Si intitola Critica della ragione razzista il recente saggio di Alberto Burgio, professore ordinario di Storia della filosofia all’università di Bologna. Il titolo è una parafrasi del più classico fra i classici di filosofia moderna, La critica della ragion pura di Karl Immanuel Kant, e non è ovviamente un caso. Kant è infatti il più significativo esponente dell’Illuminismo tedesco, ed è proprio sull’illuminismo che Burgio punta l’obiettivo, individuando in quel momento storico la nascita delle teorie razziste a giustificazione di fenomeni inconciliabili con la morale europea, come il colonialismo e la tratta degli schiavi. «Il razzismo – scrive Burgio – prende forma proprio mentre in Europa si svolge la battaglia vittoriosa delle borghesie nazionali contro i privilegi feudali per la propria emancipazione economica e politica, civile e religiosa. Questo nesso, nient’affatto esteriore, è la base materiale di quella struttura unitaria del discorso razzista di cui cercheremo di mostrare la centralità». Ed è proprio sul secondo capitolo del libro, dal titolo «Le razze degli illuministi», che abbiamo incentrato la nostra conversazione con Alberto Burgio, il cui volume ha lo scopo ultimo di fornire una lettura profonda e attenta della modernità di cui siamo figli, o meglio della «malattia congenita della modernità» che viene qui diagnosticata e ricondotta alla sua genesi. Quella stessa malattia che ci porta a manifestazioni di intolleranza e di violenza nei confronti dei migranti che dall’est europeo o dal sud del Mediterraneo tentano di giungere fino a noi.
Immagine: Cristiano Baricelli
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La storiografia è pressoché unanime nel considerare l’esperienza coloniale nelle Americhe (e in particolare la tratta e la riduzione in schiavitù dei neri) il luogo di nascita del discorso razzista. Una questione essenziale chiama in causa sulla base di tale premessa la schiavitù antica: come mai una teoria razzista non prese forma in connessione allo sviluppo dell’economia schiavistica in Grecia e nel mondo romano quando si svilupparono le prime vere e proprie società schiavili della storia?
Questa domanda è molto complicata e ricorre ciclicamente nella discussione storiografica. Io penso che una buona ipotesi per rispondere a questo quesito – e cioè, come mai società che vivevano sulla schiavitù non sentirono la necessità di produrre teorie analoghe alle teorie razziste che invece l’Europa venne elaborando dal XVII e XVIII secolo – è che quelle società non avvertivano il bisogno di giustificare la schiavitù. In altri termini, non ci fu un’elaborazione discorsiva perché non si avvertiva il bisogno di giustificare una forma di relazione sociale che era vissuta come naturale, e quindi di per sé ovvia e giusta. E questo perché, aggiungerei, la concezione universalistica dell’essere umano non era ancora diffusa nel senso comune; la schiavitù, quindi, non era vissuta come una violazione di principi, come una violenza, ma semplicemente come una naturale forma di relazione. Se questo è vero, la traccia di ragionamento che possiamo desumerne è molto interessante, perché possiamo, in qualche misura, cominciare a ipotizzare una definizione di cosa sia il razzismo. Possiamo cioè dire che il razzismo, almeno in una delle sue versioni, è essenzialmente uno strumento di legittimazione delle forme di subordinazione e di sfruttamento del lavoro.
Per molti, il cristianesimo rappresenta una cesura rispetto al modo in cui veniva intesa la schiavitù nel mondo greco e romano. Possiamo dire che il cristianesimo non incoraggia la schiavitù, e – cito sempre da questo secondo capitolo – «molti testi dei padri della chiesa documentano il crescente disagio nei riguardi di un’istituzione contrastante con i valori fondamentali dell’universalismo cristiano», ma questo non è stato però sufficiente a mettere in discussione la schiavitù. Perché?
È molto giusto quello che lei dice, e direi che la parola chiave della domanda è sufficiente. Nel senso che quello che dobbiamo sempre tenere presente è lo scarto che sussiste tra l’enunciazione di una teoria e il suo divenire, in primo luogo, senso comune e poi, su questa base, vettore delle trasformazioni materiali. Intervengono tempi lunghi, affinché questo processo si compia. Insomma, un conto sono le teorie, le conquiste della riflessione e della cultura, e tutt’altro paio di maniche sono i rapporti reali, le strutture materiali delle relazioni sociali ed economiche. Naturalmente, non dobbiamo pensare che si tratti di compartimenti stagni, ma dobbiamo capire che le teorie non incidono immediatamente sulle forme di vita. Mi viene in mente, a questo riguardo, un’espressione molto aulica e classica che Hegel enunciò proprio a proposito del lungo periodo di radicamento e di realizzazione dei principi dell’universalismo cristiano. Hegel disse: «I tempi lunghi della storia del mondo sono un monito contro l’impazienza dell’opinare». Si fa presto ad elaborare un’opinione o un giudizio: il problema è che il mondo non obbedisce alle nostre istanze e alle nostre aspirazioni, ci vuole molto tempo perché un’idea passi al vaglio del giudizio largo dei nostri simili e si trasformi in una forza materiale e in una realtà.
Dunque, cito ancora: «Se si prendono in esame le denunce della tratta e della schiavitù nera che accompagnano l’intera vicenda del colonialismo nelle Americhe, ci si rende subito conto che l’argomento centrale su cui la gran parte di esse riposa è l’affermazione dell’unità del genere umano e delle sue implicazioni, prima fra tutte il principio dell’uguaglianza dei diritti di tutti gli uomini». Questo principio quando comincia a farsi strada?
Questo naturalmente è oggetto di controversia storica, perché si tratta di quelle tipiche domande alle quali variamente si può rispondere attraverso un diverso uso dei testi e una loro diversa interpretazione, anche in relazione alla diversa descrizione dei contesti storici, sociali, politici. Io penso che abbiano ragione quegli storici che avendo studiato soprattutto l’universalismo, o meglio, le affermazioni di unità del genere umano e i principi di eguaglianza già affioranti nella cultura classica e nella cultura greca, ci mettono in guardia dal rischio di fraintendimento di queste affermazioni. Ci ricordano cioè che quando i Greci parlavano di unità e di eguaglianza, tendenzialmente si riferivano alle popolazioni elleniche, e, con l’approssimarsi all’inizio dell’era cristiana, tutt’al più si riferivano alle popolazioni europee con cui la cultura greca era entrata in contatto. In altre parole, i barbari non sono esseri umani: questo è il punto. Lo sono per alcuni autori, ma anche per questi ultimi, quella dei barbari è un’umanità di altro genere, un’umanità imperfetta. Allora quando comincia l’universalismo moderno, cioè un universalismo che si correla all’interezza della specie umana? Io penso che si possa dire che effettivamente questa storia cominci faticosamente con la patristica cristiana. Però dobbiamo ricordare che ancora in Ambrogio, o in Sant’Agostino, in Giovanni Crisostomo, e persino in Lutero, c’è l’idea che la schiavitù sia legittima perché è simbolo di peccato, è la conseguenza della perdita della grazia. Dunque in qualche misura c’è l’affermazione di un orizzonte universalistico, ma questo non impedisce una diversa teoria della legittimità della schiavitù. È una storia complessa, che procede lentamente a causa quell’intreccio diabolicamente complicato tra le idee e la forma concreta dei rapporti sociali. Le teorie si trovano a criticare i rapporti, ma anche in larga misura a doverli riflettere e a giustificarli.
Nel Settecento si sviluppa, lei scrive, una corrente ostile alla schiavitù, interessata alla difesa dei diritti naturali. Non si trattava del solo movimento abolizionista, ma del clima morale di intere società: di un sentimento di intransigente avversione al «dominio dell’uomo sull’uomo. […] Il Settecento vide l’apogeo del sistema schiavistico e insieme, per ciò stesso, il diffondersi del dissenso e della critica». Come e perché nasce un’opinione pubblica ostile allo schiavismo? Forse dovremmo anche dire che è proprio questo il momento in cui nasce l’opinione pubblica.
Infatti, è precisamente questa la conclusione del ragionamento che abbiamo tentato sin qui. Il fatto che all’altezza del Settecento nella cultura europea si affermi – non in modo unanime, ma di certo molto diffusamente – l’avversione nei confronti dello schiavismo, possiamo considerarla la prova sperimentale del compiuto radicamento dei principi universalistici. Quei principi che sono enunciati nel Vangelo, che sono caratteristici della sensibilità e della spiritualità cristiana, ci hanno messo un millennio e mezzo, se non due, per diventare «senso comune». D’altra parte, è un fatto che quei 1500 - 2000 anni non erano passati invano: a questo punto, quanto sta avvenendo nel Nuovo Mondo e in generale in quei territori su cui si esercita il dominio europeo diventa un problema – diventa uno scandalo. Lo sterminio dei Nativi delle Americhe, la tratta degli africani che causò inenarrabili sofferenze (di cui l’opinione pubblica – ma in particolare l’intellettualità europea – cominciava ad essere ampiamente informata), e la condizione degli schiavi nelle colonie divenne uno scandalo che investì e che lacerò la coscienza europea, diversamente da quanto non fosse avvenuto nei secoli precedenti, in cui la schiavitù era una costante presenza nelle società europee, e soprattutto una presenza con cui si conviveva senza sostanziale difficoltà. Ora, quello scandalo, che possiamo dire con certezza che esplode all’altezza del Settecento, genera però due forme di reazione: da una parte ci fu chi si impegnò affinché lo scandalo esplodesse, e si impegnò per lo sradicamento della schiavitù, e dall’altra ci fu invece chi intervenne contro lo scandalo, tentò di sopirlo e tentò di produrre giustificazioni della tratta e della riduzione in schiavitù di quei gruppi che erano coinvolti in quella tragedia. Le teorie razziste che sorgono rigogliose in ambito antropologico e in ambito filosofico proprio nella cultura illuminista fecero parte di questo sforzo di giustificazione. E a giudicare dalla persistenza e dalla vitalità di queste teorie, dobbiamo dire che costituirono la parte forse più efficace e vitale di questo sforzo di giustificazione. Uno degli autori più in vista dello schieramento filo-schiavista e razzista, cioè di quello schieramento che reagì allo scandalo e cercò di sopirlo, fu proprio Voltaire. Allora qui è molto importante puntare la nostra attenzione su un aspetto che è evidentemente contraddittorio: Voltaire, campione della tolleranza e dei diritti civili, è contemporaneamente il portatore, l’elaboratore della posizione razzista più radicale e più estrema nei confronti dei gruppi umani di colore. È come se vi fosse un meccanismo di compensazione, come se l’aumento dei diritti che bisognava concedere agli europei bianchi dovesse essere compensato dalla negazione di qualsiasi diritto in relazione alle popolazioni delle colonie. Era un po’ questa forma di bilanciamento, per cui il progresso della società e della cultura europea dovesse essere in qualche modo «pagato» con il peggioramento e con la violenza estrema nei confronti di altri gruppi umani.
Quindi l’Europa attraversa una crisi «morale»: da una parte reclama i propri diritti, dall’altra tollera lo schiavismo nei paesi colonizzati. «Il borghese europeo doveva ammettere di rinnegare, di là dall’Atlantico – come lei scrive – i principi per i quali si batteva al di qua delle sue sponde». A questo punto il pensiero razzista corre in soccorso della crisi morale dell’Europa, dovuta appunto al crescente coinvolgimento nelle imprese coloniali. E lo fa grazie a «un’antropologia fortemente gerarchizzata in senso razziale». Ci spieghi meglio.
È proprio quanto intendevo dire prima. La costruzione di scale antropologiche servì a dare un fondamento scientifico – che era ritenuto tale! – quindi dobbiamo considerarlo, come agli occhi degli uomini del Settecento e dell’Ottocento, una base di giustificazione incontrovertibile alla riduzione in schiavitù e in generale a ogni forma di discriminazione dei gruppi umani che venivano relegati agli strati infimi della piramide economica e sociale, in un mondo che era sempre più globalizzato, sempre più al corrente di quanto avveniva di là dall’Oceano. Si costruivano queste scale antropologiche, cioè si mettevano i diversi gruppi umani su gradini di valore diverso. Per cui i neri venivano considerati sostanzialmente equivalenti alle scimmie, mentre al culmine di questa scala ascendente si ponevano gli europei, in cui si scorgeva anche l’incarnazione dell’ideale estetico prospettato da Winckelmann. E siccome, peraltro, il corpo non è mai soltanto un corpo, ma è considerato lo specchio dell’intelletto e dell’anima, queste scale servivano a mettere su piani di valore diverso le diverse componenti della specie. Allora una volta che si disponeva di questo strumento, e che questo strumento poteva essere presentato come nient’altro che il risultato di ricerche scientifiche – e quindi non era l’arbitrio o la violenza, ma la natura e dunque il Creatore ad aver messo i diversi gruppi umani su diversi livelli di valore – si poteva agevolmente sostenere che l’ordine sociale, che a sua volta affidava diversi ruoli ai diversi gruppi umani, non facesse che dare plastica applicazione all’ordine naturale delle cose. Questa è la grande prestazione che le teorie razziste di questo genere fornivano: si poteva affermare che era la natura stessa a prescrivere che i gruppi umani più stupidi o fisicamente meglio attrezzati (e, di norma, si sosteneva che fossero i più stupidi ad essere meglio attrezzati) svolgessero i lavori più duri e più sporchi e, ovviamente, prescrivere che venissero esclusi dalla cittadinanza. In definitiva, le teorie scientifiche del Settecento finivano con il fornire giustificazione a quelle teorie della schiavitù naturale che avevano cominciato a correre dal gesto compiuto da Aristotele nella Politica, quando disse «Se noi guardiamo il corpo dei barbari, ci dice che è la natura a destinare queste persone alla schiavitù». Esiste, cioè, lo schiavo naturale. Questo schema, che Aristotele elabora nel IV secolo a.C., diventa l’archetipo del discorso razzista nella modernità.
Il razzismo come giustificazione del colonialismo e della schiavitù: il razzismo si afferma dunque come modello generale di giustificazione delle pratiche discriminatorie, e propone un lessico generale del conflitto. Insomma, siamo a un punto di arrivo?
Sì, siamo a un punto di arrivo, ma dobbiamo anche essere consapevoli che, in questa conversazione, ci siamo occupati solo di una delle due grandi famiglie delle teorie razziste, cioè del razzismo che giustifica la subordinazione e lo sfruttamento. Non dobbiamo compiere l’errore di pensare che il razzismo abbia svolto solo questo compito. C’è almeno un altro grande compito che i discorsi e le ideologie razziste hanno svolto, e lo hanno svolto attraverso un’altra grande famiglia di teorie: quella che afferma non l’inferiorità, bensì l’estraneità radicale di alcuni gruppi umani – gruppi che si vogliono allontanare, che si vogliono bandire, e che addirittura si vogliono sterminare. Di questa importante famiglia di teorie razziste fanno parte, ad esempio, i razzismi nazionalistici, ma in primo luogo naturalmente l’antisemitismo, l’antigiudaismo, che costituisce poi la forma archetipica del discorso razzista europeo. A questo riguardo, per rendere complesso e un po’ più completo il nostro discorso, vorrei dire che il ruolo del cristianesimo appare qui ben più problematico di quanto ci sia apparso fino ad ora, a proposito della promozione dei principi universalistici, perché il cristianesimo si afferma in Europa fin dai primi secoli dopo Cristo di pari passo con l’affermazione della radicale alterità ed estraneità degli ebrei, della loro connaturata peccaminosità. La storia del razzismo è anche la storia di discorsi che predicano la non-omogeneità e, quindi, la non-accettabilità di gruppi umani. Ecco, il razzismo è stato l’intreccio di questi due grandi discorsi: l’affermazione dell’inferiorità e l’affermazione dell’alterità di alcuni gruppi umani. La società sognata dai sostenitori delle teorie razziste è la società dominata da una ristretta élite pura, quindi senza estranei, e contemporaneamente una società assoggettata da un ordine gerarchico ferreo. Servivano dunque discorsi che giustificassero al tempo stesso lo sfruttamento e l’esclusione degli estranei.
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