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«Hai quarantotto ore...»

Estratto da Autobiografia di una leggenda

 





Immagine: John Carlos allo scoprimento della sua statua a San Jose State (per gentile concessione della San Jose State University)
Immagine: John Carlos allo scoprimento della sua statua a San Jose State (per gentile concessione della San Jose State University)

«Hai quarantotto ore …. non è una minaccia, ma una garanzia assicurativa. Se non ve ne occupate voi, lo farò io». Il racconto in prima persona della soggettivazione politica del giovane John Carlos, in questo estratto da Autobiografia di una leggenda. I pugni olimpici che hanno cambiato il mondo (DeriveApprodi 2024, pp. 192, euro 18), da oggi il libreria per la nuova collana hic sunt leones. L’esperienza trasformativa di una generazione che stava imparando di poter determinare il cambiamento «con la forza e l’unità» e sapeva bene: «che si tratti di una mensa scolastica o del podio olimpico, bisogna organizzarsi dove si è situati».

 

 

* * *

 

Malcolm mi ha dato la giustificazione verbale e la fiducia politica per fare ciò che ho sempre sentito nel mio intimo: agire. A quei tempi si parlava del Sud e dei diritti civili, ma Malcolm diceva sempre che dovevamo portare avanti la nostra lotta al Nord, dove non c’era il sistema Jim Crow però c’erano un sacco di maledetti problemi. Alle scuole superiori ho fatto di tutto per impegnarmi in una protesta di strada. Non dimenticherò mai quando con la mia banda eravamo seduti al tavolo della mensa scolastica e tutti parlavano di quanto fosse schifosa la sbobba che ci servivano, chiamata «cibo». Quotidianamente ci mettevano nei piatti la stessa dannata cosa: il pollo, che sapevamo essere il cibo dei poveri.

Quando parlo di cibo dei poveri, non lo sto criticando. È una battuta scherzosa e uno stereotipo di lunga data che i neri mangino alette di pollo e amino il pollo fritto. Però non è solo uno stereotipo, perché la nostra gente ha sempre mangiato pollo, fin dai tempi delle piantagioni. E non solo i neri. Chiunque non abbia un reddito elevato può comprare un pollo e cucinarlo in almeno cinquanta modi diversi. A casa Carlos mangiavamo molto pollo e mia madre sapeva farlo danzare. Ma a scuola era diverso. Che si trattasse di pollo al vapore o arrosto, al forno o fritto, nella zuppa o nell’insalata, il cibo non era né fresco né pulito. Allora non distinguevamo la salmonella dal salmone affumicato, ma avevamo conoscenze sufficienti per sapere che non dovevano esserci piume nel nostro cibo. Non eravamo Rockefeller, però tutti i giorni la scuola ci trasmetteva il messaggio che eravamo spazzatura, simboleggiata da quei polli schifosi.

La mia banda si è infuriata: «Quando addentiamo il pollo ci riempiamo la bocca di piume». Erano arrabbiati, ma parevano anche contenti di lamentarsi. Dissi: «È vero, è una cosa brutta, però è anche l’occasione per fare qualcosa. Possiamo fermare questa ingiustizia subito». Molto probabilmente non potevamo costringerli a darci un menu sempre diverso, però di sicuro potevamo far sì che smettessero di darci del pollo poco cotto con le piume.

Il giorno dopo avrei discusso la questione con il preside della scuola. La mattina presto entrai nel suo ufficio: «Signore, vorrei parlarle delle condizioni del cibo nella mensa». Si alzò appena dalla scrivania e mi disse di andarmene. Gli risposi bruscamente: «Cosa vuol dire uscire dal suo ufficio? Sono uno studente e ho il diritto di stare qui. Ho il diritto di dire la mia e di affermare che abbiamo bisogno di una migliore qualità del cibo». Sospirò, alzò lo sguardo dalla scrivania e mi parlò con voce lenta e semplice, come se avessi cinque anni. Mi spiegò, con quel tono, che ogni giorno la scuola riceveva pollo all’ingrosso ed era impossibile aspettarsi che gli addetti alla mensa si prendessero cura del nostro cibo in modo adeguato. Ribattei: «Mia madre lo fa ogni giorno e se può farlo mia madre, potete farlo anche voi». A quel punto mi guardò dall’alto in basso e mi ribadì di andarmene. Abbassò gli occhi per tornare a fare quello che stava facendo, ma io non mi mossi. Alzò la voce, ma io rimasi lì, dritto come Malcolm, a fissarlo negli occhi. A quel punto balzò dalla scrivania, si alzò in piedi e mi spinse fuori dal suo ufficio. Sì, mi spinse fisicamente fuori, cosa che a quei tempi i funzionari scolastici potevano fare senza preoccuparsi di essere denunciati. Sbatté la porta e io inciampai, quasi perdendo l’equilibrio. Mi rialzai e mi ripresi, feci un respiro profondo e tornai nel suo ufficio: «Amico, hai quarantotto ore per occuparti della questione».

Quando chiami il preside «amico», ottieni la sua attenzione. Ma ciò che lo ha davvero colpito è stato il fatto che lo avevo messo in guardia. Quando guardi negli occhi qualcuno e gli dici: «Hai quarantotto ore per occupartene», la prima cosa che gli viene in mente è di essere minacciato. Ovviamente il preside è esploso di rabbia: «Mi stai minacciando? È questo che hai appena fatto?». Non volevo trovarmi nella situazione in cui un preside potesse sostenere che lo avevo minacciato. In ciò non vi era nessuna vittoria per il quindicenne Johnny Carlos. Risposi: «No, non è una minaccia, ma una garanzia assicurativa. Se non ve ne occupate voi, lo farò io».

Ora avevo quarantotto ore di tempo per capire come mantenere le mie grandi parole. Radunammo rapidamente la banda ed elaborammo un piano. Naturalmente le quarantotto ore passarono e il preside non fece un bel niente per ripulire il nostro cibo crudo e piumato. Era giunto il momento di agire. Mi sono rivolto alla mia banda: «Bene, hanno fatto la loro mossa, ora facciamo la nostra». Così abbiamo messo in giro la voce che avremmo fatto uno sciopero della mensa. Avremmo boicottato il cibo della scuola come se fossimo degli autisti di autobus a Montgomery, in Alabama. Abbiamo detto a tutti di non comprare il cibo della mensa e di imbustarlo nei sacchetti di carta. Nei corridoi sarebbe stato chiamato il «boicottaggio del sacchetto di carta». Quasi tutti lo fecero, ci furono solo un paio di giovani che non accettarono il programma. Non so se non fossero d’accordo, se non sapessero che si trattava di una cosa seria o se non avessero capito nulla. Andavano in giro per la mensa con i vassoi, poi ebbero alcuni sfortunati incidenti: girando l’angolo qualcuno li urtò e fece cadere i vassoi. Non è stato bello né piacevole, ma avevamo bisogno di tutti, al 100%. Nemmeno il 98% era sufficiente. Perciò, dopo un paio di volte, hanno capito il messaggio e hanno iniziato a imbustare anche loro.

Lo sciopero era in corso da due settimane, la scuola iniziava a risentirne. Nessuno infatti comprava il pranzo, tutto quel cibo schifoso era in via di decomposizione. Dopo due settimane, però, serpeggiava inquietudine. L’attenzione cominciava a calare e, soprattutto, molti ragazzi non avevano i soldi per fare la spesa ogni giorno. Così tornai dal preside con il petto gonfio: «Che cosa farete? Amico, abbiamo fatto uno sciopero e tu fai finta di non accorgertene, ma so che vuoi che ci fermiamo». Mi ha guardato e ha risposto a voce bassa: «Ti ho detto che non cambierà nulla». Ho continuato a guardarlo dritto negli occhi: «Tu dici che non cambierà nulla, io dico che cambierà qualcosa, vediamo cosa dice la gente». Aggiunsi: «Chiamerò il “New York Times”, il “Daily News”, la “Harlem Press” e altri giornali, vediamo se pensano di raccontare questa storia».

Quando pronunciai queste parole, gli si drizzarono le antenne e iniziò a contorcersi. La sua voce passò dall’essere roca all’essere dolce: «Beh, John, non credo che dobbiamo fare così. Perché non vieni a sederti e ne parliamo?». Subito dopo, non vedemmo più piume nel nostro cibo. È stata la prima volta che ho osservato le acque separarsi: potevamo determinare un cambiamento in grado di farci stare meglio. Non dovevamo aspettare che qualche funzionario benintenzionato lo facesse al posto nostro. Eravamo capaci di far valere la nostra volontà e, con la forza e l’unità, potevamo spostare le montagne. Questa è stata la nostra Montgomery, la nostra Selma, la nostra Marcia su Washington. So che si trattava solo di una piccola lotta in un piccolo posto, ma il fatto che non sia passata alla storia non significa che non abbia trasformato quelli di noi che hanno organizzato una risposta così coraggiosa a un’ingiustizia quotidiana. D’altronde, che si tratti di una mensa scolastica o del podio olimpico, bisogna organizzarsi dove si è situati.

Dopo che il polverone si è quietato, avevo un nuovo slogan: «Hai quarantotto ore». Mi piaceva molto l’idea di sbatterlo in faccia a chi deteneva il potere, di fargli intendere che non stavo parlando solo per il gusto di ascoltarmi. Mi piaceva l’idea di far capire che esistevano rivendicazioni che dovevano essere soddisfatte e che non stavo giocando. Il grande Frederick Douglass una volta disse: «Il potere non concede nulla senza una rivendicazione». Ciò significa che è meglio arrivare con delle rivendicazioni e ogni volta che l’ho fatto ho sempre concluso dicendo: «Hai quarantotto ore».

La volta successiva che pronunciai quelle parole fatidiche fu nelle case popolari, si trattava di difendere la mia bellissima mamma, una grande lavoratrice. Mia madre, ricorderete, era un’assistente infermiera al Bellevue Hospital, lavorava in sala operatoria e in pronto soccorso da mezzanotte alle otto del mattino. Era un modo estenuante di guadagnarsi da vivere. Quando non lavorava, si sedeva al piano superiore del nostro appartamento e guardava fuori dalla finestra. A quei tempi le case popolari erano diverse da quelle di oggi, c’erano cortili molto belli e le signore si sedevano sulle panchine a parlare. Era una sorta di universo alternativo, ora non si vedono più signore e madri anziane socializzare all’aperto nelle case popolari. All’epoca, invece, era quello che facevano tutte. Mia madre, però, non lo faceva, scendeva molto raramente a sedersi sulle panchine. Violis Carlos si limitava a guardare fuori dalla finestra, da sola.

Era un’età in cui avevo la lingua lunga e il bisogno di sapere gli affari di tutti: «Ehi mamma, come mai non ti siedi di sotto? Perché non ti vedo mai con le donne nel cortile? Non voglio che le altre mamme o gli altri bambini pensino che tu sia arrogante!». Mia madre mi guardò come se volesse gonfiarmi il labbro: «Sono arrogante? È questo che pensi di tua madre?». Abbassai lo sguardo, sentendomi al tempo stesso in colpa e triste, perché l’ultima cosa che avrei voluto fare era ferire i suoi sentimenti. Ma ero testardo e insistetti: «Beh, mamma, tu non scendi mai a sederti con le donne. Pensi di essere troppo per loro?». A quel punto Violis Carlos, che ogni giorno tra mezzanotte e le otto del mattino vedeva il peggio che questa città aveva da offrire, passò dall’aspetto furibondo a quello ferito e vulnerabile. Fece un respiro profondo: «No, Johnny, non sono boriosa. Ma laggiù nel cortile gli alberi sono infestati dai bruchi. Ogni volta che mi siedo lì mi cadono sul collo. Quando li spazzolo via, scoppiano e mi vengono queste terribili eruzioni cutanee sulle braccia e sul collo. Non riesco a sopportarlo. Le panchine, i cespugli… ovunque è pieno di bruchi e io non voglio averci niente a che fare». Sapevo che stava dicendo la cruda verità. Nel cuore della notte, quando le case popolari e la città erano immobili e silenziose come un prato di campagna, si potevano persino sentire i bruchi che mangiavano le foglie degli alberi. Soffocava le lacrime parlandone, io ero arrabbiatissimo. Ero arrabbiato con me stesso per aver ferito i suoi sentimenti ed ero arrabbiato perché mia madre doveva rintanarsi nel nostro appartamento quando non lavorava in ospedale.

Il giorno successivo entrai nell’ufficio del responsabile delle case popolari con lo stesso atteggiamento che avevo avuto all’incontro con il preside. Bussai alla porta e, prima che potesse rispondere, entrai: «Signore, dobbiamo parlare, e dobbiamo farlo subito». Lui ha alzato lo sguardo con un sorrisetto, quasi come se fossi il sollievo comico della sua giornata: «Qual è il problema, ometto?». Ignorai il commento e raccontai tutta la storia di mia madre e delle sue lamentele. «Lei, signore, è il responsabile di queste case. Non crede di avere la responsabilità di fare qualcosa per questi bruchi?». Mi disse di aspettare nel cortile, avrebbe fatto alcune telefonate e ricerche sulla questione, poi mi avrebbe richiamato per darmi una risposta. Uscii fuori, più che soddisfatto di essere stato ascoltato. Ricordo ancora la sensazione lì nel cortile, mi sentivo bene, mentre la gente intorno a me ascoltava il jazz alla radio. Pensai tra me e me: «Forse i tempi stanno cambiando».

Cinque minuti dopo fui richiamato in ufficio e il grande sorriso fu rapidamente cancellato dal mio volto. Non sarebbe andata bene. Capii subito che stava succedendo qualcosa di brutto perché il vecchio fratello della guardia di sicurezza – la polizia delle case popolari – uscì da dietro la porta e si mise alle mie spalle, così vicino che sentivo il suo pancione sulla schiena. Di fronte, il direttore aveva un sorriso malsano: «Grazie per essere tornato. Ho esaminato il problema e volevo che tu tornassi qui per poterti buttare fuori!». Poi si mise a ridere. La guardia di sicurezza mi conosceva di nome se non di fama, così disse: «Andiamo, Johnny. Non vogliamo problemi». Me lo scrollai di dosso: «Non ho creato nessun problema. Sto solo cercando di farmi ascoltare». E lui: «Beh, sei stato ascoltato e ora è finita. Devo portarti fuori». Mi afferrò per le braccia e cercò di accompagnarmi fuori. Mi liberai dalla sua presa, tornai indietro di corsa, guardai dritto in faccia quel bastardo cattivo: «Hai quarantotto ore per risolvere questo problema o lo risolverò io». Lui si alzò dalla sedia, tutto sicurezza e condiscendenza: «Mi stai minacciando, ragazzo?». La guardia stava giocando a fare il poliziotto buono e tentava di calmarmi: «Non fare così Johnny. Niente minacce». Gli risposi: «Non sto minacciando quest’uomo, gli sto dando una garanzia assicurativa di quarantotto ore. Se non risolve il problema, lo farò io!».

Ho aspettato le quarantotto ore e naturalmente il direttore non ha fatto nulla per quei bruchi. Non è successo niente. Allora misi in atto il mio piano. Feci il giro del cortile per dire a tutte le donne sedute sulle panchine: «Vi conviene spostarvi da un’altra parte o salire di sopra, perché qui sta per scoppiare qualcosa». Poi sono andato a una vicina stazione di servizio, il gestore era un buon amico di mio padre, gli dissi che il mio vecchio aveva bisogno di benzina e io non avevo una tanica. Lui ne andò a prendere una, la riempì di benzina, me la diede e mi disse di dire a mio padre di passare a pagarlo quando ne avesse avuto l’occasione.

Tornai nel cortile, armato della mia tanica di benzina. Un paio di persone a cui avevo detto di andarsene erano ancora lì. Non sapevo se mi davano retta o se volevano vedere cosa stava per succedere. Dissi loro un’ultima volta: «Andate da un’altra parte». Mi guardarono con profonda diffidenza, uno chiese: «Cosa stai facendo?». Risposi: «Andate via da qui. Per favore. Sta per fare molto caldo». Poi tolsi il tappo alla tanica e innaffiai di benzina il primo albero. Presi una scatola di fiammiferi di legno lunghi e spessi. Colpii uno dei fiammiferi a bastoncino contro la mia cerniera, lo lanciai contro l’albero e rimasi a guardare. Era uno spettacolo: il fuoco mangiava quell’albero come se fosse un giornale e lo trasformava in una palla di fuoco di bruchi fritti. Le signore più anziane che avevo avvertito si misero in disparte e cominciarono a gridare: «Oh no! Quel Johnny Carlos! È pazzo!». Lo hanno gridato più e più volte e le persone si sono sporte dalle finestre, invocando aiuto. A quel punto è arrivata la polizia, e per la gente delle case popolari vedere gli sbirri è stato un segnale per fare ancora più casino. Hanno iniziato a correre in giro, prendendo parte al caos e rendendo difficile per la polizia raggiungermi.

I poliziotti erano come un cervo alla luce del sole, non sapevano se affrontarmi, spegnere il fuoco o badare alla folla. Mentre erano bloccati, ho pensato che chi più ne ha più ne metta: ho spruzzato benzina su un secondo albero e ho dato fuoco anche a quello. Il caos è aumentato e l’atmosfera è diventata ancora più tesa. Poi sono andato a colpire un terzo albero e a quel punto si sono ripresi, mi hanno trascinato a terra e hanno chiamato la volante per prelevarmi e portarmi al 32° distretto. Pur essendo minorenne, ero in guai seri. Mi sottoposero alla procedura di identificazione e fissarono la comparizione in tribunale. Quando mia madre mi riportò indietro, la tensione in casa Carlos era ai massimi livelli. Nessuno era contento di me, soprattutto mia madre. Non voleva sentir dire che lo avevo fatto per lei. Anzi, era sconvolta dal fatto che l’avessi associata a tutto ciò. Quando arrivò il momento di andare in tribunale, Violis Carlos si tenne alla larga. Toccò a mio padre stare accanto a me e affrontare il giudice.

La prima domanda che il giudice fece a mio padre fu: «Signor Carlos, suo figlio è in pieno possesso delle sue facoltà? Ha qualche problema psicologico diagnosticato di cui la corte dovrebbe essere informata?». Mio padre, che aveva più di sessant’anni ed era un veterano della Prima guerra mondiale, dovette mordersi il labbro, fare un respiro profondo e rispondere al giudice: «Beh, vostro onore, per quanto ne so non ci sono prove che mio figlio sia più pazzo degli altri ragazzi». Il giudice allora disse: «Signor Carlos, se suo figlio è in pieno possesso delle sue facoltà, perché avrebbe fatto quello che ha fatto? Perché ha sentito il bisogno di bruciare quegli alberi se non ha un disturbo mentale?». Earl Vanderbilt Carlos lo fissò a lungo: «È una bella domanda, vostro onore. È qui, credo che dovrebbe porla a lui». Il giudice mi guardò molto attentamente. Non mi osservò con ostilità, piuttosto come uno scienziato che esamina una specie che non capisce: «Figliolo, perché hai fatto quello che hai fatto?».

A quel punto, mi sono sfogato. Gli raccontai tutta la storia di mia madre, un’assistente infermiera di Bellevue che lavorava duro e non poteva scendere a rilassarsi nel nostro cortile a causa di quei bruchi schifosi. Gli dissi che da quando vivevo in quelle case popolari non avevo mai visto nessuno inviato dall’amministrazione per spruzzare gli alberi o prendere provvedimenti contro l’infestazione. Gli comunicai che l’intera situazione era diventata insopportabile e disumana. Il giudice rimase in silenzio per un momento. Poi si rivolse all’amministratore dell’edificio, seduto sul banco dell’accusa: «Signore, sicuramente lei sa che ogni anno riceve dal comune un contributo per spruzzare quegli alberi contro le infestazioni. È vero che non sono stati irrorati da anni? E se è vero, che fine hanno fatto i soldi che lei riceve dal comune per prendersi cura di questi alberi?».

L’amministratore dell’edificio è diventato pallido davanti ai nostri occhi. Dopo un balbettio, abbozzò: «Non posso dirvi l’ultima volta che gli alberi sono stati irrorati perché non sapevo che mi sarebbero state fatte queste domande e ora non ho con me i documenti appropriati, vostro onore». Il giudice ha quindi interrotto il processo e ha chiesto che i «documenti appropriati» fossero presentati come prova prima di poter continuare. Era come se l’attenzione del giudice si fosse distolta da me. Adesso a essere sotto processo era l’amministratore del palazzo. Un segno dei tempi!

Quando siamo tornati in tribunale, il giudice ha scoperto che quel buffone di amministratore di condominio aveva ricevuto i soldi per la disinfestazione per quindici anni e se li era intascati. Stabilì dunque che ero stato provocato per arrivare a compiere un’azione così drastica e dato che, secondo le testimonianze, avevo fatto ogni sforzo per sgomberare il cortile prima di appiccare gli incendi, considerando che ero minorenne, ero libero di andare. Mio padre rabbrividì di gioia e mi diede una stretta che avrebbe potuto spezzarmi in due.

Quando tornammo alle case popolari, la gente mi dava pacche e mi chiamava eroe, ma alle mie spalle dicevano che dovevo essere davvero pazzo. Pensavano che i ragazzi normali non avrebbero mai fatto una cosa del genere. Ma quello era un periodo in cui molti dei cosiddetti ragazzi «normali» sentivano che la normalità non era più sufficiente e che la «pazzia» era l’unica opzione.

Mia madre e mio padre, per quanto fossero grati per il cambiamento della situazione, non volevano sentirsi dire che la «pazzia» era l’unica opzione. Erano ancora molto arrabbiati con me, ma ormai sapevano bene che tipo di ragazzo fossi. Non ero come mia sorella o i miei fratelli. Se credevo in qualcosa, sarei andato fino alla fine, all’inferno o con l’acqua alla gola. Sapevano che se avessi dovuto prendere botte, da loro o da chiunque altro, le avrei prese. Le prenderò finché non riuscirò più a sedermi, ma non mi faranno retrocedere o cambiare idea. Comunque i miei genitori su questo non la vedevano esattamente allo stesso modo. Mia madre, ricorderete, non volle nemmeno venire in tribunale. Era cresciuta a Cuba ed era troppo arrabbiata, sconvolta e imbarazzata dalla mia mancanza di disciplina, per vedermi raddrizzato da un giudice. Mio padre, il figlio del mezzadro che aveva combattuto per le libertà all’estero che non aveva in patria, era al mio fianco. Nessuno meglio di mio padre sapeva che né lui né nessun altro al mondo avrebbero potuto frustarmi abbastanza da farmi cambiare idea su ciò che ritenevo giusto. Così, quando il giudice ebbe finito e io ero libero, mi disse: «Beh, Johnny, questa volta hai vinto tu. Proprio come quella volta con quel pollo domestico». Non sapevo di cosa stesse parlando. Mentre scendevamo le scale del tribunale, mi ricordò un fatto accaduto quando ero più giovane.

A quanto pare, una volta chiesi a mia madre se potevo comprare un pollo e allevarlo. Lei mi guardò come se avessi le rotelle fuori posto: «No, non puoi comprare un pollo». Non avevo abbastanza soldi, ma avevo un salvadanaio, così lo aprii, tirai fuori tutti i miei risparmi e andai in un posto dove vendevano uova. Avevo abbastanza soldi per una dozzina di uova fresche di fattoria e pensai che, se le avessi curate correttamente, avrei potuto avere dodici pulcini. Parlai con l’agricoltore locale e mi assicurai di comprare uova che potessero schiudersi. Poi pagai il contadino perché le sue galline le covassero. Quando ebbi un bel po’ di pulcini li portai a casa, nascondendoli nella vasca da bagno. Mia madre urlò in corridoio: «Cos’è questo rumore?». Risposi: «Quale rumore, mamma? Non sento niente». Lei entrò in bagno e vide un mucchio di pulcini che vivevano nella sua vasca: «John, non puoi tenere questi polli». Risposi: «Mamma, sono i miei polli. Li ho pagati. Ti prego, lasciameli tenere». Mia madre usò il vecchio ritornello: «Aspetta che tuo padre torni a casa». Mio padre tornò a casa stanco morto e guardò i pulcini: «Beh, ragazzo, hai speso tutti i tuoi risparmi. Ma hai fatto una buona cosa perché hai ottenuto il massimo. Quindi ecco cosa ti permetterò di fare: potrai tenere un pulcino come animale domestico». Mia madre lo fissò trafiggendolo come un pugnale.

Portai gli altri pulcini dal contadino e ne tenni uno in casa. Il mio piccolo pulcino divenne un gallo e lo trattai come se fosse il cane di famiglia. Lo chiamai Charlie, gli accarezzavo le piume e gli insegnai a grattare il pavimento a comando. Poi arrivò la fiera della scienza della scuola elementare e nessun insegnante mi incoraggiò a partecipare a causa dei miei voti. Io però pensai di presentarmi per esporre Charlie. Quando mia madre lo venne a sapere si arrabbiò, non voleva nemmeno farmi uscire di casa: «Ragazzo, non osare portare quel brutto gallo a scuola». Invece lo feci. Alla fiera, ricordo che tutti i bambini si presentavano con progetti elaborati, tabelle e diagrammi, sperando di ottenere il nastro blu. Io portai solo Charlie. Quando i giudici videro i numeri che faceva Charlie, quando lo videro beccare, contare e fare di tutto, vinsi facilmente il nastro blu. Non avevano mai visto un gallo rotolarsi o cantare a comando.

Mentre uscivamo dal tribunale, il mio vecchio raccontò e rievocò quella storia con un certo orgoglio: «Beh, figliolo, sembra che anche se ti metti nei guai, finisci sempre in piedi e a testa alta». Le sue parole e l’intera esperienza diedero alla mia mente di giovane adolescente qualcosa di molto forte su cui riflettere: arrivai alla conclusione che non ci si mette nei guai solo perché si fa qualcosa di brutto o sbagliato. Si può finire nei guai anche perché si difendono idee e principi che sfidano il potere. Potete finire nei guai per aver smascherato le bugie e l’ipocrisia di coloro che sostengono di avere a cuore i vostri interessi. Potete allora guadagnarvi la rabbia riservata a coloro che sono così avanti, che la gente si accorge di ciò che stanno facendo solo anni dopo.


* * *


John Carlos è un ex velocista, autore di diversi record americani e mondiali. Cresciuto ad Harlem, impegnato nelle lotte contro il razzismo e per la giustizia sociale, medaglia di bronzo nei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico nel 1968. È stato tra gli atleti protagonisti del «Progetto olimpico per i diritti umani» e con quel pugno chiuso sul podio ha scritto la storia dello sport e dell’immaginario dei movimenti globali.

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