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Il cielo sopra Cosenza. Dialogo con Franco Piperno



«La nostra terrà non ci vuole, i nostri politici sono corrotti e collusi, siamo una terra perduta ed irrecuperabile» [1]. Questa sarebbe, con un recente aggiornamento a cura di Corrado Augias, la retorica di chi va via: una retorica che si aggiorna e sta al passo con il disprezzo, almeno in questo non si rischia di rimanere indietro.

Un neolaureato ingegnere, dottorando in urbanista, che ritorna in Calabria dopo un’emigrazione a fini formativi, si trova comprensibilmente spiazzato in questo clima, disfattista e rassegnato. Nella mia esperienza di studente emigrato ho provato lo spaesamento di chi vive a nord con il cuore a Sud. Qualcosa di simile al contadino di Marcellinara che, costretto a un viaggio in automobile, vive momenti di profonda angoscia per la scomparsa del campanile paesano dal proprio orizzonte. Uno spaesamento che ogni giovane meridionale deve affrontare quando si allontana dalla propria terra, anche dopo un breve ritorno. Ma c’è un’angoscia che accompagna chi invece ritorna per sempre. Ed è quella di riscoprire una «patria perduta», peggiorata – se possibile – dall’incuria recente, da emergenzialità che si sovrappongono ad altre emergenze, in una gerarchia di urgenze connaturate con la vita calabrese.

Tornando a Sud, la prima domanda che mi è venuta alla mente è: «da dove iniziare?». È nata allora l’esigenza di trovare rifugio in qualcuno che mi aiutasse nel riorganizzare le idee sulle motivazioni storiche della condizione del Meridione e della città in cui si vive, per proiettare lo sguardo su un futuro possibile. In questo spirito sono andato a cercare il mio interlocutore, Franco Piperno, tra le remote colline di Arcavacata. Come in un pellegrinaggio. Il dialogo a cui ho preso parte è stato tuttavia molto pragmatico; molto meno ascetico di quanto mi aspettassi. Proprio quello di cui abbiamo bisogno, noi calabresi.

Presentare Piperno in poche righe non è cosa semplice (ed è forse superfluo per chi legge Machina). Provo quindi a riassumere. Tra i fondatori di Potere Operaio, professore di Fisica della materia, negli anni Novanta è stato assessore alla Cultura al Comune di Cosenza. La sua esperienza da amministratore della città bruzia mi incuriosisce e, da urbanista, tento di orientare parte del dialogo in tale direzione.


Andrea: In un intervento alla Festa della Paesologia di Avellino del 2014, lei ha detto che: «il problema centrale per il Sud è la non partecipazione. Senza riflettere sul nostro passato non faremo nessun passo avanti in quanto Sud, in quanto meridione» [2]. Nel suo lasciare la Calabria per poi tornare, che idea si è fatto di questa terra? Quali gli spunti di riflessione da cui poter partire per una nuova storia del Mezzogiorno?


Franco: Ho vissuto circa dieci anni all’estero e mi ha colpito molto come, soprattutto durante la mia permanenza in Canada, alcuni problemi lì vengono risolti con iniziative cittadine senza che si debba attendere l’intervento del governo locale (come accade, ad esempio, nello spalare la neve dalle strade e dai vicoli dei quartieri nel periodo invernale). Questi esempi mi hanno fatto riflettere sul modo di concepire alcuni gesti comuni che in Italia difficilmente si potrebbero compiere, soprattutto per problemi burocratici. Il guaio principale del Sud e dell’Italia è, secondo me, questo modello francese che abbiamo importato e con cui si è unificato il territorio italiano. Un modello accentrato in cui tutte le decisioni passano dalla capitale. Visto che l’Unità è avvenuta in parte come una conquista, il Sud ha subìto il modello accentratore. Il risultato è stato che: mentre in una città come Bologna la partecipazione cittadina conserva una certa capacità di autoregolarsi, nel Sud tutto questo non c’è. Ciò finisce per pesare molto sulla partecipazione. A Sud, anche se uno volesse, gli verrebbe molto difficile prendere parte a questo genere di interventi.

In conseguenza del modo in cui sono concepite le istituzioni locali, i politici non hanno mai posto un problema di partecipazione alle scelte politiche. Il problema è semmai quello della partecipazione alle elezioni, che però è cosa completamente diversa. È come se la storia del Sud, e in genere la storia delle città italiane, richiedesse una sorta di democrazia partecipata o democrazia diretta, mentre le istituzioni italiane sono costruite intorno alla democrazia rappresentativa. Questo danneggia molto il meridione, poiché se ogni decisione nel Sud, in ultima analisi, viene da Roma. Questo impedisce anche una possibilità di mobilitare la gente. In altri termini, ciò è vero in tutta Italia ma più urgente nel mezzogiorno. Le pratiche di democrazia diretta potrebbero far allargare la base dei cittadini attivi, qui invece è limitata all’adesione di un partito, e non c’è una tradizione di partecipazione. Salvo forse nei casi estremi in cui c’è un terremoto o una sciagura che permette la ricostituzione di uno spirito comunitario, e che viceversa manca proprio nella realtà urbana, laddove ce ne sarebbe più bisogno: non trovando questo spirito, la gente va via. Di tale partecipazione hanno bisogno soprattutto le aree interne ed i borghi dell’appennino, dove peraltro, vige da millenni una idea di autonomia che chiama alla partecipazione di tutti gli abitanti di un luogo. Qui molti paesi si trovavano spesso isolati (a causa di invasioni, calamità naturali, stagioni rigide) e trascorrevano molto tempo sfruttando le proprie risorse in modo economico, ecologico e sostenibile.

Per questo credo che una chiave decisiva del Sud è il ripopolamento dei paesi e l’avvio di pratiche di democrazia diretta che potrebbero essere messe in atto senza scontrarsi necessariamente con la legge, perché potrebbero essere intese quale prolungamento della vigente democrazia rappresentativa. L’esperienza di democrazia diretta è principalmente un’esperienza di comunità, che ha la forza di coinvolgere soprattutto i giovani. Proprio quelli che, invece, stanno andando via da queste terre.


AS: In un paese che prova a «correre veloce» inseguendo modelli nord-europei, le città storiche e le identità storiche materiche sembrano essere percepiti come un freno, un’eredità scomoda. È d’accordo? Qual è invece il potenziale di questi luoghi? Si può ripartire dai nuclei e complessi edilizi storici, dalle città storiche?


FP: No, non sono assolutamente d’accordo. L’attuale discorso sui borghi sta a testimoniare che nel Sud l’esperienza della vita urbana ha coinvolto molte più persone. Nel Nord, tradizionalmente i contadini non abitavano la campagna. Di sera, mentre nel Sud le città di campagna sono abitate dai contadini, nel Nord è abitata la campagna che però non si configura come città. Nel Sud, l’esperienza urbana ha riguardato i contadini e questo ha determinato una crescita culturale del contadino che si è trovato a vivere dentro una comunità, mentre un contadino padano, storicamente parlando, non aveva queste esperienza sociale. Ciò, secondo me, è il fascino del nostro territorio. Nel Sud il fenomeno delle città, se nel termine città vengono inclusi anche i borghi, è storicamente molto più sviluppato che al Nord. La chiave secondo me è prima di tutto un problema di memoria. Una delle conseguenze dell’unificazione e della cessazione di molte pratiche urbane è un atteggiamento di autodisprezzo che, e ciò è molto significativo, arriva fino ai giorni nostri. Il caso di qualche mese fa, che vede protagonista Corrado Augias, ha dell’incredibile: stupisce che i meridionali partecipino a questo modo di atteggiarsi. È come se i meridionali si disprezzassero. Conseguentemente, quelli con essi cui vengono in contatto, si trovano coinvolti in questo disprezzo che nasce dal fatto che non c’è memoria. In certa misura, l’unificazione ha esaltato un autodisprezzo, cosa che peraltro succede sempre tra i vinti. Da questo punto di vista, sarebbe bene che ci fosse nelle scuole una cura della cultura locale.

Penso che la rivitalizzazione dei borghi a partire dalla messa in pratica della democrazia diretta sia un tentativo che vale la pena fare. Spero che essa si sviluppi a livello di quartiere: cosa che può significare preoccuparsi del proprio quartiere, anche di cose secondarie. Ad esempio durante la stagione dei sindaci, mi sono trovato a fare l’assessore del Comune di Cosenza: si è fatto un tentativo di frenare la gentrificazione della città vecchia poiché avevamo capito che quello era il vero problema. Ad esempio a Roma il centro storico è finito perché è tutto gentrificato, a Venezia la città antica è diventata un’area di commercianti ed affitta-camere, e dovunque i centri storici sono stati cancellati. Il caso cosentino, invece, è interessante perché coloro che vivono ancora nella città storica sono di varia estrazione sociale.


AS: Quando era assessore, presso l’amministrazione c’era coscienza del rischio della gentrificazione sul centro storico? I progetti erano orientati ad abbattere il fenomeno e alla preservazione della città, oppure è stata solo una fortuita conseguenza?


FP: Si è agito con una determinata intenzione. Ci sono delle delibere comunali emanate al fine di facilitare il ritorno nel centro storico di famiglie non troppo ricche che erano andate via dieci o venti anni prima. Si noti che c’era anche un problema di edifici abbandonati. Poiché in questi casi il Comune, per legge, deve intervenire per metterli in sicurezza, abbiamo risarcito i proprietari non più residenti e non interessati ad effettuare degli interventi. Con il restauro di alcuni palazzi, il Comune ha offerto un’opportunità di rientro delle famiglie. Si è fatto poi un tentativo di impiantare alcuni dipartimenti dell’università. Avevamo notato che in alcune città europee i cui centri storici si sono conservati, l’istruzione superiore è stata quasi sempre una carta fondamentale. Abbiamo dunque fatto una serie di tentativi in tal senso. Abbiamo anche sperimentato all’interno del tessuto storico un’esperienza di assemblea popolare: è andata bene malgrado alcune «scortesie», per così dire, nei nostri riguardi. Tutto sommato è stata un’esperienza significativa: non fosse altro perché se si insiste in una direzione, la gente comincia a vedere gli aspetti positivi di un interessamento istituzionale.


AS: Se il tessuto sociale della città storica fosse permeato dei principi della democrazia diretta, a lungo termine si potrebbero avere risultati migliori?


FP: Sicuramente. È un modo per rendere le persone compartecipi delle scelte. Il singolo sarà molto più motivato rispetto a quando si trova nelle condizioni di dare semplicemente un voto, di esprimere una preferenza. È il comportamento diverso che fa sì che le persone si sentano responsabili. Nella democrazia rappresentativa questo non accade, e di conseguenza si instaura un meccanismo secondo il quale la gente si ritrova a dover scegliere da chi essere comandare. Ciò non accade nella democrazia diretta dove la partecipazione è fondamentale e tutte le decisioni comportano il coinvolgimento delle persone e non una delega delle stesse. Personalmente sostengo che molte città del meridione, nei secoli, siano vissute in una condizione che definirei di «semidemocrazia diretta», attuata spesso in forza del loro isolamento. La semidemocrazia diretta ha permesso di costruire un patrimonio che andrebbe ricostituito attraverso un’opera di massaggio della memoria. Alcune opere pubbliche sono state concepite con l’intento di favorire proprio questa riscoperta delle nostre, della nostra storia, per proiettarla nel futuro. Il planetario [approvato nel periodo in cui Piperno è assessore, ma completato solo nel 2019[3]] incarnava la possibilità di educare le nuove generazioni alla visione del cielo. Il punto del planetario non era il planetario in sé ma il fatto che in questo posto si apprende a guardare il cielo, di riscoprirlo ed ammirarlo anche in altri contesti. È un esercizio di riappropriazione del paesaggio. Quello del planetario è un esempio del tipo di politica che si intendeva fare, un esempio di ciò che può diventare attuale e che spinge a una presa di coscienza. Penso che un cittadino che sa qualcosa del cielo e un cittadino che ignora tutto sul cielo, sono individui in buona parte differenti. Il primo ha l’opportunità di riflettere sui temi suscitati dalle immensità del cielo e sulla irrilevanza – non solo dell’Italia – ma dell’intero sistema solare; acquisita questa cosa, la accetta come un fatto compiuto. Questo è lo stesso balzo che si percepiva nell’antichità, dove ad Atene al tempo di Pericle, un ragazzo che studiava conosceva (secondo Vigée) una ottantina di stelle e una quarantina di costellazioni, sicuramene facilitato dal cielo notturno molto visibile.

L’esperienza nell’amministrazione comunale, per me è stata, tra l’altro, un tentativo di far partecipare la gente. La cosa si è realizzata, in alcuni casi, nell’espressione di un dissenso. Certo non bisogna illudersi. Bisogna tenere presente che se si dà la città ai comitati, questi hanno bisogno almeno di qualche anno per ripulirsi delle idee che hanno. Ma poiché si fa una cosa onesta, i cittadini lo comprendono e possono darti atto che stai tentando di migliorare la città. E alla fine, anche se non persuasi, perlomeno sono favorevoli. Nella mia esperienza cosentina ho cercato di portare avanti tre comitati. Partecipavo a tutti e tre, insieme ad altri compagni, quelli che poi hanno fatto Radio Ciroma, e anche alcuni esponenti del PD. Erano riunioni di trenta, quaranta persone. Già questo era importante. Anche quando non si riusciva a trovare un accordo, comunque si discuteva. È accaduto infatti che qualcuno prendeva la parola per parlare in pubblico per la prima volta: so per esperienza che questo è un salto. Quando uno riesce a parlare in pubblico, anche in maniera smozzicata, nel breve tempo migliora e diventa un altro.


AS: Com’è il cielo sopra Cosenza? Quali potrebbero essere le stelle a guida della città di Cosenza che verrà?


FP: Secondo me, il cielo sopra Cosenza è una cosa che è stata guardata per secoli. È solo dopo la prima guerra mondiale che il cielo scompare per via dell’illuminazione pubblica, ma anche per via di un disinteresse dei cittadini. Prima l’astronomia visiva aveva una partecipazione molto grande, non erano pochi quelli che conoscevano il grande carro e i dodici segni dello zodiaco. Con questo era anche diffusa qualche illusione sull’astrologia, cose che spesso camminano insieme. Ti faccio un esempio, quando abbiamo iniziato a fare osservazione al Castello Svevo, sono venuti agli eventi almeno una decina di medici e lì ho scoperto una cosa incredibile nella storia della medicina. Fino a Keplero e all’astronomia moderna la storia della medicina era legatissima all’astrologia. Chi seguiva i corsi di medicina si trovava a studiare anche l’astrologia, che si apprendeva al primo anno di università. Ciò significa, cosa che oggi sembrerebbe inutile, saper calcolare dov’era un certo astro in un certo periodo dell’anno: poiché i medici nel fare alcune operazioni chirurgiche dovevano conoscere l’esatta posizione degli astri in quel determinato periodo dell’anno. Questa conoscenza disciplinare prendeva il nome di astroiatria. Ad esempio, se avevi un problema al ginocchio a luglio ed andavi in ospedale, il medico ti medicava ma non ti operava perché l’operazione al ginocchio andava eseguita nel mese di Saturno, poiché le ginocchia erano protette da Saturno. Così da luglio ti rimandavano a dicembre. In fondo anche oggi è così, ti rimandano a dicembre ma per ragioni diverse, mentre allora era per ragioni sacrali. E questo aveva sicuramente un elemento di pregiudizio ma, anche grazie a ciò, il cittadino si sentiva legato al cielo, e quindi per secoli, la tradizione educativa della città era legata all’astronomia, anche in campo medico.

Questo racconto celeste ha chiuso il nostro dialogo. La sera, sotto un cielo particolarmente limpido, ho potuto riconoscere alcune costellazioni e ripensare alle parole del nostro interlocutore. Forse è vero che la rinascita del Sud può partire da gesti semplici come volgere lo sguardo al cielo notturno per riscoprire il senso di una costellazione, una storia che parla anche di noi. Per mettere in pratica un «massaggio della memoria» che passa attraverso lo sguardo.


Riferimenti bibliografici

Luciano Bianciardi, La vita agra, Rizzoli, 1962.

Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Piccola Biblioteca Einaudi, 1977.

Franco Piperno, Elogio dello spirito pubblico meridionale. Genius loci e individuo sociale, Manifestolibri, 1997.


Note [1] https://www.quotidianodelsud.it/calabria/cronache/politica/2021/01/23/calabria-terra-perduta-irrecuperabile-le-parole-di-augias-e-lo-stereotipo-infinito/ [2] https://www.youtube.com/watch?v=zDbSgvvIlBE [3] N.d.A.

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