top of page

Il legno storto dell'umanità

Lectio magistralis


Fina Miralles, L'arbre. L'arbre i l'home. Lligada a l'arbre, 1975
Fina Miralles, L'arbre. L'arbre i l'home. Lligada a l'arbre, 1975

Sabato 3 maggio si terrà a Bologna, a Palazzo Magnani, via Zamboni 20, l'evento Il tempo appreso con il pensiero. Per rileggere Mario Tronti.

Pubblichiamo, in vista della giornata, uno straordinario testo di Tronti, originariamente pubblicato ne L'uomo non è buono. Per la critica del progresso (MachinaLibro, 2024), in cui l'autore si confronta con Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio di Kant, La montagna incantata di Mann e I fratelli Karamazov di Dostoevskij.


***


Farò una cosa particolare e in qualche modo insolita, perché ho pensato di leggere alcuni testi che man mano vi propongo, con pochi e sobri commenti. Questo perché mettere insieme una serie di letture una dietro l’altra e secondo una logica di discorso, costituisce già di per sé una lezione. Benjamin diceva che avrebbe voluto scrivere «un libro di sole citazioni». Ognuno poi rifletterà su questi discorsi, propri tra l’altro di personalità di grande livello. Passiamo al perché di questo titolo: il legno storto dell’umanità. È una citazione kantiana, e proprio Kant – di cui discuteremo il concetto di libertà all’inizio e alla fine – era un illuminista sui generis: non era un illuminista alla francese o all’inglese di quel tempo, ma era un illuminista alla tedesca. Era quindi un illuminista non ottimista, come di solito vengono considerati gli illuministi, cantori del progresso verso il meglio. Kant era invece un illuminista realista, e ciò è molto importante perché noi lo consideriamo soprattutto come un grande filosofo della politica e del diritto. È noto che lui parlasse dell’illuminismo come l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità, definita come incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Kant si colloca dunque nella tradizione del realismo politico moderno. Di solito viene ricordato come colui che ha dato il via alla stagione dell’idealismo, ma su questo ci sono molte contestazioni e discussioni. Viene spesso citato per la celebre frase «il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me»; tuttavia, per fare un esempio del suo realismo a volte anche crudo, dava una definizione giuridica del matrimonio come di un contratto per l’uso reciproco degli organi sessuali. Una concezione non proprio cristiana. Un primo testo da cui partire è quello che si intitola Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, 1798. Già il titolo è molto eloquente. Kant tratta con molta ironia l’idea della marcia verso il meglio, a un certo punto scrive: «Un medico che di giorno in giorno dava speranza ai suoi pazienti di una pronta guarigione: l’uno perché il polso aveva un ritmo più regolare, l’altro per l’espettorazione, il terzo perché i sudori facevano ben sperare, e così via, ricevette la visita di uno dei suoi amici. La prima domanda fu: “Come va, amico, con la vostra malattia?”. “Come volete che vada? A forza di migliorare, muoio!”». Questo per dire che il progresso dell’umanità verso il meglio non è una cosa acquisita. E ancora: «Anche se si ritenesse che il genere umano, considerato nel complesso, fosse già da tanto tempo in progresso e in procinto di avanzare ancora, nessuno può garantire che, per via della disposizione fisica della nostra specie, non stia entrando proprio ora nell’epoca del suo regresso». Noi viviamo in un tempo in cui abbiamo molto sperimentato il regresso del progresso. È una cosa che non viene proprio messa in evidenza o accettata da tutti o dalla cosiddetta maggioranza, però questo tempo lo abbiamo definito non a caso come un tempo di restaurazione. Bisogna dunque mettere in campo, accanto al progresso, anche la possibilità del regresso. Vediamo ora un altro testo in cui Kant prova a rispondere alla domanda su cosa sia l’illuminismo, Was ist Aufklärung, 1784. Bisogna dire che era arrivato alla rivoluzione francese già armato delle sue famose Critiche alla ragion pura e alla ragion pratica, stava per pubblicare la Critica del giudizio; quindi, con un pensiero forte che gli rese possibile interpre- tare in modo deciso quegli avvenimenti. Parla spesso della rivoluzione e dice: «Forse attraverso una rivoluzione potrà determinarsi l’affrancamento da un dispotismo personale e da un’oppressione assetata di guadagno o di potere, ma non avverrà mai una vera riforma del modo di pensare. Al contrario: nuovi pregiudizi serviranno, al pari dei vecchi, a guidare la grande folla di coloro che non pensano». È una verità che abbiamo sperimentato non solo con la rivoluzione francese ma dentro molte altre rivoluzioni, comprese quelle che ci riguardano più da vicino. E continua: «A questo rischiaramento, invece, non occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma sento gridare da ogni lato: non ragionate! L’ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non ragionate, pagate! L’ecclesiastico: non ragionate, credete! (Un unico signore al mondo dice: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete, ma obbedite!)». Questo signore era il suo grande punto di riferimento politico dell’epoca, Federico II di Prussia. Emerge dunque il tema della libertà e dell’obbedienza che tratteremo nel corso del discorso, perché è il punto centrale. La libertà, quella vera, vuole anche un certo tipo di obbedienza, e qui Kant fa una distinzione tra uso pubblico e uso privato della ragione. L’uso pubblico è proprio la capacità di uscire dallo stato di minorità, mentre l’uso privato è continuare a stare dentro la minorità. Da questa introduzione kantiana sono emersi alcune questioni su cui torneremo alla fine. Ora metto in campo un altro testo, La montagna incantata di Thomas Mann. È uscita di recente una nuova edizione con il titolo La montagna magica: io preferisco la precedente traduzione, per quanto meno letterale; la parola incantata mi fa infatti ritornare in mente il disincanto weberiano, il contrasto tra il disincantarsi e il reincantarsi, tema che continuamente scorre nelle pagine di questo libro. È un romanzo a cui Mann lavora a lungo, dal 1912 al 1924. Nella prima parte si incontra con l’altro grande libro che, per il discorso che stiamo facendo, è altrettanto importante: Considerazioni di un impolitico, 1914-1918. È un testo da leggere, soprattutto per i ragazzi in formazione, perché scardina molti luoghi comuni democratico-progressisti e umanitari. Mann lo rinnegherà perché diventerà il cantore proprio di questi opposti cosiddetti ideali, cadrà anche lui in un certo tipo di umanitarismo; e si comprende perché, avendo attraversato la tragedia del nazismo e dell’esilio. La montagna incantata è stata definita un documento della psicologia europea e dei problemi spirituali dei primi trent’anni del Novecento. Nell’introduzione Ervino Pocar, un grande traduttore dal tedesco, ne parla come di un passaggio fondamentale nella formazione della coscienza europea. Prendiamo soltanto quella parte che riguarda i dialoghi che avvengono in questo sanatorio fuori dal mondo tra due personaggi: Settembrini e Naphta. L’uno, Settembrini, è liberale e assertore del progresso umano; l’altro, Naphta, è l’ascetico e violento gesuita, comunista e dogmatico, negatore dell’umanesimo progressista. I due pedagoghi si contendono lo spirito di Hans Castorp, il protagonista del romanzo. Castorp assiste un po’ sconcertato a questi dialoghi e anche lui attraversa un processo di formazione, uscendo da lì per andare subito in guerra, la «grande guerra». Passa quindi dal sanatorio alla trincea, finché non si sa più nulla di lui e del suo destino. Io mi sono molto appassionato alla figura di Naphta, naturalmente la presa di posizione è direttamente a suo favore. Per far capire subito la differenza tra i due, c’è un momento in cui Naphta dice a Settembrini: «Voi italiani avete inventato le operazioni di cambio e le banche, e Dio vi perdoni. Gli inglesi hanno inventato la dottrina economica della società, e il genio umano non glielo perdonerà mai». Ecco, basta questo per prendere posizione a suo favore. Vediamo quindi alcuni passaggi dei colloqui tra due personaggi così distanti e opposti, al punto da passare a volte dal dialogo al litigio. Ad esempio, Settembrini ragionava così: «Chi trascura la natura e lo studio di essa è in errore e, contro l’assurda negazione delle forme predicata dal Medioevo e dalle epoche intese a imitarlo, si diede a esaltare con parole sonore il retaggio greco-romano, il classicismo, la forma, la bellezza, la ragione e la serena contemplazione della natura». Quando Settembrini chiede a Naphta: «Crede lei in una verità, una verità oggettiva, scientifica, la cui conquista è legge suprema, e le cui vittorie sull’autorità costituiscono la gloriosa storia dello spirito umano?!», Naphta risponde: «Una vittoria così non può darsi, perché l’autorità è l’uomo, il suo interesse, la sua dignità, la sua salvezza, e tra essa e la verità non può darsi conflitto. Coincidono. […] Vero è ciò che giova all’uomo. Esso riassume la natura, in tutta la natura egli solo è creato e la natura è creata soltanto per lui. Egli è la misura delle cose e la sua salvezza il criterio della verità. Una conoscenza teorica, che non abbia alcuna relazione pratica con l’idea della salvezza umana, è così poco interessante che è necessario negarle ogni valore di verità e non ammetterla». A questo punto Naphta riporta una citazione di Lattanzio: «I secoli cristiani erano tutti del parere che la scienza naturale è umanamente irrilevante. Lattanzio, cui il grande Costantino affidò l’istruzione di suo figlio, domandò addirittura quale beatitudine gli venisse dal sapere dove nasce il Nilo o dal sapere il vaniloquio dei fisici a proposito del cielo. Provi a dargli una risposta! Se tra tutte le filosofie si preferì la platonica, lo si fece perché essa non mira a conoscere la natura, ma a conoscere Dio». Questa affermazione sul tema della natura è molto importante. Ricordo che il giovane Hegel, quando stava a Berna, davanti alle Alpi svizzere diceva che «la natura è spirito dormiente». Definiva le Alpi come masse eternamente morte: in fondo è così, quando sto in campagna finalmente posso vedere il cielo al buio e le stelle, il firmamento, ciò che Pascal chiamava «l’eterno silenzio degli spazi infiniti». Mi chiedo sempre che bisogno ci sia di andare lassù con le navicelle spaziali, per vedere che cosa? Alla fine degli anni Sessanta, quando ci fu la corsa a chi arrivava primo sulla luna, mi capitò di scrivere qualcosa su quei «ridicoli passi dell’uomo sulla luna», quelle persone tutte infagottate nelle tute che volavano dentro alle navicelle. Ecco, che cosa comporta questo? Era, ed è, una sorta di competizione economica tra grandi potenze; prima si cercava di conquistare spazi sulla terra, adesso si tenta di conquistare spazi nel cielo, ma si tratta sempre di un istinto di conquista. Ancora recentemente, quando ci fu la scoperta del buco nero, mi piacque una battuta di quell’animale di destra che è Vittorio Feltri: «ma chi se ne frega del buco, tra l’altro è pure nero». Mi sono chiesto quando mai una personalità politica o intellettuale della sinistra avrebbe potuto pronunciare una frase simile. Ciò dà l’idea di come a guardare dall’altra parte a volte si imparano delle cose che altrimenti non si capirebbero. Continuando nella nostra lettura, ci sono passaggi molto interessanti da attraversare. Naphta dice all’umanista progressista: «Avevo cercato di mettere un po’ di logica nella nostra conversazione e lei mi risponde con esaltazioni. Sapevo abbastanza bene che il Rinascimento ha messo al mondo quello che chiamano liberalismo, individualismo, borghesia umanistica; ma i suoi “frutti di lotte e battaglie” mi lasciano freddo, poiché l’età battagliera, eroica, dei suoi ideali è tramontata da un pezzo, questi ideali sono morti, o sono oggi almeno ridotti all’ultimo respiro, e i piedi di colo- ro che faranno loro la festa sono già sulla soglia». Naphta ha una forte ostilità nei confronti della modernità, occupata dagli animali istinti borghesi e capitalistici. E continua così: «Una pedagogia che oggi si considera ancora figlia dell’illuminismo e scorge i suoi mezzi educativi nella critica, nella liberazione e cura dell’io, nell’eliminazione di forme di vita assolute… una siffatta pedagogia potrà ancora riportare vittorie retoriche del momento, ma la sua arretratezza è, per chi se n’intende, al di là di ogni dubbio. Tutte le società veramente educatrici hanno sempre saputo che cosa occorra realmente in qualsiasi pedagogia: il comando assoluto, il fermo impegno, la disciplina, il sacrificio, la negazione dell’io, la violazione della personalità. Credere infine che la gioventù si compiaccia della libertà, significa fraintenderla freddamente. Il suo più vivo piacere è l’obbedienza. […] Non la liberazione, né lo sviluppo dell’io sono il segreto e il comandamento dell’ora. Essa ha bisogno, essa esige, essa saprà procurarsi… sapete che cosa? Il terrore». Sono frasi dure, ma a leggerle oggi quasi ci rasserenano, perché siamo costretti a vivere dentro una melassa di chiacchiera e retorica, completamente vuota. Il suo riferimento a questa forma del comando, che poi riconosce nella forma dello Stato, trova molte affinità con Schmitt. Dice ancora Naphta: «L’antichità era capitalista perché credeva nello Stato. Il medioevo cristiano ha scorto con chiarezza l’immanente capitalismo dello Stato laico. “Il denaro sarà l’imperatore”: ecco una profezia del secolo XI. Vuol negare che ciò si sia avverato alla lettera e in tal modo l’indiavolamento della città sia diventato un fatto compiuto?». E davanti alla «impazienza» mostrata da Settembrini di conoscere l’esponente del terrore di cui parla, Naphta risponde: «Curiosità temeraria nell’avvocato di una classe sociale che è l’esponente di quella libertà che ha portato il mondo alla rovina. All’occorrenza posso rinunciare alla sua replica, perché conosco l’ideologia politica della borghesia. La sua meta è l’impero democratico». Questa formula, «impero democratico», è attualissima: c’è oggi un imperialismo delle grandi potenze occidentali, soprattutto degli Stati Uniti, che non è più in primo luogo l’esportazione di capitali, quella già abbondantemente acquisita, ma innanzitutto l’esportazione della democrazia. Stiamo vedendo con la vicenda afghana che cosa vuol dire esportazione della democrazia in paesi che non sanno nemmeno che cosa sia, e che non lo vogliono sapere. Quindi, la meta di questo mondo è l’impero demo- cratico, «l’autopotenziamento dello Stato nazionale verso l’universale, lo Stato universale. L’imperatore di questo impero? Lo conosciamo». Quella di Naphta è una critica che va al fondo delle cose, come diceva Marx, perché ritrova il punto centrale della contrapposizione al mondo di oggi. Continua: «Fin dai giorni di Gregorio Magno, il fondatore dello Stato di Dio, la Chiesa si è assunta il compito di ricondurre l’uomo sotto il governo di Dio. La rivendicazione del dominio papale non fu proclamata per sé stessa; il vicariato dittatoriale del papa fu invece il mezzo e la via per arrivare alla redenzione, la forma di transizione dallo Stato pagano al regno dei cieli. A questi discenti lei ha parlato di azioni cruente della Chiesa, della sua intolleranza punitiva… osservazioni fuori di posto, devo dire, perché lo zelo per la causa di Dio non può certo essere pacifista, e fu Gregorio a dire le grandi parole: “Maledetto colui che trattiene la spada dal sangue!”. Il potere è cattivo, lo sappiamo. Ma se vogliamo che venga il regno, il dualismo di bene e male, di aldilà e aldiquà, di spirito e potere, deve annullarsi temporaneamente in un principio che unisca ascesi e dominio. Ecco quella che io chiamo la necessità del terrore». Vi dicevo di meditare su queste cose, perché si sarebbe portati o ad assumerle acriticamente, o addirittura a farle riaffiorare con convinzione e violenza. Dobbiamo chiederci in che modo ci aiutano a capire il mondo in cui stiamo e come possono portarci anche oltre il capire, per riorganizzare il conflitto nei confronti di questo mondo. È un ritorno indietro nel tempo per giustificare una posizione più chiara sul presente. Noi oggi possiamo dire parole nuove, dobbiamo dirle, a volte cerchiamo di dirle, non so in che modo ci riusciamo. Però bisogna sempre sapere che ci sono parole vecchie, tipo quelle da poco citate, che non vanno prese alla lettera, vanno meditate e lette con disincanto e poi considerate solo come premessa delle parole nuove e diverse che si possono dire oggi. Ed è una premessa da acquisire, perché a volte quelle parole vecchie sono state dette meglio di quanto noi possiamo dire oggi le parole nuove. Consiglio perciò sempre di scavare nel passato per capire il presente, soprattutto a chi attraversa un processo di formazione e ha bisogno di trovare qualche certezza. Naphta ancora dice: «I padri della Chiesa hanno chiamato dannose le parole “mio” e “tuo”, e dichiarato che la proprietà privata è un’usurpazione e un furto. Hanno condannato il possesso di beni, perché secondo il divino diritto naturale la terra è comune a tutti gli uomini e perciò produce i suoi frutti per il comune uso di tutti. Insegnarono che soltanto l’avidità, conseguenza del peccato originale, propugna il diritto al possesso e ha creato la proprietà particolare. Furono abbastanza umani da  considerare in genere l’attività economica un pericolo per la salvezza dell’anima, cioè per lo spirito di umanità. Odiavano il denaro e gli affari e chiamarono la ricchezza capitalistica il combustibile del fuoco infernale. Disprezzarono cordialmente la fondamentale legge economica per cui il prezzo risulta dal rapporto fra offerta e domanda, e condannarono l’utilizzazione della congiuntura come cinico sfruttamento delle strettezze del prossimo. Secondo loro esiste uno sfruttamento ancora più delittuoso: quello del tempo, la mala consuetudine di farsi pagare per il solo scorrere del tempo un premio, cioè l’interesse, e di abusare in tal modo del tempo, istituzione universale e divina, a vantag- gio dell’uno e a danno dell’altro». Insomma, ecco come si può essere rivoluzionari essendo reazionari! È una cosa che non riesco molto a far capire ma di cui sono profondamente convinto, perché a volte sono proprio costoro quelli che elaborano una critica al fondo delle cose. Continua Naphta: «Quegli spiriti umani ebbero a schifo l’idea di un automatico aumento del denaro, compresero tutte le speculazioni e il giuoco degli interessi nel concetto di usura e dichiararono che ogni ricco è un ladro e l’erede di un ladro. Andarono anche più in là. Considerarono, come  Tommaso d’Aquino, attività vergognosa qualsiasi commercio, il puro affare commerciale». C’è poi una parte del dialogo che interviene nella nostra storia, quella che sta alle nostre spalle, la storia del movi- mento operaio e dei tentativi di scardinare l’ordine esistente. Lo fa con argomenti convincenti. «Ebbene, tutte queste massime e misure economiche risorgono oggi, dopo secoli di sepoltura, nel moderno movimento del comunismo. La concordanza è perfetta fin nell’esigenza di dominio che il lavoro internazionale proclama contro il mondo internazionale del commercio e della speculazione, il proletariato mondiale, che oggi contrappone l’umanità e i criteri dello Stato di Dio alla corruzione borghese-capitalistica. La dittatura del proletariato, questo postulato politico-economico del nostro tempo, non significa il dominio per sé stesso e per l’eternità, bensì una temporanea sospensione dell’antitesi di spirito e potere nel segno della croce, significa il superamento del mondo mediante il dominio mondiale, significa la transizione, la trascendenza, significa il Regno. Il proletariato ha ripreso l’opera di Gregorio, con la stessa passione religiosa, e come lui non potrà non macchiarsi le mani di sangue. Compito suo è il terrore per la salvezza del mondo e per la riconquista della redenzione finale, della fede in Dio senza Stato e senza classi». Un’ultima citazione da questo testo: «Come numerosi ebrei intelligenti, Naphta era per istinto un rivoluzionario e un aristocratico; socialista… e a un tempo ossessionato dal sogno di partecipare a forme di vita nobili e superbe, esclusive e legittime. La prima manifestazione strappatagli dalla presenza d’un teologo fu, benché frutto di un’analisi puramente comparativa, una dichiarazione d’amore verso la Chiesa romana che gli appariva come potenza a un tempo nobile e spirituale, cioè antimateriale, antireale e antimon- dana, quindi rivoluzionaria». La montagna incantata è uno dei testi che ci illumina su alcune questioni. C’è un altro testo che mi piace accostarvi, perché siamo nello stesso clima di rivolta, di amara, realista e pessimista considerazione delle cose del mondo, con tutte le conseguenze terribili che da ciò se ne possono trarre e che in parte sono state tratte. Parlo de I fratelli Karamazov di Dostoevskij, in quelle poche pagine illuminanti che contengono la leggenda de Il grande inquisitore. C’è in particolare un paragrafo che serve da introduzione a questa leggenda, intitolato La ribellione. I due fratelli, Ivan e Alëša, dialogano tra loro in modo consenziente e complementare, rinviandosi i pensieri. Comincia Ivan: «Debbo farti una confessione, […] io non ho mai potuto capire come sia possibile amare il prossimo. Appunto il prossimo, a parer mio, è impossibile amarlo, a differenza forse di chi ci sta lontano. […] Perché l’uomo si faccia amare, bisogna che rimanga nascosto: non appena ti mostra il viso, l’amore è bell’e finito. […] A parer mio, l’amore di Cristo per gli uomini è una specie di miracolo impossibile sulla terra». Come è noto, Il grande inquisitore comincia con la scena del popolo che piange una bambina morta e chiede a un personaggio sconosciuto, capitato lì per caso mostrando segni escatologici, di farla resuscitare. Il personaggio ci riesce e la bambina, come nel Vangelo di Matteo, si leva dal sepolcro. In quello stesso momento, mentre il popolo si agita, grida, singhiozza, passa accanto alla cattedrale il grande inquisitore in persona. La descrizione del cardinale è molto simile a quella che abbiamo visto del personaggio di Naphta: «Era un omino scarno, raso e di una bruttezza spiccata, addirittura corrosiva […] In lui tutto era affilato: il naso aquilino, le labbra strette, le spesse lenti degli occhiali dall’armatura leggera che portava sugli occhi grigiochiaro, e persino il silenzio che osservava, donde si poteva arguire che il suo discorso doveva esser acuto e logico». Il cardinale inquisitore viene così descritto: «È un vecchio di quasi novant’anni, alto e diritto, col viso scarno e gli occhi incavati, dai quali tuttavia brilla ancora, come una favilla, lo sfolgorio dello sguardo. Oh, non ha indosso i sontuosi paramenti cardinalizi in cui si pavoneggiava ieri dinanzi al popolo, mentre bruciavano i nemici della fede di Roma: no, in questo momento ha soltanto la sua vecchia, rozza tonaca di frate». Qui il discorso del grande inquisitore è abbastanza violento come quello di Naphta, parla di come gli uomini non siano in grado di sopportare la libertà: è un peso troppo grande per loro. Se la prende perciò con l’individuo che ha fatto il miracolo, il cardinale chiama il suo seguito e lo fa arrestare, parla a lui come se parlasse a un Cristo tornato sulla terra: «sei tornato troppo presto». Come allora, ancora oggi gli uomini non sono in grado di capire il messaggio. Il cardinale, a nome della Chiesa, dice all’uomo che sta- va creando un disturbo: «“[…] Perché dunque sei venuto a darci impaccio? Giacché Tu sei venuto a darci impaccio, e sei il primo a saperlo. Ma sai, di’, che cosa avverrà domani? Io non so chi Tu sia, e non voglio sapere se sei Tu o soltanto un simulacro di Lui: ma domani stesso, io ti condannerò e ti brucerò sul rogo come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo che oggi baciava i Tuoi piedi, domani, a un mio semplice cenno, si precipiterà ad accostare le braci al rogo Tuo: sai Tu questo? Già: Tu, forse, lo sai”, soggiunse il vecchio in una intensa riflessione, senza staccare un istante lo sguardo dal suo Prigioniero». Perché dunque sei venuto a darci impaccio? «“[…] Non eri Tu che tanto spesso, allora, dicevi: voglio rendervi liberi? Ma ecco, Tu hai veduto ora, codesti uomini liberi!” commen- ta bruscamente il vecchio con pensosa ironia. “Già, questa è stata una cosa che ci è costata assai”, continua, e guarda a Lui con severità, “ma l’abbiamo condotta in porto, final- mente, nel nome Tuo. Per quindici secoli ci siamo tormentati con questa libertà, ma adesso l’opera è compiuta e saldamente compiuta. Non credi che sia saldamente compiuta? Tu mi guardi con dolcezza, e non mi degni neppure del Tuo risentimento? Ma sappi che ora, e specialmente in questi momenti, codesta gente è persuasa, più che non sia stata mai, d’essere libera in pieno, mentre pure con le proprie mani essi han recato a noi la loro libertà e l’hanno umilmente deposta ai nostri piedi. Ma questo l’abbiam fatto noialtri: era forse questo che Tu desideravi, questa la tua libertà? […] L’uomo è, costituzionalmente, un ribelle: e forse i ribelli possono mai essere felici? Tu fosti preavvisato”, a Lui dice il vecchio, “Tu non hai avuto davvero difetto di preavvisi e di ammonimenti, ma Tu non hai dato ascolto ai preavvisi, Tu hai ricusato l’unica via per cui era possibile ordinare gli uomini alla felicità: senonché, per buona ventura, quando sei ripartito, hai affidato ogni cosa a noi. Tu ci hai promesso, Tu ci hai sanzionato colla tua parola, Tu ci hai concesso il diritto di legare e di sciogliere, e, certamente, non puoi neppur pen- sare di venire a toglierci questo diritto ora. Perché dunque sei venuto a darci impaccio? […] Tu vuoi andare nel mondo, e ci vai con le mani vuote, con non so quale promessa di libertà, che quelli, nella loro semplicità e nella loro ingenita sregolatezza, non possono neppur concepire, e ne hanno timore e spavento – giacché nulla mai fu per l’uomo e per la società umana più insopportabile della libertà!”». Continua dicendo che avrebbe dovuto dare il pane e non la libertà. Doveva dire agli uomini che si poteva vivere in questo mondo in modo dignitoso, solo dopo poteva accadere che essi, crescendo, potessero essere liberi. «Nessuna scienza potrà dar loro il pane, finché rimarranno liberi; ma finirà che essi recheranno la libertà loro ai piedi nostri, e diranno a noi: “Magari fateci schiavi, ma dateci da mangiare”. Capiranno, alla fine, loro stessi, che libertà e pane terreno a sufficienza per ciascuno non sono concepibili insieme, poiché giammai, giammai non sapranno farsi le giuste parti fra loro! Si persuaderanno pure che non potranno mai essere liberi, perché sono deboli, pieni di vizi, inconsistenti e sediziosi». Insomma, torna il tema dell’uomo che non è buono e di come bisogna comportarsi nei suoi confronti. «Essi si stupiranno di noi, e ci terranno in conto di dèi in compenso del fatto che, trovandoci alla loro testa, noi avremo acconsentito ad abolire la libertà, che faceva loro paura, e a porli sotto il dominio nostro: tanto tremendo finirà col sembrar loro essere liberi! […] Non c’è preoccupazione più assillante e più tormentosa per l’uomo, non appena rimanga libero, che quella di cercarsi al più presto qualcuno innanzi al qua- le genuflettersi. […] O dunque hai dimenticato che la pace e magari la morte sono all’uomo più care della libera scelta nella conoscenza del bene e del male? Non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà della propria coscienza: ma non c’è nulla, del pari, di più tormentoso». C’è una affinità di questi discorsi con i testi che abbiamo visto prima. Ne La montagna incantata c’è, a un certo punto, la domanda se Hegel fosse un pensatore cattolico e Naphta risponde che sì, la definizione di filosofo di Stato lo conferma: «Cattolicità di Hegel, in senso religioso, anche se naturalmente non ecclesiastico e dogmatico. Quando si adopera il concetto di politica esso è psicologicamente connesso con quello di cattolicità. Poiché […] il concetto di politica “è”, disse, psicologicamente connesso con quello di cattolicità, essi formano una categoria che abbraccia tutto quanto è obiettivo, attivo, operoso, realizzabile, volto all’esterno. […] Nel gesuitismo, soggiunse, appare evidente la natura politico-pedagogica del cattolicesimo». Per concludere, torniamo a Kant. Bisogna assumere il concetto di libertà con molta cautela e ripensarlo dal fondamento. E come si attua la libertà? La conclusione è che libertà senza autorità è un discorso vuoto, una finzione, un’apparenza, un’ideologia: non si farà mai realtà. Saint- Just diceva: bisogna costringere gli uomini a essere liberi, è una frase terribile eppure carica di significato. La libertà viene dall’alto, per introdursi in interiore homini deve compiere un percorso lungo e anche pedagogico. Quindi, quando pensiamo al tema della libertà dobbiamo pensare, nello stesso tempo, al tema dell’autorità. Come dice Kant: «È un dovere temporaneo (poiché esso non si realizza in modo tanto rapido) dei monarchi, anche quando regnano in modo 128   autocratico, governare tuttavia in modo repubblicano (non: democratico); cioè, di trattare il popolo secondo princípi conformi allo spirito delle leggi della libertà (quali si prescri- verebbe un popolo dalla ragione matura), seppure, alla lettera, non ne venga richiesto il consenso». È l’autorità che deve farsi carico della libertà. La libertà si può effettivamente esercitare se l’uomo libero riconosce l’autorità. Ma autorità non è potere, auctoritas è il contrario di potestas. Non la libertà da sola, ma solo la libertà che si riconosce nell’autorità può combattere e battere il potere. Autorità versus potere. L’autorità repubblicana – e non democratica – non richiede il consenso, perché è un’autorità collettiva, non personalizzata, gestita da un’aristocrazia. Noi abbiamo sempre concepito la classe operaia come aristocrazia di popolo. Un’aristocrazia che si portava dietro il popolo e introduceva nel popolo una coscienza di classe. L’autorità deve togliere dal mondo il problema della fame, perché tolto il problema del bisogno materiale possa quindi arrivare a coltivare la li- bertà dello spirito, la vera e più alta forma di libertà, perché interiorizzata. Quando si dice nel Vangelo che il regno di Dio è in mezzo a noi, si vuol dire questo: il regno non è nell’aldilà, ma si può costruire qua. Basileia senza basileus, regno senza re. Questa è la comunità degli esseri umani liberati. Da questo cupo discorso antropologicamente pessimista, se ne può venir fuori con una capacità di vedere uno sbocco che rovescia la premessa. La rovescia nel suo contrario, nel senso di una libertà conquistata. Una conquista portata avanti da un’autorità che viene liberamente riconosciuta. L’invito che faccio è quello di riesaminare questo discorso freddamente e anche appassionatamente. Perché dalla freddezza iniziale si arriva a una visione che non è di certo ottimistica, ma rivoluzionaria, veramente rivoluzionaria.   


***


Mario Tronti (1931-2023), è stato uomo politico, filosofo e scrittore. Negli anni Cinquanta aderisce al Partito comunista italiano. Figura di riferimento dell’operaismo politico italiano, nella sua riflessione intellettuale accoglie e rielabora politicamente la grande cultura della crisi novecentesca.

Con Raniero Panzieri anima la rivista «Quaderni rossi». Dirige poi «classe operaia». Partecipa a «Contropiano». Fonda «Laboratorio politico». Per DeriveApprodi ha pubblicato: Operai e capitale (2006-2013), Noi operaisti (2009), ABeCedario di Mario Tronti (2016), La saggezza della lotta (2021), Per un atlante della memoria operaia (2023), La politica al tramonto (2024), Scritti su Gramsci (2024). Per MachinaLibro, invece, sono usciti due suoi contributi: Il legno storto dell'umanità, contenuto ne L'uomo non è buono (2024); La politica al tramonto. Dialogo con Adelino Zanini, contenuto nella raccolta di saggi Nel sottosopra degli anni Ottanta (2024).

Comments


bottom of page