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Generazione di sconvolti

Estratto da Odio i lunedi. Con Vasco Rossi negli anni Ottanta

 


foto di Enrico Calderoni per Chiaroscuro Creative (Bologna)

Esce oggi Odio i lunedì. Con Vasco Rossi negli Ottanta di Diego Giachetti, seconda uscita del nuovo marchio editoriale MachinaLibro, legato al lavoro della rivista e della casa editrice DeriveApprodi.

Il libro, che contiene un’intervista inedita allo stesso Vasco Rossi, racconta gli anni Ottanta attraverso uno dei suoi cantori più importanti, tenendo insieme le espressioni della soggettività del decennio con le vicende storiche, politiche e culturali di quel periodo.

Il testo che abbiamo selezionato narra delle «generazione di sconvolti/che non han né santi né eroi» che, nonostante la fine del ciclo di lotte degli anni precedenti, non non rassegnata a ritornare a una vita normale, fatta di lavoro, casa, famiglia, perché ha vissuto sopra le righe della banalità quotidiana e vuole continuare a farlo andando «al massimo, a gonfie vele, senza frenare», per vedere «come va a finire».

 

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Tutto a un tratto ed esageratamente, una parte consistente del mondo giovanile, che aveva sperato nella trasformazione dei rapporti sociali e delle relazioni tra le persone, si sente orfana, abbandonata, priva di speranza, consapevole dell’impossibilità di vedere entro poco tempo realizzata una società nuova, delusa dal «fare politica» che aveva praticato fino al giorno prima. Avevano creduto che criticando il modo di fare politica degli adulti fosse possibile costruire una modalità nuova di praticarla, basata sulla partecipazione diretta e sul protagonismo di massa. La speranza si incrina dopo le elezioni politiche del 20 giugno 1976, quando sono costretti a rendersi conto che ha vinto il vecchio modo della politica partitica, coi suoi modelli statuali e istituzionali, fondati sul primato della mediazione e del compromesso. Egualmente la strategia sindacale sta smantellando le «velleità» partecipative e decisionali messe in atto dall’istituzione dei consigli di fabbrica, frutto accettato delle lotte dell’autunno caldo, ma non cercato e voluto. Secondo la vulgata giornalistica del momento è l’inizio del riflusso, della dismissione di una generazione dal protagonismo sociale, culturale e politico, un ritorno al privato dopo anni vissuti ostentatamente in una dimensione pubblica attiva e offensiva.

In questa generazione, una parte, quella più politicizzata, aumenta il grado di radicalizzazione andando ad ingrossare le fila dell’Autonomia operaia che, a differenza delle altre formazioni della nuova sinistra, gode di relativa ottima salute[1]. Altri si chiudono nelle «riserve indiane» per poi «dichiarare guerra» al sistema delle «giacche blu», secondo la fraseologia degli indiani metropolitani, mutuata dalla lettura di Tex Willer e film western, aprono i circoli del proletariato giovanile, luoghi di ritrovo per giovani sconvolti dalla politica e dalla militanza, dove si prova a ricostruire una vita a misura d’utopia, partendo da sé, dal proprio sentire desiderante, intessendo relazioni per intervenire nel sociale, sul territorio.

Altri ancora si organizzano in una vita precaria, sostenuta da lavori saltuari e intermittenti, che possono anche avere aspetti piacevoli per dei giovani, perché lasciano spazio al tempo libero. Tra un lavoro e l’altro si può viaggiare, frequentare amici e amiche, partecipare a concerti, alle attività dei circoli, alle assemblee, ai cortei. Nell’insieme domina un atteggiamento dato dalla mancanza di prospettive, dovuto sia alla crisi del sistema economico e sociale, dopo la fase propulsiva e propositiva degli anni del boom e dello sviluppo, sia alla caduta delle tensioni ideali e collettive che hanno agitato la gioventù fino a pochi anni prima. Viene meno la fiducia nel futuro, anzi il futuro può far paura, quand’è inteso come peggioramento delle condizioni di vita. Contemporaneamente, crollano i riferimenti rassicuranti al passato, non ci sono più maestri ed «eroi» da interrogare, subentrano «spaesamenti diffusi, paure sia del presente che del futuro»[2].

Nuovamente i giovani vivono l’esperienza di stare in una società bloccata nella speranza del cambiamento e della trasformazione, com’era prima del Sessantotto. Poi il movimento provò a infrangere quel confine per andare oltre. Ora la società bloccata si presenta tale e quale nello sberleffo dell’ennesimo governo Andreotti e nella cautela cautissima di Enrico Berlinguer, del Partito comunista, delle astensioni e della non sfiducia, mentre i sindacati confederali si affannano a firmare il 26 gennaio 1977 un patto sociale tra produttori con la Confindustria.

Sul finire degli anni Settanta, il Sessantotto è un ricordo lontano, il Settantasette sconfitto, lo Stato, lungi dall’essersi indebolito, si è rafforzato, il sistema dei partiti si è consolidato. Il consociativismo, il carrierismo politico, l’occupazione di tutti i posti possibili nei vari gradi delle istituzioni rappresentative è una pratica ricorrente e diffusa tra tutti i partiti dell’establishment. Le formazioni della nuova sinistra sono in crisi. Chi pratica la lotta armata non discute, spara. L’area dell’autonomia, piegata dalla repressione, rende invisibili, per dirla col titolo del romanzo di Nanni Balestrini[3], gruppi di persone, rimossi dalla storia ufficiale, pubblica e politica, frantumati in vicende individuali, con la caduta di certezze e speranze.

Che Guevara è morto da più di dieci anni, della rivoluzione cubana, dei barbudos, di Fidel Castro resta, se resta, un ricordo lontano. Mao è deceduto nel 1976, il Vietnam ha vinto la sua guerra contro gli Stati Uniti, ma subito dopo ha attaccato e invaso nel gennaio del 1979 un altro paese comunista, la Cambogia di Pol Pot, che non è stato certo tenero coi cambogiani. La Cina della rivoluzione culturale, ormai finita, ha mosso a sua volta guerra al Vietnam nel febbraio di quell’anno. Il volto del socialismo, l’unico possibile e reale, sembra essere solo e unicamente quello dell’accigliato e pietrificato Breznev, un «culo di pietra», come vengono chiamati ironicamente i burocrati della nomenklatura sovietica che hanno fatto la loro carriera politica stando seduti dietro scrivanie sempre più grandi. La classe operaia, quella «mitica» di Torino, targata Fiat, è sconfitta, dopo trentacinque giorni di lotta, sul finire del 1980.

Di fronte a questo scempio «non c’è più niente da dire» si può «solo vomitare», canta nella canzone del 1981 dal titolo Siamo solo noi, un inno alla «generazione di sconvolti/ che non han più santi/ né eroi», che si sente orfana e proclama il suo diritto a esserlo. Dare di stomaco, vomitare è un termine che ritorna in una canzone del 1993, quando ricorda il Sessantotto come periodo di grandi sogni e di grandi illusioni, per poi chiedersi:

 

ma non ricordo se chi c’era

aveva queste facce qui

non mi dire che è proprio così

non mi dire che son quelli lì

Stupendo!

Mi viene il vomito!

È più forte di me

(Stupendo, 1993)

 

L’allusione esplicita è agli ex dirigenti dei gruppi della nuova sinistra che hanno fatto carriera nei vari campi delle professioni e della politica, in particolare, preciserà in seguito, l’esclamazione «stupendo! Mi viene il vomito!» gli è venuta «vedendo dov’è finita “gente come Liguori”, che apparteneva a Lotta continua»[4].

Per sua fortuna, la politica non lo ha mai attratto più di tanto. Ora, dopo la sbornia degli anni Settanta, durante i quali si doveva essere coerenti perché tutto era politicamente importante, si toglie la soddisfazione di gridare e rivendicare, come parte costitutiva della vita, «ogni volta che non sono coerente/ ogni volta che non è importante», perché alle soglie degli anni Ottanta «coerenza, intelligenza sono tutte menate. Oggi si va di qua e di là»[5]. Con lessico meno popolare, un sociologo dice la stessa cosa narrando la perdita d’indirizzo della vita che produce «contraddittorietà d’atteggiamenti e di comportamenti; uno stato d’incoerenza […] un’eterogeneità che esprime soltanto la perdita di centro, la non abitudine a realizzarsi in termini unitari»[6].

Si va perdendo l’etica, la morale, la religione. Il processo di secolarizzazione, spinto dalla moderna società dei consumi, intacca non solo il significato della pratica religiosa, mette in crisi pure le ideologie politiche che avevano mobilitato tutta una fascia di giovani. La crisi dell’impegno politico travolge gli ex militanti e la generazione sessantottina, alimentandosi nel discredito in cui precipita l’agire politico: sordido patteggiamento tra le parti, voto di scambio, diffusione della corruzione e del connubio tra attività partitica e interessi privati, raccomandazione e rivendicazione esplicita del metodo clientelare.

Misurando con appositi strumenti metodologici il tasso di delusione rispetto alle esperienze d’impegno pubblico e politico, relativamente al decennio 1976-86, due sociologi individuano un «triennio maledetto», collocabile tra il 1980 e il 1982, nel quale il tasso di delusione scende in caduta libera rispetto agli altri anni considerati[7]. Vasco Rossi reagisce ostentando il suo individualismo: «non faccio parte d’alcuna organizzazione o corporazione», rivendica come suo tratto caratteristico l’essere «antisociale», sostiene che «farsi i cazzi propri è sufficiente»[8], precisando in seguito che se potesse non si farebbe neanche i suoi.

Quando scrive Siamo solo noi ancora non sa di essere l’interprete di una «generazione di sconvolti/ che non han più santi né eroi», non rassegnata a ritornare a una vita normale, fatta di lavoro, casa, famiglia, perché ha vissuto sopra le righe della banalità quotidiana e vuole continuare a farlo andando «al massimo, a gonfie vele, senza frenare», per vedere «come va a finire» (Vado al massimo, 1982). Un rimedio consigliato contro la noia della vita borghese, un invito a rompere i lacci che imprigionano la giornata e unirsi alla ribellione collettiva intesa come sommatoria di individui. Le persone a cui si rivolge non hanno una «vita regolare», non si sanno «limitare», non hanno «più niente da dire» e non stanno «neanche più ad ascoltare», perché «ormai non credono più a niente/ non han più voglia di far niente» (Siamo solo noi, 1981).

La canzone coglie la condizione di solitudine non di una massa di singoli individui integrati nel meccanismo sociale, ma di persone la cui soggettività rappresenta ancora un elemento di disturbo del sistema. Il noi della canzone, diverso nel significato da quello caratteristico dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta, non indica una collettività, non compone una «società, ma una moltitudine di individui»[9] e introduce l’opportunità nuova di ripensare il soggetto e la sua identità.

Crollate le ideologie e le speranze rivoluzionarie, ripiegati su se stessi nel tentativo, alquanto improbabile, di cambiare almeno la vita quotidiana, collocati in una società che va in tutt’altra direzione rispetto a quella sperata, dove i legami e i rapporti sociali tra le persone tendono alla precarietà, non rimane che «agire per eccesso, che vuol dire un’esaltante adesione alla vita e a tutti i suoi aspetti»[10]. Una Vita spericolata, alla Nietzsche (vivi pericolosamente), spiega l’autore, «maleducata», cioè non educata secondo i parametri del perbenismo ipocrita e conformista, «piena di guai», non garantita, senza un lavoro sicuro, «come quella dei film», dove non ci sono le parti monotone della giornata, solo quelle essenziali, vissute assieme a Steve McQueen, mito «della mia generazione, bello dannato, spericolato»[11], imprevedibile e non scontata («che non si sa mai»), esagerata per eccesso («che non dormi mai»). Il testo «è una perfetta architettura di desideri»[12], inseguiti con andatura veloce, senza mete prefissate, un susseguirsi di spostamenti nomadi, di gruppi di persone senza radici, diverse tra loro, perse dietro i propri guai, senza collocazioni e mete da raggiungere, alle quali resta solo la speranza di trovarsi ogni tanto «come le star/ a bere del whisky al Roxy bar». Un andare che si consuma per se stesso e richiama un passaggio del romanzo di Jack Kerouac: «dobbiamo andare senza fermarci finché non arriviamo. E dove andiamo amico? Non lo so ma dobbiamo andare»[13].

Difficile riconoscere la fine di un periodo vissuto intensamente. Molti continuano a comportarsi nel modo abituale. Ci sono ancora i picchetti, le manifestazioni, ma sono la rappresentazione teatrale di qualcosa che va finendo. In ciò che rimane del movimento c’è chi reclama la felicità subito, da realizzarsi nelle zone liberate dei centri sociali, luoghi aperti dove si è liberi almeno una parte della giornata. Sperano che il temuto riflusso altro non sia che una «risacca prima di un’altra grande ondata di lotte», invece tutto sta cambiando: il movimento scompare, «un sacco di gente è in galera o all’estero e quelli rimasti sono spiazzati […]. Chiuse le sedi, la gente ha preso l’abitudine di ritrovarsi sempre nello stesso bar»[14].

La speranza si fa disperata e Vasco Rossi la cattura quando intuisce che la vita si fa spericolata suggerendo, tra le righe del testo, che per sopravvivere bisogna dotarsi di un «animo tale da poter reggere anche al crollo di tutte le speranze»[15] e vivere in quella voglia sfrenata di trovare soddisfazione qui e ora. Le energie politiche introdotte negli anni Settanta, dopo il tramonto della prospettiva rivoluzionaria, proseguono convergendo nella sfrenata voglia di vivere, nel consumo, nelle feste, nella comunicazione. Sono scelte nutrite dall’impazienza verso le regole e le gerarchie che maturano nei reticoli amicali, esprimono la spontanea soggettività ribelle del singolo. Non per questo sono meno ferme, meno decise anzi, sono scelte difficili perché lasciate alla coraggiosa decisione individuale di cosa fare della propria esistenza.

Vivere sopra le righe, intensamente, più che dare un senso alla vita, avere i sensi pronti per recepirla in tutti i suoi aspetti: la canzone Vita spericolata, trasgressiva, anticonformista piace ai giovani e ai trentenni che si sentono in lotta contro l’indifferenza, la banalità, il piattume del vivere quotidiano, il grigiore della vita nelle periferie delle metropoli, il deserto di emozioni e sensazioni dentro le quali si sprofonda nella provincia, nei piccoli comuni italiani. Piace l’immedesimazione tra la sua vita e le sue canzoni, un modo di vivere intensamente, senza scrupoli bigotti o moralmente falsi, perso tra whisky, sigarette, sesso, alberghi e concerti inseguiti trotterellando col camper da un luogo all’altro, alla voluta ricerca del contatto diretto col pubblico. Interpreta un modo intenso di vivere che vuole soddisfazione, subito e in grande quantità, una richiesta da parte di individui che ricorda quella collettiva delle lotte operaie del 1969: «vogliamo tutto, tutto e subito».

Al pubblico che comincia ad apprezzarlo e seguirlo, con le sue canzoni non trasmette messaggi politici o morali, non indica la «linea» per giungere alla meta, racconta situazioni esistenziali senza la pretesa di risolverle. Si propone come il cantore rock dei sogni o dell’assenza di sogni di una generazione priva di certezze, di giovanissimi che non han più padri né maestri.




Note

[1] Una storia, quella dell’Autonomia operaia nel periodo 1973-79, che la casa editrice DeriveApprodi ha ampiamente raccontato attraverso molteplici pubblicazioni, a cominciare da Sergio Bianchi – Lanfranco Caminiti, a cura di, Gli autonomi. La storia, le lotte, le teorie, DeriveApprodi, Roma 2007.

[2] Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma Donzelli 2003, p. 559.

[3] Nanni Balestrini, Gli invisibili, Bompiani, Milano 1987.

[4] Vasco Rossi, Diario di bordo, Mondadori, Milano 1996, p. 148.

[5] Per la rivendicazione dell’incoerenza vedi la sua canzone Ogni volta; la seconda affermazione è riportata in Sabatino, Vasco Rossi, cit., p. 59.

[6] Franco Garelli, La generazione della vita quotidiana, Il Mulino, Bologna 1984, p. 313. «Un tratto ripetutamente messo in evidenza nella cultura giovanile post-politica, è la mancanza di progetto, la provvisorietà degli interessi, delle aggregazioni, delle scelte» (Alberto Melucci, L’invenzione del presente, Il Mulino, Bologna 1982, p. 175).

[7] Cfr., Loredana Sciolla – Luca Ricolfi, Vent’anni dopo. Saggio su una generazione senza ricordi, Il Mulino, Bologna 1989, p. 145.

[8] Blasco (alias Vasco Rossi), Le tavole, «Il blasco», n. 16, 1996.

[9] Edmondo Berselli, Canzoni. Storia dell’Italia leggera, Il Mulino, Bologna 1999, p. 134.

[10] Ilardi, Delitto senza castigo, cit., p. 97.

[11] Come nasce un capolavoro, intervista a Vasco Rossi a cura di Marinella Venegoni, «La Stampa», 13 luglio 2014. La successiva lettura di Nietzsche dirà mi ha cambiato la prospettiva, mi ha fatto pensare in un altro modo, «poi, a essere onesti, io Nietzsche ce l’avevo già dentro. Il filosofo raccomandava di “vivere pericolosamente”? Bene, all’inizio degli anni Ottanta io scrivevo una canzone che cominciava proprio così: voglio una vita spericolata» (Vasco Rossi, La versione di Vasco, cit., p. 101)

[12] Berselli, Canzoni, cit., p. 143.

[13] Jack Kerouac, Sulla strada, Mondadori, Milano 2003, p. 242. Stessa cosa sostiene Vasco Rossi: «conta non stare mai fermi, non importa dove arrivi, tanto poi devi ripartire» (La versione di Vasco, cit., p. 37).

[14] Anna Negri, Con un piede impigliato nella storia, cit., pp. 174, 235. Più che del riflusso, Siamo solo noi e Vita spericolata sono canzoni «della disillusione: «volevamo cambiare il mondo, le strutture. Erano idee forti. Volevamo fare la revolucion» (intervista a Vasco Rossi, in Diego Giachetti, Siamo solo noi. Vasco Rossi, un mito per le generazioni di sconvolti, Theoria Edizioni, Milano 1999, p. 11).

[15] Max Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1971, p. 120



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Diego Giachetti (1954) vive a Torino. È due volte recidivo sull'argomento Vasco Rossi con Siamo solo noi. Vasco Rossi un mito per le generazioni di sconvolti (1999) e, assieme a Marco Peroni, Vasco Rossi. Ognuno col suo viaggio (2005). Più in generale si è occupato di movimenti giovanili e di protesta attorno al ’68 e delle lotte operaie nel corso dell’autunno caldo. Molteplici le sue pubblicazioni, tra le quali La rivolta di corso Traiano (1997-2019); Un Sessantotto e tre conflitti (2008). Con DeriveApprodi ha pubblicato Nessuno ci può giudicare. Gli anni della rivolta al femminile (2005) e Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills (2021).


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