riferimento di Biden all’«antico odio verso gli ebrei» come causa degli attacchi del 7 ottobre. O le ripetute denunce di Blinken di attacchi - se compiuti dai russi contro l'Ucraina - come quelli che gli Stati Uniti appoggiano quando sono commessi da Israele. L'impressione è quella di un imperialismo senile da Guerra Fredda con il pilota automatico. Sembra oggi ampiamente confermata la massima di Guy Debord, secondo cui quando la gestione di uno Stato comporta una permanente e massiccia carenza di conoscenza storica, quello Stato non può più essere guidato strategicamente. Il rifiuto di riconoscere il contesto più ampio degli attentati del 7 ottobre, o il secolo di espropriazione che li ha preceduti, è legato alla deriva degli Stati Uniti verso una guerra totale nella regione che sostengono di voler evitare. È sorprendente che anche le precedenti amministrazioni ferocemente impegnate nell'imperialismo statunitense, come quelle di Richard Nixon o Ronald Reagan, siano state più riluttanti dell'amministrazione Biden a concedere un assegno in bianco a Israele, talvolta persino disposte a condizionare gli aiuti militari alla moderazione dell'aggressione israeliana (quando nel 1973 il Segretario di Stato di Nixon, Henry Kissinger, minacciò di non sostenere più Israele se avesse continuato a combattere l'esercito egiziano, il giorno dopo fu concordato un cessate il fuoco). L'apoteosi grottesca di questo discorso corrotto è stato senza dubbio il discorso di Netanyahu al Congresso degli Stati Uniti alla fine di luglio. Sebbene numerosi democratici abbiano boicottato il discorso per principio, nel complesso l'intervento è stato bipartisan (come le molteplici proposte di legge che equiparano l'antisionismo all’antisemitismo). Se le dichiarazioni del Dipartimento di Stato non sono molto più veritiere dei comunicati del Cremlino, allo stesso modo si fa fatica a trovare, in un congresso del Partito dei Lavoratori in Corea, più lecchinaggio di quello che è stato mostrato a Capitol Hill. In mezzo a un ignobile e pomposo esercizio di negazionismo del genocidio - riducendo la realtà della fame a Gaza a una «accusa del sangue» e facendo cinici appelli al multiculturalismo delle truppe israeliane - le standing ovation del pubblico (!) sono state così frequenti ed entusiaste che avrebbero potuto del tutto rinunciare a sedersi. Come ha scritto la filosofa Hannah Arendt, all'epoca dei Pentagon Papers, «la falsità deliberata e la menzogna vera e propria usate come mezzi legittimi per raggiungere fini politici ci accompagnano dall'inizio della nostra storia». Allo stesso modo, le ipocrisie dei liberali occidentali sono state oggetto di critica anticoloniale per almeno un secolo. James Baldwin l'ha detto chiaramente: «Tutte le nazioni occidentali sono intrappolate in una menzogna, la menzogna del loro preteso umanesimo: ciò significa che la loro storia non ha alcuna giustificazione morale e che l'Occidente non ha alcuna autorità morale». Oggi, questa pretesa di umanesimo si basa sul mettere a tacere le voci a favore della Palestina e contro il genocidio in corso. Mentre alla famiglia di un ostaggio israelo-americano è stato concesso il podio della Convention Nazionale Democratica - la cui «big tent» è abbastanza ampia per contenere il consulente legale capo di Über e diversi repubblicani - la richiesta del movimento Uncommitted di avere un oratore palestinese-americano è stata respinta. Come ha dichiarato mercoledì sera Ruwa Romman, rappresentante dello Stato della Georgia, durante un sit-in di protesta per l'esclusione di voci palestinesi-americane dalla convention: «Oggi ho visto il mio partito dire: “La nostra tenda può ospitare repubblicani anti-choice”, ma non può ospitare un funzionario eletto come me? Non capisco. Non capisco perché essere palestinese sia diventato squalificante in questo Paese». Non sembra esagerato notare che negli ultimi mesi sia stata superata una soglia nella delegittimazione globale delle pretese di superiorità morale di Stati Uniti ed Europa. La combinazione di sentenze legali inoppugnabili sulla guerra di Israele contro il popolo palestinese, il live-streaming personalizzato del genocidio e le scuse vergognosamente pompose e mendaci per i crimini di guerra israeliani che provengono dalla Casa Bianca e dal Dipartimento di Stato saranno molto più corrosive, a lungo termine, di qualsiasi idiozia offensiva proveniente da Trump e dal partito Repubblicano. Per molti versi, il discorso di Netanyahu al Congresso ha chiarito che l'imperialismo liberale degli Stati Uniti è un morto che cammina, sostenuto dal ricatto di basi militari, embarghi e bombardamenti, ma che raccoglie sempre meno consenso in tutto il mondo. La vacuità delle sue pretese di moralità e di leadership è pari solo alla palese inconsistenza della sua strategia sul piano globale, che alla fine si riduce all'invocazione di un «abbraccio» con il regime coloniale-fascista di Israele che sembra destinato a trascinare il mondo, e soprattutto il Medio Oriente, in una caotica conflagrazione.


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Alberto Toscano insegna alla Simon Fraser University. È membro del comitato editoriale della rivista «Historical Materialism». È autore di vari articoli e libri sull’operaismo, sulla filosofia francese e sulla critica al capitalismo razziale, di cui è uno dei punti di riferimento nel dibattito internazionale. Ha recentemente pubblicato Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis (Verso), che sarà presto disponibile in italiano per i tipi di DeriveApprodi, e Terms of Disorder: Keywords for an Interregnum (Seagull).

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