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Il Festival come prototipo

SCATOLA NERA




Non ce lo aspettavamo, ma lo abbiamo organizzato.


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Quando si propongono delle iniziative si fa sempre una scommessa. Ora, a evento concluso, potremmo limitarci a esprimere la nostra soddisfazione per la riuscita del Festival, per le centinaia di persone che hanno affollato le sale della Casa di Quartiere Scipione dal Ferro, che hanno partecipato ai dibattiti e bevuto generosi bicchieri di grandi vini, per la qualità e l’intensità delle relazioni e delle discussioni su temi molteplici e di straordinaria importanza politica e culturale. Del resto, sarebbe già sufficiente leggere il programma per rendersene conto.

Tutto vero, tutto giusto. Però crediamo non sia sufficiente. Un primo bilancio, a caldo, deve necessariamente contenere riflessioni e considerazioni capaci di inserire questo evento dentro un processo, che viene da prima e, soprattutto, va oltre il Festival stesso. Da tempo, infatti, DeriveApprodi e Machina sono spazi aperti di discussione sulla crisi dei luoghi di socialità, confronto e aggregazione dei movimenti. È questo processo di inquieta ricerca che ci ha condotti a costruire Punto Input a Bologna e più di recente il Radical Bookstore a Roma, immaginati non solo come delle librerie ma come dei centri di formazione politica e culturale, dei prototipi concreti che – auspichiamo e proponiamo – siano riproducibili ovunque.

Anche per il Festival avremmo potuto accontentarci del già noto, optando per la strada rassicurante dei nostri spazi e dei nostri ambienti, di cui conosciamo tutto e in cui conosciamo tutti. Sarebbe stato certamente più semplice. Con altrettanta certezza non sarebbe stata una scelta all’altezza della sfida che abbiamo lanciato. Perciò il Festival è stato fatto nella Casa di un quartiere, la Cirenaica, in tumultuosa e contraddittoria trasformazione; è uno spazio dell’Associazione italiana cultura sport, a cui Punto Input è fin dall’inizio affiliato. In questo consiste la scommessa, nel muoverci al di fuori dei nostri orti perimetrati e asfittici, nell’aprirci a esperienze, incontri e possibilità in cui è tutto da scoprire. Dove fare inchiesta, per utilizzare una categoria a noi cara che però, se non è sostanziata da sperimentazioni concrete, rischia di diventare meramente retorica.

E dunque, cosa abbiamo trovato in queste giornate? Da un lato cose che ci aspettavamo e a cui già abbiamo fatto cenno, sicuramente. Dall’altro lato elementi che non ci aspettavamo, che ci hanno sorpreso, che ci hanno spiazzato, da condividere e su cui riflettere, collettivamente. La prima questione riguarda la composizione dei partecipanti, molti giovani under 30, parecchi over 50, un po’ meno numerosa la generazione intermedia. I visi per noi noti sono stati pochi, molto pochi: in una città come Bologna, in cui i nostri ambienti assomigliano a dei condominii in cui tutti conoscono tutti, significa che il Festival è riuscito a collocare la propria proposta al di fuori della piccola bolla rituale. Un’altra parte sono persone incontrate nei corsi di formazione di Punto Input o che si sono avvicinate attraverso la lettura di Machina, il che vuole dire che inizia a esserci una prima sedimentazione dei percorsi teorici e pratici fino a qui fatti. Infine altri, molti altri, mai visti.

La seconda questione riguarda il mood generale, le aspettative, gli stati d’animo, ciò che potremmo definire l’atmosfera sentimentale dei partecipanti, conosciuti o sconosciuti: non crediamo di esagerare se parliamo di una sorta di gioia liberatoria. «Finalmente torniamo a respirare: ci voleva!», è stato uno dei commenti ricorrenti. Ci pare che questa sensazione diffusa vada ben al di là dei meriti degli organizzatori: è espressione di un bisogno di incontrarsi e confrontarsi, di discutere e socializzare, di parlare e ascoltare, di ragionare e ridere, di guardarsi negli occhi. Tornare a farlo, ovviamente, dopo la crisi pandemica. Però anche, forse, farlo in modo nuovo, differente dal passato: reimparare a respirare insieme. Un bisogno reso ancora più urgente dai tempi cupi che ci circondano, che possono tuttavia essere – come tutte le crisi – una grande occasione per immaginare, pensare e ripensare, inventare e reinventarsi.

Infine, dicevamo, un approfondimento andrebbe fatto per il luogo in cui il Festival si è svolto. Perché questo luogo è stato, in misura non secondaria, la condizione di possibilità di tutto ciò che abbiamo detto. Non sarebbe stata affatto la stessa cosa se avessimo fatto queste giornate altrove, perché quel luogo specifico – e certamente altri come quello, perlopiù al di fuori dei nostri radar e delle nostre abituali frequentazioni – è un crocevia urbano di forme di vita, linguaggi, relazioni reali, contraddittorie come la realtà è, produttivamente distante dall’artificialità che con il tempo hanno assunto i nostri codici e le nostre estetiche. Oltre agli spazi che possiamo immediatamente costruire, allora, questi luoghi della città vanno investiti dalle nostre energie, voglia di mettersi in gioco, capacità di cooperazione.

Insomma, è stato un Festival nel luogo giusto e al momento giusto: ecco perché pensiamo che sia o possa divenire un prototipo. A patto che non ci si limiti all’evento, ma si insista sul processo. Proprio per questo non ci limitiamo a un comunicato compiaciuto e proviamo da subito a rilanciare in avanti. Proponiamo un convegno della rivista Machina sabato 5 e domenica 6 novembre a Bologna, per discutere di ciò che abbiamo fatto finora e, soprattutto, di ciò che possiamo fare d’ora in avanti. Per continuare a respirare insieme. Perché quando i cervelli non prendono aria, inevitabilmente deperiscono nella loro solitudine.



Immagine: murales al quartiere Pigneto di Roma



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