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Il familismo amorale e gli stereotipi sul Mezzogiorno: una prospettiva postcoloniale



familismo amorale
Immagine: Zorka Saglova, SenoSlama, Hay Straw, 1969

Attraverso la lente della critica postcoloniale, Michel Huysseune ripercorre la storia di un concetto tanto noto quanto problematico nel contesto del dibattito sul Mezzogiorno d’Italia: il concetto di «familismo amorale». Ne legge l’impatto teorico e politico nel dibattito internazionale negli anni della ricostruzione postbellica prima e successivamente, a partire dalla fine degli Ottanta, nel contesto della transizione cosiddetta «postfordista», anche in Italia. Discute la tradizione storica degli stereotipi sul Sud e porta in primo piano l’agency delle popolazioni subalterne rimossa, insieme all’esperienza delle lotte contadine del dopoguerra, dalla narrazione nazionale. Un contributo di grande importanza nel percorso di riflessione e analisi sulla «frattura italiana».

 

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Pochi concetti hanno avuto un ruolo più rilevante nella produzione di stereotipi sul Sud di quello di «familismo amorale«[1]; concetto introdotto, come è noto, dal libro Le basi morali di una società arretrata del politologo americano Edward Banfield (originariamente pubblicato in inglese nel 1958). Per Banfield il familismo è un ethos: «massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare; supporre che tutti gli altri si comportino nello stesso modo»[2]. Un concetto per spiegare l’assenza di sviluppo economico e sociale nel paese di Chiaromonte (nel libro Montegrano) in Basilicata, dove aveva condotto la sua ricerca sul campo nel 1954-1955. In una prospettiva ispirata da Alexis de Tocqueville, contrapponeva il familismo amorale di Chiaromonte alla cultura comunitaria caratteristica delle aree rurali negli Stati Uniti.

Banfield non si è limitato a descrivere un caso specifico ma ha suggerito che il concetto si potesse applicare a gran parte del Mezzogiorno. Con il tempo, il significato si è esteso ulteriormente e oggi il familismo amorale indica la presunta incapacità dei meridionali di cooperare per il bene pubblico. Alla fine degli anni Ottanta, in corrispondenza con l’emergere della Lega Nord, è diventato una componente del dibattito pubblico italiano. Dagli anni Novanta in poi, la pubblicazione del libro La tradizione civica nelle regioni italiane, di Robert D. Putnam (1993), ha reso il concetto popolare anche nelle scienze sociali italiane; fuori dall’Italia invece l’idea di familismo amorale è stata ampiamente utilizzata per descrivere, più in generale, i presunti difetti delle società periferiche.

Questo utilizzo più esteso del concetto riflette un orientamento predominante nelle scienze sociali, quello di voler spiegare l’ineguaglianza globale analizzando i presunti difetti delle società meno ricche, piuttosto che considerare le condizioni strutturali di sfruttamento e disuguaglianza. Spesso, anche nel caso dell’Italia meridionale, si tendono a indicare le assenze e le mancanze, e il concetto di familismo amorale (assieme ad altri concetti, quali la cosiddetta cultura della povertà) permette di dare una valenza apparentemente più scientifica a quelli che sono considerati dei difetti. Nel caso specifico del Mezzogiorno, il successo del concetto di familismo amorale va anche letto nel contesto di una tradizione che interpreta fenomeni come il clientelismo o la criminalità organizzata quali tratti culturali tipici dei meridionali, senza alcuna analisi delle dinamiche istituzionali e strutturali alla base di fenomeni che non sono certamente confinati al Sud.

In questo contributo analizzo la ricezione del concetto di familismo amorale nel dibattito pubblico sul Sud e l’emergere nel Mezzogiorno della critica postcoloniale che ne ha operato la decostruzione. Inserisco poi il concetto dentro la tradizione storica di stereotipi sul Mezzogiorno. Nella sezione finale analizzo le forme di cooperazione e le mobilitazioni sociali nel Mezzogiorno che sono rese invisibili nelle narrazioni stereotipate sul Sud.

 

Il familismo amorale nel dibattito scientifico e pubblico

 Il libro di Banfield ha da subito generato un dibattito importante nel mondo accademico[3]. Oltre a numerose recensioni, fino alla metà degli anni Settanta un numero impressionante di saggi ha discusso il libro e in particolare il concetto di familismo amorale. La maggiore parte di questi, scritti soprattutto da antropologi o sociologi rurali non italiani, tendeva ad accettare le osservazioni di Banfield sulla mancanza di cooperazione nel Sud ma non le conclusioni a cui giungeva, che attribuivano la responsabilità a un ethos. In Italia, invece, in quegli anni, la ricezione del libro è stata meno intensa. Negli anni Sessanta e Settanta il dibattito era focalizzato sullo sviluppo economico del Mezzogiorno e per questo non particolarmente interessato alla dimensione culturale sottolineata da Banfield.  

Il dibattito italiano sul familismo amorale ha il suo vero inizio alla fine degli anni Ottanta e riflette, a suo modo, il venir meno delle tradizioni di attivismo politico e solidarietà dei decenni precedenti nonché il riflusso degli anni Ottanta. In quegli anni, l’emergere di nuovi scandali e l’importanza crescente della criminalità organizzata facilitavano l’emergere di une visione negativa e stereotipata del Sud. L’espressione intellettualmente più elaborata di tale visione è il libro La nostra Italia dall’antropologo Carlo Tullio-Altan[4]. Il libro, astutamente descritto da Tim Mason come un esempio di masochismo nazionalista[5], lamenta il declino morale dell’Italia e situa la causa di tale declino nell’arretratezza del Meridione e nella sua cultura familista, che secondo Tullio-Altan sarebbe riuscita a corrompere l’intero sistema politico italiano. La ricezione piuttosto entusiasta del libro ha certamente contribuito a ravvivare l’interesse nel concetto di Banfield[6]

La storia del familismo amorale, tuttavia, è anche la storia della critica a una visione stereotipata dal Mezzogiorno, critica che in Italia ha inizialmente faticato ad affermarsi. Il sociologo Gilberto Marselli, che aveva aiutato Banfield negli anni della ricerca, aveva già negli anni Sessanta formulato alcune timide critiche relative al lavoro sul campo, ma senza offrire modelli interpretativi alternativi[7]. La sola eccezione nel lungo e faticoso percorso di critica al lavoro di Banfield in Italia è stata, per molto tempo, lo studioso Alessio Colombis nel suo ostinato lavoro per decostruire in loco la ricerca e il modello teorico di Banfield[8]. La critica più sistematica a Banfield è legata al rinnovamento della ricerca sul Mezzogiorno che si consolida, nel 1987, con la nascita della rivista interdisciplinare «Meridiana», fondata dall’IMES, l’Istituto meridionale di storia e scienze sociali. Sarà poi soprattutto la pubblicazione, nel 1993, del libro di Robert Putnam, che riprendeva le tesi di Banfield, a stimolare una riflessione critica sugli stereotipi nelle rappresentazioni del Sud. È infatti tramite le recensioni del libro di Putnam che si è imposta una critica più articolata del concetto di familismo amorale, una critica che ha anche incorporato una dimensione teorica fortemente ispirata dal dibattito postcoloniale.

 

La critica teorica del familismo amorale

Due pubblicazioni degli anni Novanta hanno contribuito a questa nuova lettura critica e teoricamente sofisticata del familismo amorale. La prima, pubblicata nel 1997 da «Meridiana», contiene gli atti di un convegno, tenutosi a Cagliari nel 1994, dal titolo Famiglia meridionale senza familismo. Il titolo del volume, che raccoglie contributi di storici, antropologi e sociologi, indica l’intenzione dei curatori di decostruire il modello teorico di Banfield. Il volume presenta in primo luogo lo stato dell’arte delle ricerche sulla famiglia nel Mezzogiorno, mostrando come il successo del concetto di familismo amorale mostri una scarsa conoscenza della storia e del ruolo attuale della famiglia nel Mezzogiorno. Il saggio introduttivo del sociologo Benedetto Meloni mette in relazione la ricerca di Banfield con la teoria della modernizzazione dominante negli anni Cinquanta, teoria basata sulla dicotomia fra modernità e arretratezza e incentrata sulla transizione dalla società tradizionale a quella moderna[9].

Banfield non si riferiva esplicitamente a questa teoria, ma il concetto di familismo amorale può essere interpretato come un un’applicazione della teoria della modernizzazione che, al contempo, ne mostra le aporie. Già nel 1967 il sociologo Alessandro Pizzorno si era retoricamente chiesto se l’atteggiamento dei Montegranesi descritto da Banfield non fosse del tutto simile all’egoismo degli artigiani e dei commercianti utilizzato da Adam Smith per spiegare il funzionamento della mano invisibile nell’economia di mercato[10]. Si tratta di una contraddizione interna alla teoria della modernizzazione, che mentre afferma l’importanza dell’orientamento verso interessi collettivi si basa, allo stesso tempo, sull’interesse individuale. Questa contraddizione rivela la natura ideologica della teoria della modernizzazione: una teoria che vede nell’avanzata del capitalismo l’unico modello sociale possibile, ma ne dimostra al contempo le contraddizioni sociali intrinseche, nella difficoltà a individuare come valore fondante l’individualismo o la cooperazione sociale.

Nel testo citato, Meloni sottolinea anche come il lavoro di Banfield riveli la problematicità della famiglia nella teoria sociale. In una prospettiva evoluzionista, la famiglia dovrebbe perdere la propria funzione sociale nel processo di modernizzazione, per diventare un luogo essenzialmente privato e affettivo. Meloni sottolinea che è stato proprio il modello ideale della modernità, che ha ridotto il ruolo della famiglia a sfera privata, ad aver portato gli scienziati sociali a sottovalutare il ruolo delle reti famigliari e la loro importanza nella comunità, perché queste reti erano percepite come tradizionali e perciò arretrate e di limitato interesse[11]. Anche il sociologo Michael Eve ha argomentato come il modello della famiglia moderna neghi, nel «nord» del mondo, come ad esempio in Gran Bretagna o negli USA, la centralità dei vincoli di parentela[12].

La seconda pubblicazione a proporre una critica teorica solida del familismo amorale è stato il volume Italy’s Southern Question. Orientalism in One Country (1998), che ha introdotto le tematiche della teoria postcoloniale nel dibattito sul Mezzogiorno. Il saggio introduttivo della curatrice, l’antropologa Jane Schneider, delinea il contesto e l’approccio teorico del libro. Il saggio è molto attento alle rappresentazioni stereotipate del Sud e considera Banfield e Putnam esempi di questa tendenza[13]. Schneider nota che, tanto in Italia quanto all’estero, questi stereotipi vengono riprodotti secondo due modalità. La prima è la dislocazione, ovvero il desiderio delle élite italiane del nord di appartenere allo spazio europeo e la loro tendenza a proiettare le ansie di non-appartenenza sulla parte più lontana dall’Europa, il Mezzogiorno appunto. Di questa tendenza, un esempio estremo è il discorso della Lega Nord. La seconda modalità di riproduzione degli stereotipi è la complicità, cioè la tendenza di alcuni intellettuali e membri delle élite del Mezzogiorno di confermare gli stereotipi negativi sulla loro regione[14].

Schneider lega la creazione di questi stereotipi a una serie di dinamiche globali, mostrando, per esempio, come la dislocazione sia paragonabile alle narrazioni sviluppate nei Balcani. Il riferimento è al conflitto nella ex-Iugoslavia, dove le élite delle repubbliche più ricche, la Slovenia e la Croazia, giustificavano la loro secessione della Iugoslavia affermando l’identità europea e la presunta superiorità culturale della loro nazione.

La letteratura post-coloniale, invece, e in particolare i Subaltern Studies indiani, possono essere utili esempi di attenzione all’agency delle popolazioni subordinate. La riscoperta dell’agire locale è una dimensione importante della critica postcoloniale che permette di decostruire le rappresentazioni stereotipate del Meridione. Capire entrambe le dimensioni – gli stereotipi sul Sud e l’agency delle popolazioni meridionali –  è fondamentale per contestualizzare il concetto di familismo amorale, nonché il suo impatto sul dibattito scientifico e pubblico.

 

Il familismo amorale e la tradizione di stereotipi sul Mezzogiorno

 Uno dei meriti della critica postcoloniale è quello di aver reso possibile un’analisi accurata e storicamente contestualizzata degli stereotipi sul Sud, compreso il concetto di familismo amorale, un concetto che ha dei precedenti nel dibattito italiani di fine Ottocento sul Meridione. Lo troviamo nel libro di Pasquale Turiello, Governo e governati in Italia (1882), che mette a critica l’assenza di legami morali al di fuori della famiglia; una tendenza italiana che si presenta tuttavia più pronunciata nel Meridione. Alcuni anni dopo, nel 1898, nel volume L’Italia barbara contemporanea, l’antropologo criminale Alfredo Niceforo proponeva una dicotomia razziale fra Nord e Sud e opponeva l’individualismo dei meridionali al senso della collettività nel Nord. Secondo Niceforo, l’Italia moderna settentrionale aveva la missione di civilizzare la sua colonia, il Sud, incapace di autogoverno[15]. Forse inconsapevolmente, Banfield ha riciclato queste vecchie immagini e interpretazioni del Sud dando loro nuova vita.

Gli stereotipi sul Mezzogiorno si sono affermati soprattutto dopo l’Unificazione. Prima di allora, la presunta arretratezza dei meridionali poteva essere spiegata come conseguenza del regime dei Borboni. Dopo l’Unificazione e il confronto col brigantaggio post-unità, le élite settentrionali arrivano a considerare le classi popolari meridionali come barbare o «africane», e l’antropologia positivista degli anni Novanta dell’Ottocento le interpretava addirittura come appartenenti a una razza diversa. Al tempo stesso, la crescente delusione riguardo al funzionamento del sistema politico italiano veniva tradotta in una narrazione che spiegava l’inefficienza e la corruzione dello Stato italiano come conseguenza dell’arretratezza della sua periferia, il Mezzogiorno, un’interpretazione facilitata dalle posizioni filogovernative di quasi tutti i parlamentari del Sud.

Anche all’epoca, alcuni intellettuali meridionali hanno offerto critiche pertinenti di queste interpretazioni[16]. Lo storico socialista Gaetano Salvemini rifiutava i discorsi sull’inferiorità morale dei meridionali, sottolineando invece il ruolo negativo della sua élite conservatrice e dello Stato italiano. Il medico siciliano, professore di statistica e deputato repubblicano Napoleone Colajanni ha offerto la critica più sistematica delle narrative razziste sul Sud, sottolineando come i discorsi sulla superiorità razziale dei settentrionali fossero strumenti per legittimare il dominio sul Sud. Più in generale, Colajanni denunciava il colonialismo e l’idea di civiltà superiori e inferiori come idee pericolose che giustificavano la brutalità del dominio coloniale. Queste critiche sono finite nel dimenticatoio per molto tempo, ed è soltanto con le nuove ricerche sul Sud negli anni Ottanta e Novanta che sono state riscoperte.

 

Il Meridione cooperativo e insorgente

 La critica delle rappresentazioni stereotipate del Sud ha svolto un ruolo importante nella decostruzione del concetto di familismo amorale, nonché nel proporre una lettura alternativa della regione. Un primo filone riguarda le pratiche cooperative nel Mezzogiorno. Questa linea di ricerca ha dimostrato l’importanza di varie forme di cooperazione nelle comunità meridionali, ignorate perché spesso informali. Il filosofo Mario Alcaro ha offerto una riflessione teorica sull’importanza di queste pratiche non-utilitaristiche[17]. Invece di considerarle come residui di pratiche tradizionali, suggerisce che esse rimangono un contrappeso importante rispetto all’eccessivo individualismo e ai suoi effetti di alienazione sociale delle società considerate più moderne. Alcaro critica anche la tendenza di confondere queste pratiche cooperative con aspetti deleteri della società meridionale (e non solo), come per esempio il clientelismo, dal quale devono essere distinte. La difesa delle pratiche di cooperazione può rischiare di sfociare in una lettura romanticizzata delle tradizioni culturali del Mezzogiorno, che ignora le disugualianze sociali, di genere e, negli ultimi decenni, anche la discriminazione contro i migranti internazionali. Tuttavia, la valutazione positiva delle pratiche comunitarie permette non soltanto una lettura più corretta del Sud che supera i concetti stereotipati di una modernità di seconda mano o distorta, ma anche di considerare queste pratiche cooperative come possibili strumenti di trasformazione sociale.

Nei dibattiti sul familismo amorale, l’invisibilità delle pratiche di cooperazione nel Mezzogiorno coincide con l’ignoranza delle mobilitazioni collettive nella regione. La cosa più stupefacente nei dibattiti iniziali sul familismo amorale è l’assenza pressoché assoluta di riferimenti alle mobilitazioni degli anni Quaranta e Cinquanta per la riforma agraria. Sono forse le mobilitazioni sociali più importanti nella storia recente del Mezzogiorno che contraddicono palesemente le narrazioni dominanti sulla presunta incapacità di cooperare dei meridionali. Nel caso degli studiosi stranieri questa omissione riflette presumibilmente una scarsa conoscenza della storia del Mezzogiorno, ma anche una prospettiva ideologica che porta più facilmente a ignorare l’agency delle società periferiche. 

I pochi italiani che parteciparono al dibattito iniziale erano invece consapevoli di queste mobilitazioni. Tuttavia, anche in Italia prevaleva una visione basata sulla presunta incapacità dei meridionali di mobilitarsi collettivamente per realizzare cambiamenti sociali. Questa visione ha una storia lunga e contorta. Curiosamente, ha le suoi origini nel contrario, ovvero nella propensione rivoluzionaria dei napoletani, espressa nella rivoluzione di 1647. La successiva partecipazione popolare alla rivolta Sanfedista (1799) e il banditismo dopo l’Unificazione confermavano l’immagine delle classi popolari pericolose e barbare del Mezzogiorno, immagine dominante nei decenni post-Unificazione.

Una particolarità italiana era che a quell’epoca anche il giovane Partito Socialista proponeva questa prospettiva. Secondo il partito, soltanto nel Settentrione più evoluto le classi popolari, e in primo luogo il proletariato moderno, erano capaci di mobilitazioni socialiste, mentre il Sud era controllato da una borghesia reazionaria. Il partito, perciò, tendeva a essere sospettoso nei confronti di mobilitazioni nel Mezzogiorno quali i fasci siciliani (1889-1894), forse il primo movimento italiano di massa di ispirazione socialista. Lo stesso Gaetano Salvemini, il socialista pugliese molto critico verso gli stereotipi anti-meridionali del partito, interpretava i fasci siciliani come una convulsione isterica[18].

Sarà l’esperienza delle mobilitazioni contadine dopo la Liberazione dal nazifascismo che contribuirà a una maggiore consapevolezza della capacità politica dei contadini del Mezzogiorno. L’esempio di Carlo Levi è significativo. In Cristo si è fermato a Eboli (1945), dove racconta la propria esperienza di confinato durante il fascismo, vede i contadini come capaci soltanto di ribellioni repentine e violente, per poi tornare alla solita rassegnazione. Dopo la Liberazione invece, lo stesso Levi, assieme ad altri intellettuali quali Ernesto Di Martino, diventerà consapevole del risveglio politico dei contadini meridionali e del loro attivismo politico. Ma anche in queste lotte si vede la tensione fra le aspirazioni dei contadini e la visione del Partito comunista, che voleva inquadrare queste mobilitazione dentro una strategia riformista[19].

Fino agli anni Settanta, l’interesse anche accademico nelle lotte contadine del dopoguerra rimase notevole, per poi diminuire. Negli anni, forse a causa della grande trasformazione del Mezzogiorno negli anni Cinquanta e Sessanta e della drastica riduzione della classe contadina, la memoria di queste esperienze di mobilitazione è stata marginalizzata.

Il riemergere del dibattito sul familismo amorale è legato a tale rimozione e va anche letto nel contesto del grande riflusso degli anni Ottanta. Non è un caso che Tullio-Altan abbia riciclato vecchi stereotipi, usando il termine negativo «ribellismo» per descrivere sia i movimenti sociali nel Sud che la contestazione degli anni Sessanta e Settanta. La contestazione stessa viene spesso letta in una prospettiva «nordica» che oppone le lotte operaie al Nord con i moti reazionari di Reggio Calabria, ignorando le altre mobilitazioni sociali nel Mezzogiorno negli anni Sessanta e Settanta. Con l’emergere della critica postcoloniale, gli studiosi stanno anche riscoprendo la storia del «Sud ribelle»[20], un’indagine che merita di essere approfondita e di ricevere visibilità pubblica e scientifica.

 

Per concludere

La critica postcoloniale ha indubbiamente contribuito a problematizzare le rappresentazioni stereotipate del Sud, e il concetto di familismo amorale in particolare. Se, almeno per gli studiosi italiani, è diventato oggi difficile ignorare completamente queste critiche, il concetto di familismo amorale viene comunque ancora utilizzato frequentemente. Fra gli studiosi del Sud, tuttavia, il rifiuto del concetto è ormai dominante, e molti hanno anche proposto di interpretare l’utilizzo di tale stereotipo in una prospettiva postcoloniale comparata. L’uso internazionale del concetto di familismo amorale rimane legato alle rappresentazioni di società considerate periferiche e implica l’attribuzione a quelle stesse società della responsabilità per la loro presunta mancanza di sviluppo. La critica postcoloniale, invece, individua le responsabilità delle ineguaglianze strutturali nelle dinamiche del capitalismo globale, e dimostra come l’agency delle popolazioni subalterne possa diventare uno strumento per la loro emancipazione.

 


Riferimenti bibliografici

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Note

[1] La collocazione esatta del Sud è fluttuante. Gli stereotipi sono in primo luogo stati legati agli ex-territori del Regno delle Due Sicilie, ma in pratica anche la Sardegna viene considerata parte del Sud.

[2] E. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, Feltrinelli, Milano 1976, p. 105.

[3] M. Huysseune, Theory Traveling Through Time and Space: The Reception of the Concept of Amoral Familism, «International Journal of Politics, Culture, and Society», 33 (3) 2020, pp. 365-388.

[4] C. Tullio-Altan, La nostra Italia. Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’unità ad oggi, Feltrinelli, Milano 1986.

[5] T. Mason, Italy and Modernization: A Montage, «History Workshop», n. 25 1988, pp. 127-147.

[6] Il già citato libro di Putnam (1993), per esempio, loda il lavoro di Tullio-Altan.

[7] G. A. Marselli, American Sociologists and Italian Peasant Society: With Reference to the Book of Banfield, «Sociologia Ruralis», n. 3 (4) 1963, pp. 319-338.

[8] A. Colombis, L’«invenzione» del familismo amorale, in F. P. Cerase, a cura di, Dopo il familismo cosa? Tesi a confronto sulla questione meridionale negli anni ’90, Milano, Franco Angeli 1992, pp. 201-212.

[9] B. Meloni, Introduzione, in B. Meloni (a cura di), Famiglia meridionale senza familismo, Catanzaro, Meridiana Libri 1997, pp. vii-viii.

[10] A. Pizzorno, Amoral familism and historical marginality, «International Review of Community

Development», 15-16 1966, pp. 55–66.

[11] Meloni, Introduzione. cit. p. xxxviii.

[12] M. Eve, Comparing Italy: The case of corruption, in D. Forgacs - R. Lumley (a cura di), Italian cultural studies. An introduction, Oxford University Press, Oxford 1996, p. 36.

[13] J. Schneider, Introduction: The Dynamics of Neo-Orientalism in Italy (1848-1995), in J. Schneider (a cura di), Italy’s «Southern Question». Orientalism in one country, Berg, Oxford/New York 1998, pp. 6-7.

[14] Ivi, p. 8.

[15] A. Niceforo, L’Italia barbara contemporanea, Sandron, Milano-Palermo 1898.

[16] Cfr. V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Manifestolibri, Roma 1993.

[17] M. Alcaro, Sull’identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea, Bollati Bolinghieri, Torino 1999.

[18] G. Salvemini, Il Mezzogiorno e la democrazie italiana II. Movimento socialista e questione meridionale (a cura di G. Arfé), Feltrinelli, Milano 1963, p. 26.

[19] G. Maione, Mezzogiorno 1946-1950. Partito comunista e movimento contadino, «Italia contemporanea», 163 1986, pp. 31-64; C. Conelli, Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’Idea del Mezzogiorno, Tamu, Napoli 2022.

[20] Cfr, Conelli, Il rovescio della nazione, cit.


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Michel Huysseune insegna Scienze politiche all’Università Libera di Bruxelles. Ha pubblicato numerosi articoli sulla Lega Nord e sul nazionalismo su riviste scientifiche e in volumi internazionali. È autore di Modernità e secessione. Le scienze sociali e il discorso politico della Lega Nord (Carocci, 2004) e curatore del volume Contemporary Centrifugal Regionalism: Comparing Flanders and Northern Italy (The Royal Flemish Academy of Belgium for Science and the Arts, 2011).

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