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Pubblichiamo un'analisi della rivista «Asfalto» sugli anni Ottanta che si inserisce nel progetto della Cartografia dei decenni, inaugurato da Machina, e che darà vita in primavera a due Festival, il primo a Roma sugli anni Ottanta e il secondo a Bologna sugli anni Novanta.


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1. mutamento antropologico

Gli anni Ottanta del Novecento rappresentano in Occidente la fine di un’epoca segnata da utopie rivoluzionarie, da una forte politicizzazione della società, da un terrorismo antisistema diffuso, da un proliferare di organizzazioni politiche antagoniste, da conflitti e da movimenti di varia natura, insomma da un ciclo di lotte che in Italia, a differenza degli altri paesi europei, ha investito e travolto vent’anni della nostra vita e della nostra storia (1960-1980). La cosa più sorprendente è stata la scoperta, alla fine di questo ciclo e all’inizio del nuovo decennio, di comportamenti, culture, mentalità che, a livello di massa, non erano per nulla ostili anzi favorevoli o, nel migliore dei casi, indifferenti a quei valori e a quegli atteggiamenti propri dei più selvaggi spiriti animali del sistema di mercato contro cui erano dirette, o almeno sembravano dirette, le lotte sociali del ventennio immediatamente precedente. Un mutamento di fase, una trasformazione antropologica talmente rapidi e improvvisi che sembrano lasciare senza spiegazioni e che modificherà profondamente gli immaginari, le mentalità, le culture e investirà tutti i campi dell’attività umana, dall’arte al cinema, dall’architettura alla comunicazione, dalla moda alla musica. Ma, dall’altra, questa mutazione è stata possibile proprio perché figlia di quella «famigerata» e «vituperata» – espressioni ancora oggi in voga nell’establishment politico e mediatico – stagione di conflitti, di violenza, di innovazioni culturali e dell’emergere di inconsuete soggettività che sono stati gli anni Settanta del Novecento, che hanno proiettato sugli anni a venire la loro carica dirompente e dissacrante.

Studiare gli anni Ottanta vuol dire allora cercare di capire soprattutto questo passaggio, questa «improvvisa eruzione» di cui i nostri tempi sembrano essere gli eredi diretti, molto spesso sconosciuta o sottovalutata dalla ricerca sociale e dal pensiero critico.

Il buco di un’analisi antropologica da parte marxista, più volte evocato dallo stesso pensiero critico di sinistra, vede infatti proprio in questo periodo il suo formarsi, almeno in Italia.


2. Dalla rivoluzione alle rivolte

Per capire il mutamento è necessario partire dalle rivolte urbane che hanno attraversato gli anni Ottanta e che hanno affossato l’epoca dei movimenti e che non hanno mai avuto nel loro mirino l’abbattimento del sistema, dal quale neanche hanno disertato, ma, al contrario, ci hanno nuotato dentro come pesci, puntando non alla sua eliminazione ma al suo sfruttamento (le rivolte, d’altra parte, destituiscono e si sottraggono all’ubbidienza del comando ma non riescono a dare un futuro, una forma e un’organizzazione alla contingenza della lotta).

Si deve in primo luogo sottolineare il loro carattere essenzialmente urbano: i riots che emergono dagli anni Ottanta sono anzitutto urban riots e si dispiegano essenzialmente in rapporto alla spazialità cittadina, esprimendo istanze di appropriazione di tale spazialità in aperto conflitto con le forme del suo controllo dispiegate da polizia e dalle istituzioni. Una violenza di massa, spontanea e per lo più notturna, votata al saccheggio di beni di consumo e alla devastazione dell’arredo urbano. Una violenza spettacolare, resa «telegenica» dal massiccio uso del fuoco e del saccheggio. Un uso dei canali dell’informazione-intrattenimento che consente a queste forme di vita metropolitane e soggettività «rivoltanti» di spezzare la propria condizione di invisibilità e irrompere nell’ordine della sfera pubblica conseguendo una pur estemporanea e perversa forma di riconoscimento e protagonismo nella società dei consumi mediatizzata. Un altro tratto comune, afferma Federico Tomasello, è il carattere «irrazionale» che si tende ad ascrivere a questi fenomeni. Il tumulto metropolitano viene solitamente rappresentato come un evento caratterizzato da alti livelli di violenza senza senso e senza scopo, spontanea e disorganizzata, spesso perfino autodistruttiva: un evento assai poco razionale e perciò privo di significato politico. La mancanza di organizzazioni, di leaders, il rifiuto degli attori di violenza di farsi anche attori di parola, il loro ostinato silenzio pubblico, il rifiuto di esprimere le ragioni e le cause della loro violenza, di articolare condizioni per la sua cessazione confina così il fenomeno al di fuori delle fattispecie della violenza che si suole rubricare come «politica». E proprio questo loro enigmatico, se non aporetico, rapporto con la dimensione della politica costituisce una caratteristica singolare e rilevante dei riots contemporanei.


3. Città globali

Ascesa delle mega città o città globali. Il «millennio urbano» che si sta sempre più nettamente delineando fu per la prima volta intravisto negli Ottanta.


4. Musica

Solo studiando cosa avviene tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta si può capire perché un’intera generazione all’improvviso, a partire dal 1989, abbandona suoni, riti e mode del passato per abbracciare una nuova sonorità, la techno, totalmente macchinica e inumana (o postumana), che rifiuta il tempo cronologico del loisir imposto dal mercato e dall’industria culturale (una traccia techno non è una canzone, esattamente come un rave non è un concerto visto che entrambi potenzialmente possono durare all’infinito) e il linguaggio verbale come portatore di senso (nella techno non ci sono testi). Gli anni delle assemblee, dei dibattiti, delle lunghe riflessioni (soprattutto politiche) della generazione precedente sono finiti; adesso al centro c’è un corpo che vuole tappeti sonori, e bassline e non parole; anche perché si deve godere il presente e non interessa progettare il futuro. E non è un caso che saranno proprio le periferie post-industriali e depoliticizzate di alcune grandi metropoli europee e americane (Manchester, Londra e Detroit su tutte) a fare da sfondo a questi corpi.


5. Mondo digitale

Il mondo digitale ha cominciato a prendere la forma che più o meno conosciamo oggi proprio negli anni Ottanta, una forma – diciamolo subito – sempre più basata sui concetti di virtualità e di simulazione della realtà. Un’impostazione che, potremmo dire, si è fatta strada nelle nostre vite e nelle nostre menti grazie a una metafora, a una serie di metafore, che risultano chiarissime nella prima idea di interfaccia visiva dei personal computer: dopo le prime sperimentazioni negli istituti di ricerca californiani (principalmente lo Xerox Parc), e dopo il flop dell’audace Apple Lisa, nel 1984 il Macintosh offre (e richiede) ai suoi utenti un’interazione visiva che «fa il verso» alla realtà fisica, tangibile. Non più stringhe di caratteri alfanumerici per lanciare programmi o per operare sui files, ma azioni naturali all’interno di un ambiente familiare: la scrivania del computer, le cartelle di documenti, i tipi di carattere, lo spostamento degli oggetti virtuali (attraverso il puntatore del mouse sulle icone), il cestino in cui trascinare i files sbagliati o ridondanti o non più utili. Da lì in poi, il computer fuoriesce definitivamente dalle grandi stanze degli istituti e delle aziende per diventare veramente personal: a partire dal Windows 1.0 del 1985 sarà tutta un’altra storia, e l’invasione della realtà da parte del virtuale sempre più densa e articolata. Sono anche gli anni della nascente infrastruttura del web, col passaggio dall’Arpanet degli anni Settanta ai protocolli di comunicazione messi a punto negli anni Ottanta nei laboratori del Dipartimento della Difesa americana (il Tcp/Ip) e al Cern di Ginevra (l’Http), fino all’idea di world wide web e alla connessione delle tante reti locali in una internet globale. Al di là della storia dell’evoluzione tecnologica digitale e di rete, quello che va sottolineato è che, in quegli stessi anni, chi era bambino o adolescente contribuì in modo determinante alla diffusione e al consolidamento del nuovo panorama mediale, facendosi vettore inconsapevole e privilegiato di consumo digitale, attraverso oggetti e ambienti che sempre di più vertevano su di esso. Il modo principale in cui questo avvenne fu giocare ai videogiochi, in ogni forma, in ogni modo, in ogni luogo: nei bar, nelle sale giochi, a casa col computer, in giro con le prime consolle portatili o sugli orologi.


6. Moda

Prima del fast fashion, reso possibile da un mondo globalizzato e con manodopera in genere asiatica a bassissimo costo, è stato il prêt-à-porter a ridefinire profondamente la moda e i consumi di massa. Tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, infatti, si fa avanti uno stile meno compassato ed elitario rispetto a quello dell’Haute Couture parigina. Tramite il prêt-à-porter per la prima volta moltissime donne si avvicinano all’abito maschile, pensato come un passe-partout per un differente progetto di vita, voluto da ragazze che si affacciano sulla scena pubblica dopo il subitaneo cambiamento dato dalla scolarizzazione di massa e dall’irrompere del femminismo.


7. Migrazioni

Il nostro paese ha oggi quasi sei milioni di lavoratori stranieri residenti, che costituiscono il 10% della popolazione. Riconsiderare gli anni Ottanta è perciò particolarmente opportuno per ricordare non solo le caratteristiche affatto nuove dei flussi migratori che giusto quarant'anni fa si stavano diffondendo nei paesi dell'Europa mediterranea, ma la pertinenza delle buone pratiche legislative, delle forme di accoglienza, delle rappresentazioni socio-antropologiche e politiche che crearono il primo campo discorsivo del modello migratorio post-fordista.


8. Televisione

In Italia fu la fine del monopolio statale sulla televisione a liberarne in tutta la sua violenza la tendenza cannibale. Sancito con una sentenza della Corte Costituzionale nel 1976, il processo di liberalizzazione del mercato televisivo fu portato a compimento dopo varie vicissitudini solo nel 1984 col cosiddetto «Decreto Berlusconi», che garantiva alle reti private di trasmettere sul territorio nazionale. Era la fine della Tv di Stato come unico attore in grado di rivolgersi a un pubblico. Quel momento non sarebbe potuto accadere che negli anni Ottanta e allo stesso tempo rese gli anni Ottanta tali.


9. Chiesa

È possibile istituire una qualche relazione tra il modello di Chiesa cattolica degli anni Ottanta e quella odierna? Che rapporto ci può essere tra il modello imperiale di Wojtyla e quello «francescano» di Bergoglio? Apparentemente nessuno. Il parere più diffuso, infatti, è che la Chiesa di Giovanni Paolo II, continuata con quella di Benedetto XVI, fosse reazionaria, mentre questa di Francesco sia riformista, se non addirittura rivoluzionaria. Eppure chi si occupa di cattolicesimo sa bene che le nostre normali categorie laiche di tradizione-innovazione, reazione-rivoluzione e conservazione-rottura poco funzionano di fronte a una istituzione universale bimillenaria, abituata a pensare il rinnovamento come adattamento al procedere storico del proprio bagaglio di esperienze teologiche, culturali, mentali, accumulato in due millenni e di volta in volta rielaborato: nulla nella Chiesa cattolica sembra innovativo, eppure tutto si adatta al nuovo. Dunque, se questo è vero, cosa c’è della Chiesa di Giovanni Paolo II in quella di oggi?


10. Controrivoluzione

Se partiamo da alcuni brevi riferimenti ad avvenimenti che in qualche modo possono essere presi come «simboli» del decennio, indubbiamente gli anni Ottanta furono una «controrivoluzione capitalistica». Le profonde trasformazioni del sistema produttivo, con la fine della centralità della produzione di massa di beni di consumo e la finanziarizzazione dell’economia, furono accompagnati da una nuova narrazione del mondo, capace di costruire e imporre un’egemonia culturale che tuttora rimane dominante. L’acronimo Tina (There Is No Alternative) proprio in quegli anni si afferma divenendo, nella sua apoditticità, il marchio di fabbrica di un lungo quarantennio. Negli anni Ottanta comincia dunque a radicarsi quel sentire comune per il quale oggi «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo».


11. Consumo

L’esplodere della cultura del consumo investe tutti i settori della vita di uomini e donne, da quello affettivo a quello del rapporto con gli oggetti, accompagnata da una domanda di libertà che non ha precedenti e che non vuole partecipazione, responsabilità e impedimenti nella soddisfazione dei desideri e che non nasce da un’idea o da un comportamento dettati dal pensiero, ma è una pratica fondata appunto sul desiderio, dalla quale soltanto può emergere un individuo nella sua irripetibilità e contingenza (figura centrale questa che trasforma l’homo oeconomicus e democraticus, succube del mercato, in homo consumens che fonda la sua esistenza sulla irregolarità delle appartenenze e sulla illegalità rispetto alle regole del mercato).


12. Territorio

La riconquista della centralità del territorio, perché è qui che si proiettano e si materializzano i desideri di una società del consumo orfana di Valori e di futuro e di conseguenza è qui che si definisce oggi il nemico, si riconosce la parte, si individuano le differenze, si separano le diversità, si innescano i conflitti, non solo quelli all’interno degli Stati ma anche tra gli stessi Stati, perché dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra fredda, combattuta soprattutto a livello economico e ideologico, il territorio torna essere centrale nello stabilire i rapporti di forza internazionali, e dunque torna a servire come bottino di guerra. E tutto questo insieme all’esplodere della realtà virtuale e digitale, che rivoluziona gli strumenti e le modalità della comunicazione ma non intacca la centralità del territorio nella risoluzione dei conflitti.

In altre parole, quella che è stata sconfitta negli anni Ottanta è la contesa sul tempo; quello che ci lascia in eredità sono lo spazio e il territorio come fondamenti del conflitto sociale, come pratica di libertà, come riferimento di ogni progetto politico di cambiamento.


13. Sinistra

E i partiti della sinistra che facevano? Aspiravano a un progetto utopico che presupponeva la costruzione di quell’homo novus, non a caso di sovietica memoria, incardinato su alcune parole d’ordine assolute, come quelle dell’austerità, del sacrificio e della rinuncia lanciate nel 1977 dal palco del Teatro Eliseo di Roma da Enrico Berlinguer, che volevano imporre alla storia un modello di società virtuoso, ordinato e di alta moralità ma arbitrario, non giustificato dalle condizioni materiali e dal confronto con la realtà, costruito sulla sabbia e di conseguenza bocciato dal «tribunale della vita» che da quegli anni ha fatto piazza pulita di ogni assolutezza. Tra l’altro, un discorso pericoloso, quello del segretario comunista, non solo perché fuori del tempo e della storia e soprattutto fuori da una società che si stava trasformando in un fascio di forze disordinate, in un insieme caotico di conflitti che non garantivano più una forma politica e che andavano ben oltre la sfera del lavoro; ma pericoloso perché cercava di indurre attraverso un discorso moralistico una trasformazione della società che gli strumenti della politica non erano più in grado di ottenere. E proprio a opera di un partito che aveva sempre fatto del primato della politica la sua ragion d’essere. L’invasione del politico da parte di discorsi e logiche etiche e morali inizia proprio in quegli anni, quando una moltitudine di ribelli e non più di partigiani cominciava a popolare i nostri territori. Ribelli a un’ideologia e a un’utopia che non riuscivano mai a proiettarsi nel presente e nella vita reale ma rimanevano piantati in un ipotetico futuro e nell’ambito delle stanze dei partiti e delle istituzioni.

Ridimensionamento dei partiti seguito alla erosione dell’istituto della rappresentanza, che ha fatto luce sul carattere neutralizzante a depoliticizzante delle democrazie contemporanee.



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