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Il realismo loro e il nostro


Note sull’odierna grammatica bellica

Pushpamala N., Sunhere Sapne (Golden Dreams), 1998.

La grammatica bellica è di nuovo in funzione, lo si vede dalle dichiarazioni dei politici europei o dalle colonne dei maggiori quotidiani italiani. Il perché è presto detto: c’è bisogno di mobilitare masse di uomini e donne, per conquistare porzioni di territorio e città, per avanzare e difendersi lungo il fronte, per controllare coste e retrovie, per combattere il nemico che si organizza in maniera opposta e simmetrica, anche attraverso forme di guerra ibride e asimmetriche. Basterà questo a rendere la guerra spendibile e spingere milioni di giovani ad arruolarsi per difendere la ragion di Stato? O, come suggerisce l’autore dell’articolo, possiamo scommettere sull’infedeltà che già oggi cova, inespressa, tra larghe fette giovanili? Questo il nodo.

 

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I venti di guerra in Europa soffiano sempre più forti. Qualche settimana fa Charles Michel, dalla presidenza del Consiglio europeo, ci ha fatto sapere che se vogliamo la pace dobbiamo prepararci alla guerra. Poco dopo è stato Macron a paventare la possibilità di inviare sul fronte ucraino truppe occidentali. Indipendentemente dalle uscite mediatiche di singoli esponenti dell’élite dominante, la tendenza ad una generalizzazione della guerra guerreggiata sembra inarrestabile, perché la posta in palio dei conflitti rimanda direttamente alla ridefinizione dell’ordine politico internazionale uscito dalla Seconda guerra mondiale e alla struttura della globalizzazione emersa dalla fine dell’esperimento sovietico. Infine, perché nessuno degli attori sul campo può permettersi di perdere.

Quella che si sta combattendo e che si combatterà è, però, una guerra diversa da quelle che abbiamo visto negli ultimi trent’anni, nella fase ascendente della globalizzazione a egemonia statunitense. Tra la fine degli anni Novanta e il primo decennio del nuovo millennio la guerra aveva assunto la forma di operazioni di polizia internazionale contro gruppi terroristici o Stati canaglia, ed era condotta, in nome del diritto umanitario, da eserciti professionali e dotati di tecnologie avanzate nello spazio senza frontiere della globalizzazione. La guerra di oggi sembra invece portare indietro le lancette della storia nella misura in cui lascia affiorare di nuovo l’ordine politico westfaliano che sotto il piano liscio della globalizzazione dei mercati continuava a funzionare.

Certo, la Storia non si ripete mai due volte e questo ritorno delle potenze sovrane avviene in un contesto fortemente segnato dai processi di globalizzazione. Tuttavia, se è vero che ad una determinata forma della guerra corrisponde una determinata forma della sovranità, proprio osservando le trasformazioni che ha subito la prima diventa difficile negare che ci troviamo ben oltre l’epoca della sovranità imperiale. Nella guerra di oggi non combattono più eserciti «leggeri» formati da relativamente pochi professionisti qualificati, dotati di attrezzature e armi tanto moderne quanto costose. Come vediamo nelle guerre in corso in Ucraina e Palestina, c’è bisogno di mobilitare masse di uomini e donne, per conquistare porzioni di territorio e città, per avanzare e difendersi lungo il fronte, per controllare coste e retrovie, per combattere il nemico che si organizza in maniera opposta e simmetrica, anche attraverso forme di guerra ibride e asimmetriche.

Non solo. La mobilitazione di uomini e donne è tanto più necessaria sul fronte interno per sostenere la produzione industriale e i costi (materiali e mentali) di una guerra di tale genere, grande consumatrice – oltre che di vite umane – di armi, mezzi, materiali, la cui continua distruzione ne impone una produzione di massa e a basso costo. È la lezione sovietica del Kalashnikov, oggi traslata sui droni turchi, iraniani e yemeniti.

Tutta una grammatica bellica, che sembrava scomparsa, si rimette in funzione.

In quest’epoca di avanzatissima postmodernità la guerra, quindi, non può che essere combattuta prevalentemente da eserciti di massa. Il cui carattere nazionale, tuttavia, si integra all’apporto sempre più esteso di formazioni mercenarie, paramilitari, legionarie o di volontari internazionali. La quantità, come ci ricorda Emilio Quadrelli, diventa nuovamente un fattore qualitativo. 

Se questa è la nuova e contemporaneamente vecchia forma di guerra, va da sé che solo la potenza della sovranità statale può garantirle la forza-lavoro e i mezzi necessari per essere combattuta. Non è un caso, quindi, che gli esponenti di alcuni governi europei, un po’ per testare le reazioni dell’opinione pubblica, un po’ per allargare lo spazio di legittimità dei discorsi bellicisti, azzardino il ritorno della leva obbligatoria o di forme di reclutamento laterali quanto coercitive. Prima di Sunak, primo ministro del Regno Unito che in campagna elettorale ha promesso il ripristino del servizio militare obbligatorio per i diciottenni in caso di nuova elezione, è stato il ministro Crosetto a paventare la possibilità di reclutare, in cambio della cittadinanza, giovani di «seconda generazione» per rimpolpare le fila dell’esercito italiano. Quando serve i confini della cittadinanza e della nazionalità possono allargarsi per includere anche chi, fino ad oggi, da quei confini è stato brutalmente e razzialmente escluso. Inclusione ed esclusione si mostrano così come due facce dello stesso sistema razziale, come due momenti, opposti e complementari, del razzialismo.

Ad affiancare gli esponenti politici in questo fuoco di fila mediatico non mancano docenti universitari e stimati intellettuali democratici che, dalle pagine dei principali quotidiani moderati, ormai periodicamente, lanciano appelli e giustificano la necessità della mobilitazione bellica. Significativo, sul «Corriere della Sera», l’intervento di Ernesto Galli della Loggia, che questa volta se la prende con il «pacifismo dell’irrealtà», cioè con quelle posizioni che considerano la guerra un’eccezione dovuta agli sporchi interessi di pochi e che rifiutano di vederla invece come una tragica regola della storia. Per Galli della Loggia, l’irenismo compiaciuto dei buoni sentimenti, avrebbe indebolito le società occidentali e le loro leadership, rendendole incapaci di prendere le decisioni che servono in «tempi duri» come i nostri, a differenza di quanto invece riescono a fare le altre società nel resto del mondo. Insomma, con una dose di cinico realismo, Galli della Loggia vuole «darci la sveglia» e ricordarci che nel mondo esistono i rapporti di forza e che la guerra è sempre una naturale eventualità nella storia degli uomini, con cui, per forza di cose, dobbiamo abituarci a convivere se non vogliamo perderci, e soccombere, in un mondo di illusioni morali che esiste solo nella nostra testa di cittadini europei.

Al di là del tipico e consunto tentativo degli apparatčik d’opinione della borghesia di naturalizzare i fenomeni sociali – che invece sono sempre storicamente determinati – per presentare la società del capitale come priva di alternative, è da apprezzare il realismo cinico di Ernesto Galli della Loggia. Tanto che dovremmo appropriarcene, per ribaltarlo di segno. Per opporre, a questo realismo cinico e conservatore, un realismo altrettanto cinico ma rivoluzionario.

È vero, l’«irenismo dell’irrealtà» ci fa percepire un mondo che non esiste. Ed è vero, in questo mondo esistono i rapporti di forza e la guerra è sempre una possibilità latente, consustanziale non alla storia ma ai rapporti sociali capitalistici. Ma allora, se non avremo altra scelta che combattere, per quale ragione dovremmo farlo per difendere, a costo delle nostre condizioni d’esistenza e della nostra stessa vita, questo mondo? Il mondo, come se ci fosse il bisogno di ricordarlo, in cui Galli della Loggia è lautamente stipendiato dai potentati dominanti per aprire bocca e invitarci al sacrificio.

Non siamo preoccupati. Se tempi duri generano uomini e donne forti, come recita il proverbio, diventato un meme, allora non resta che scommettere sull’infedeltà che già oggi cova, inespressa, tra larghe fette giovanili.

A quelli come Galli della Loggia piace scherzare con il fuoco. Siamo curiosi di sapere cosa diranno se quel fuoco divamperà nelle case che abitano. Non abbiamo fretta, siamo abituati ad attendere le occasioni: dalla nostra abbiamo la pazienza di generazioni di avi asserviti, gli stessi che hanno letteralmente mosso guerra per ottenere terra, pace e libertà.



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Antonio Alia ha coordinato la redazione di commonware.org, con cui ora cura l'omonima sezione. La sua formazione da militante è iniziata con il movimento dell'Onda.

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