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Gabrio: centro sociale e centrosocialismo (I)

Un dibattito tra generazioni di militanti






Centro sociale Gabrio

Il centro sociale Gabrio a Torino è occupato nella notte tra il 17 e il 18 settembre 1994. In via Revello 2 c’era la ex-scuola elementare Gabrio Casati, nel quartiere popolare di Cenisia-San Paolo, storico insediamento di barriera e con una grande tradizione comunista. È qui che nell’agosto del 1917 si combattono alcune delle pagine più cruente delle giornate della rivolta contro la guerra, come l’incendio della chiesa di San Bernardino; è qui che si trova la casa di Dante di Nanni, che si difese fino alla morte dai fascisti nel 1944.

Il Centro di via Revello è occupato da un gruppo di giovani militanti che avevano precedentemente occupato, nel 1993, l’ex Asilo infantile Principessa Isabella in via Verolengo, nel quartiere Lucento, dando vita all’esperienza del Centro Sociale Isabella. L’utilizzo dello stabile, dopo circa un anno di occupazione, è concesso a titolo di comodato gratuito dal Comune di Torino a un’Associazione universitaria, in accordo con l’assemblea degli occupanti. La sede di via Revello però ha il problema dell’amianto, il centro è minacciato di sgombero. Nel giugno 2013 il Gabrio decide di occupare i locali della scuola Pezzani di via Millio, da quel momento sede del Centro.

Dopo la pubblicazione su «Machina» del testo di Gigi Roggero Tra realtà dei centri sociali e centrosocialismo reale: il ciclo degli anni Novanta, si decide di provare a sviluppare una discussione collettiva, tra compagni di diverse generazioni del Gabrio. Si svolgono così due incontri i cui contenuti sono stati qui trascritti. Il limite principale degli incontri è la partecipazione esclusivamente di compagni alla discussione, scelta non voluta, ma che ovviamente restituisce una visione parziale della materia.


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Primo incontro, Gabrio 9 aprile 2024

 

Presenti: Guazzo e Alex, della prima generazione

Sollazzo, Dario della seconda generazione

 

Luca Perrone: Innanzitutto ringrazio Marco per aver organizzato questo incontro. Il documento scritto da Gigi Roggero[1], molto ricco, propone una lettura non mitologica della storia dei centri sociali (usa efficacemente la dizione «centrosocialismo reale»): i centri sociali nati nel 1989, hanno una parabola che vede il suo punto di massima visibilità e conflittualità sociale attorno alla vicenda del Leoncavallo del 1994, poi inizia una fase discendente e oggi rappresentano una residualità, senza determinare alcun protagonismo. I centri sociali sarebbero in fondo una grande occasione mancata, proprio perché hanno realizzato un incontro tra gruppi militanti e una massa di giovani che rappresentavano in qualche maniera una nuova composizione sociale. Siamo d’accordo con questa lettura?


Sollazzo: A Torino non è stato così veloce il passaggio dall’ '89 a una dimensione di massa. Dopo gli anni Settanta, la Marcia dei 40.000[2] e l’edonismo degli anni Ottanta eravamo schiacciati in una residualità da cui era molto difficile uscire. Per un po’ di tempo negli anni Ottanta, l’antagonismo cittadino fu composto da piccole comunità/collettivi o da una serie di persone che arrivavano da percorsi diversi e che la politica teneva insieme come collante. Poi c’è stato il fenomeno culturale delle posse che ha allargato l’immaginario e l’attenzione verso certe tematiche. Nel movimento della Pantera, noi (autonomi) avemmo in realtà un sacco di problemi, e non solo a Torino. Le migliaia di giovani che incontravamo nelle università ci vedevano ancora come «qualcosa di vecchio o ideologico rispetto ai tempi», eravamo sostanzialmente sopportati e in parte temuti. Anche l’esclusione dei fascisti dalle assemblee era tutt’altro che scontata… Da lì ad essere dalla parte nostra ce n’è voluto ancora. L’ '89 è stato una spinta enorme nell’immaginario collettivo e la componente culturale e musicale di quel movimento, partito dalla resistenza del Leoncavallo, è stata centrale. Dopo, per un periodo, non c’è stato quasi più un corteo in cui non ci siano state le posse a cantare o i loro brani sparati dalle casse sopra i furgoni.


Luca: La forza del centro sociale è la riproducibilità, su diversa scala e adattandosi alla realtà locale, di quella esperienza. Era una cosa che si poteva riprodurre a Novara, ad Asti, ad Alessandria, a Pinerolo, con una certa forza. Non era più il micro gruppo iperidentitario.


Dario: In provincia è la morte civile se non ci sono i compagni del centro sociale che fanno qualcosa, dove si pratica ancora oggi il centrosocialismo reale, il disobbedientismo reale, come ad Alessandria. Con tutti i loro limiti nelle riproduzioni di micro-potere, nelle relazioni che riproducono, ma hanno un posto occupato che resta un riferimento rispetto al modo di stare insieme, di divertirsi, una casa delle donne in un posto fighissimo, che è ora un centro antiviolenza, si stanno facendo la battaglia ambientalista contro la Solvay[3], sabato erano in piazza con Bettega[4], erano in tremila, contro il deposito unico del nucleare, hanno Adl cobas con un migliaio di iscritti…


Luca: Nel deserto di oggi, centri sociali e sindacati di base spesso fanno da argine al nulla. Tornando all’articolo di Gigi, condividiamo che il punto più alto della parabola dei centri sociali è la vertenza Leoncavallo del 1994? Il Leo è al centro del dibattito in una situazione di crisi del sistema con Mani pulite, con la Lega di Formentini che ha preso Milano e il Leo finisce al centro di una complessa vicenda e dei media.

Dario: Non c’è una generazione del ’94. C’è la generazione di Genova. Possiamo discutere di cosa ci siamo portati a casa dopo, ma nel 2000-2001 i centri sociali sono usciti da un ambito ristretto. Certo non erano solo i centri sociali, c’erano i Social forum, ma i centri hanno saputo starci dentro. Certo non ci fosse stato il ’94, Genova senza centri sociali sarebbe stata diversa.


Guazzo: Però senza il ’94 non ci sarebbe stata la contestazione al G8, perché quello ha aperto degli spazi. Ha cambiato il paradigma, ha dato un immaginario da praticare.


Sollazzo: Faccio difficoltà a parlare di centri sociali in generale. Penso a Genova, ai Disobbedienti, allo sviluppo dell’Autonomia operaia (a Roma, dove ho abitato, l’Autonomia operaia era egemone in quegli anni, il centro sociale della zona nord che frequentavo era sostanzialmente un collettivo dell’Autonomia di cento persone, con militanti di tre generazioni diverse). Altra storia era quella torinese, che arrivava da vicende precedenti molto diverse: a Torino negli anni Settanta c’era stata molta lotta armata legata alle lotte della FIAT e il movimento del ’77 non ebbe mai quella caratteristica di massa (intendo nei numeri nei cortei) che ci fu in altre città, inoltre era successa la tragedia dell’Angelo Azzurro[5]…. Quando abbiamo iniziato noi a fare le cose negli anni Ottanta, Torino era una città veramente repressiva e chiusa. Abbiamo passato anni in una condizione di piccola minoranza, tentarono di affossarci con una caterva di denunce e di processi, nei fatti ci salvò l’amnistia dell’epoca. Io a diciotto anni avevo sette-otto denunce a carico tra occupazioni, botte con i fascisti, danneggiamenti, ecc., e anche molti altri compagni erano in questa situazione. Poi gradualmente siamo diventati centinaia e poi migliaia nei cortei. Per me la storia dei centri sociali è stata come una fisarmonica, non riesco a pensare a una curva con un punto più alto. Ci sono stati diversi momenti davvero alti ed entusiasmanti e altri bassissimi, in cui abbiamo dato il peggio di noi. A volte ci siamo fatti la guerra come in una faida. Poi ci sono state le battaglie contro gli accordi sindacali del ’92, gli assalti ai palchi e il sindacato che si difendeva dai lavoratori dietro gli scudi di plastica. È stato il momento in cui ci siamo proiettati in azioni che vedevano la partecipazione di lavoratori e gente comune che con noi prima non c’entrava niente. Siamo stati l’avanguardia di un’azione di massa che rompeva con il sindacato, in una modalità clamorosa e fruttuosa per il crescere dei Cobas. Si fa fatica a fare un’analisi complessiva perché sotto l’etichetta dei centri sociali c’era un po’ di tutto. Sono d’accordissimo che oggi non è una esperienza residuale, lo è solo per chi pensa che la propria organizzazione debba diventare centrale e direttiva per la rivoluzione. Comunque se guardi oggi i ragazzi nelle scuole e nelle università, usano le nostre vecchie modalità e parole d’ordine, anche se non lo sanno questi giovani sono conseguenti alla nostra storia, alle cose che abbiamo innescato, così come noi eravamo legati agli anni Settanta. Vorrei chiarire: ogni generazione opera una discontinuità con le vecchie logiche politiche, ma nei fatti è dentro un percorso di continuità nelle lotte. Una sorta di paradosso in cui ogni individuo è «nuovo» e legato al «vecchio» al tempo stesso. Per esempio, negli anni Ottanta noi eravamo autonomi, ma di fatto con l’Autonomia dei primi anni Settanta per molti versi centravamo poco e nulla.


Luca: C’è il rischio dello strabismo, di deformare il passato, dando peso soprattutto a quello che si è vissuto. Certo l’ '89 con la vicenda Leoncavallo, il 1994 con l’altra parte della questione Leo, Genova, sono stati tutti momenti importanti. L’ '89 porta la novità del centro sociale come forma della politica (che non era neanche così nuova come idea, per la vicenda dei circoli del proletariato giovanile del ’76 che il Leo ben incarna, con la tragedia di Fausto e Iaio, il Virus a Milano nell’82, o quello che chi andava a Berlino o a Zurigo raccontava di aver visto). Quella forma politica apriva a una novità sociale molto grossa, a un cambiamento nella metropoli. Una questione riguarda la gestione del centro sociale, il rapporto tra militanti (allora ci consideravamo tutti così) e i fruitori. Spesso il gruppo di gestione nascondeva un collettivo politico appena mascherato (ma altre volte è un’assemblea vera e propria). O ancora c’è un gruppo militante che si confronta e si mescola a iperproletari, e gruppi che nel tempo cambiano, evolvono, generazioni di occupanti che si incontrano e che si danno il cambio.

La forma centro sociale ha avuto certo una grande potenzialità in un momento preciso che è la crisi della Prima repubblica, con un movimento importante come quello della Pantera, con un sindacalismo di base che si sviluppa e un sindacato in difficoltà di rappresentanza, partiti storici della sinistra in dissoluzione. Per un attimo si è sperato che il luogo centro sociale, con la sua territorializzazione, potesse essere luogo d’incontro di queste opposizioni sociali. C’era la metafora della rete. Qual è il momento migliore di apertura? I social forum? Forse è quello il modello che non però è riuscito a funzionare, si è presto incartato. All’inizio sembrava prefigurare il soviet cittadino del XXI secolo appena iniziato, un luogo dove si incontravano militanti, ma pezzi del terzo settore, pezzi di sindacato, di società, studenti, associazioni, ma presto si è capito che così non era.

Sollazzo: Bisogna ricordare che i movimenti contro la guerra in Afghanistan e soprattutto in Iraq del 2002-3 hanno fatto dei numeri che nessuno ha mai fatto né prima né dopo. Con il corteo di Roma con due milioni e mezzo di persone, la seconda potenza mondiale[6].


Alex: Al Gabrio questa distinzione tra collettivo politico e assemblea non c’è mai stata. E forse è questo il motivo per cui il Gabrio è ancora in piedi con lo spirito che gli si riconosce, persone che sono qui non perché hanno un progetto politico ideologizzato, ma perché vogliono cominciare a vivere meglio subito. I centri sociali sono sicuramente esperienze differenziate e il quadro che ne fa Gigi, con tutto il bene che gli voglio, è parziale. Non tiene conto del fatto che molte delle persone che sono passate al Gabrio negli anni, che sono quelli che abbiamo incontrato dopo l’occupazione, che erano quelli delle case popolari, vedono l’esistenza del Gabrio come la svolta della loro vita. Se parli con Puma, con Rino[7], tutti ti dicono che la svolta della loro vita, che gli ha cambiato l’esistenza da una prospettiva inutile, di servitù, di isolamento, di atomismo, a diventare un collettivo di persone che si prendono la vita in mano, se la gestiscono, è stato l’arrivano di queste persone che arrivano da fuori.


Dario: Oggi è più difficile parlare con quella composizione sociale…


Sollazzo: Perché è cambiata.


Dario: …e a essere riferimento per quella composizione sociale, perché è cambiata al suo interno, perché è migrante. E ci sono altri luoghi che li aggregano. La composizione sociale che attraversa il Gabrio è molto diversa, universitaria e quant’altra.

Luca: I centri sociali nati negli anni Novanta come riterritorializzazione molto forte, che agisce in un quartiere o in una città, comunque in un luogo, in un territorio, scontano oggi l’egemonia dei social, quanto di più lontano ci sia dalla dimensione di territorializzazione. Lo sviluppo di comunità virtuali modifica enormemente il tipo di relazione, specialmente dopo la pandemia.


Alex: Dopo il 1994 sono nate un sacco di esperienze, ma nel 2002 c’è stato un cambio generazionale. Il militante del centro sociale ha normalmente un suo ciclo, quando non lavora, studia, arrivato a cinquant’anni anni è difficile che uno sia ancora in un centro sociale. Normalmente c’è un ciclo di sei-otto anni. Quindi c’è un cambio generazionale.


Dario: Questo differenzia il centro sociale dalle organizzazioni politiche più tradizionali. Anche perché il centro sociale ti chiede molto di più, è un luogo della tua messa in discussione come persona, metti in gioco nelle azioni che fai la tua libertà personale. Vero che i centri sociali che funzionano meglio esprimono delle continuità. A volte si creano dei mostri… Spesso avviene poi un parricidio.


Sollazzo: Qui ricadiamo però in tipiche dinamiche di gruppo.


Luca: Di sicuro a un certo punto è fisiologico un abbandono del centro sociale, propria di una realtà che era intrinsecamente giovanilistico. Quelli che sono usciti: cosa si sono portati a casa? Se valesse per tanti la risposta di Puma, il senso di una vita, sarebbe una grande narrazione. Siamo tutti consapevoli che non stiamo parlando di una intera generazione, questa generalizzazione non valeva neppure negli anni Settanta, figuriamoci negli anni Ottanta o Novanta, ma di alcune migliaia di persone in città come Torino, Milano, Roma, Napoli, ma come dicevamo anche Alessandria e Novara, che sono passate nei centri sociali.


Guazzo: La forza del centro sociale secondo me è la possibilità di vivere delle vite differenti. Nel ’94 avevo vent’anni. Faccio parte di una generazione che ha visto la caduta del Muro di Berlino e la fine di quella utopia del Novecento e che ha colto quindi la necessità di reinventarsi l’immaginario. Per me lo spazio che creava, di territorio pirata, estraterritoriale, che dava la possibilità di sperimentarsi in vari modi, dal punto di vista musicale, artistico, politico, è stata una grande palestra di formazione. Le persone che sono uscite da questo centro sociale sono un po’ ovunque e mantengono un rapporto, come al corteo del 25 aprile. Il lavoro di risignificazione del 25 aprile[8], della vicenda di Dante di Nanni, è stato uno dei successi del Gabrio. Una storia morta e imbalsamata che ha ripreso vita, quella è stata la sfida, in un momento in cui dall’altra parte si dava il via a un attacco frontale a quella storia. Dopo vent’anni portiamo in piazza duemila persone.


Luca: Questo percorso di ritualizzazione è assolutamente importante, è un mezzo che mantiene legame con una tradizione, con una memoria, con dei luoghi, gli restituisce significato, significato denso, conflittuale, per altri come per l’Askatasuna è stata la battaglia No Tav.


Sollazzo: Il Gabrio ha scelto in quegli anni, come altri centri sociali, di fare della battaglia antiproibizionista una delle sue battaglie centrali. Scelta anche molto criticata fuori dai nostri ambiti. Questo partiva dal fatto che eravamo giovani e le droghe ci piacevano e ci divertivamo. E anche di quel consumo non abbiamo lasciato che diventasse comportamento soggettivo né business, ma ne abbiamo fatto un discorso collettivo. Quella storia è stata interessantissima e ci ha permesso di aprire a mondi diversi a cui non saremmo mai arrivati. La prima volta che sono andato al Livello 57 a Bologna c’erano persone che tutte le organizzazioni culturali o le ASL di mezza Italia avrebbero dato la mano destra per avere tutte insieme a discutere. Tutte volontariamente a parlare e confrontarsi, da George Lapassade a Günter Amendt, Piero Fumarola, Renato Curcio e altri.


Alex: Al Gabrio l’antiproibizionismo è venuto dai ragazzi che abbiamo trovato lì. Il collettivo che ha occupato per metà se ne è andato quasi subito, ma c’è stata la capacità dell’altra metà per aprirsi di aprirsi anche politicamente al quartiere, non possiamo imporre una ideologia, un metodo, una struttura.


Sollazzo: Abbiamo accettato che questi comportamenti potessero diventare centrali.


Alex: E ci siamo formati anche noi, mi sono autoformato da universitario. C’è stata una capacità di aprirsi in maniera paritaria. Noi avevamo solo un’assemblea, non c’era dietro un collettivo politico.


Luca: Gli anni Ottanta per le metropoli del Nord in particolare, hanno rappresentato anni di dilagare dell’eroina, con uno stillicidio quotidiano di morti di overdose. Da quello che dite sarebbe la conquista di un terreno politico su un terreni che pochi anni prima aveva rappresentato un disastro per una generazione. Si impose allora una divisone tra droghe leggere e pesanti, che aveva la sua presa. Erano gli anni delle leggi proibizioniste Craxi Jervolino, della vicenda di Muccioli e della porcilaia di San Patrignano. Il discorso rispetto all’immaginario, citato da Guazzo e da Sollazzo, secondo me è davvero centrale. La musica delle posse, il ruolo degli Onda Rosse Posse poi Assalti frontali, e dei 99 Posse, il film di Salvatores Sud con la colonna sonora di Curre curre guagliò, e di tutto quel mondo. Quella fase poi si è chiusa. Tutta questa dimensione controculturale è stata in gran parte sussunta dal mercato. Quanti locali hanno la stessa ambientazione underground, con gli stessi murales, la stessa musica, gli alcolici a basso costo della movida. La musica oggi gira sui social.


Sollazzo: Oggi non ci sono giovani che fanno queste cose.


Alex: Faccio una riflessione sulla musica hip hop. Questa musica ha perso il contatto con i centri sociali con la generazione di Fibra, e lui lo dice pure. C’è stata un’incapacità dei centri sociali di accogliere un certo tipo di hip hop. Fibra e tutti quelli che sono venuti fuori dopo, persone che oggi dobbiamo rivalutare, se vediamo il successo che hanno ancora… non sono dei compagni ma portano dei valori di sinistra o comunque antifascisti. Però sono stati buttati fuori. Fibra lo dice, li vedevamo come commerciali, ed erano commerciali, non parlava di politica, parlava dei lumpen, di chi aveva una difficoltà di essere politicizzati in maniera ideologica e vedevano la loro esperienza raccontata meglio da certi rapper come Marracash che hanno successo. Marracash è uno che alle nuove generazioni di sinistra piace molto e ce lo siamo persi. Non era facile accogliere un tipo così nei centri sociali.


Sollazzo: Ci sono stati anche dieci anni di Gangsta rap…ci sono movimenti a livello culturale che hanno spostato molto le cose.


Alex: C’è stata una frattura per l’incapacità reciproca di trovare un punto di incontro.


Dario: Io ho vissuto quel periodo nel centro, ed era corretto creare quella discontinuità in quel momento. Non siamo stati capaci di supportare lo sviluppo di qualcosa di alternativo a questo. Il capitale ci sussume, è vero, noi non abbiamo fatto altro che anticipare i tempi, di cose che in altri luoghi si erano già date, abbiamo cavalcato il mondo delle posse perché siamo stati i primi a aprire a quel mondo lì. Funzionava negli Stati Uniti, funzionava anche da noi, abbiamo anticipato i tempi. Questa è la sfida che i centri sociali devono avere come avanguardia. Non siamo riusciti a fare un lavoro di produzione culturale e artistica.


Alex: Ma un centro sociale non può costruire tutto, ma deve accogliere quello che viene, questa è la capacità.


Sollazzo: C’è stata anche una rivoluzione tecnologica!


Dario: È vero, oggi chiunque scende in piazza, anche con numeri ristretti e ha un articolo di giornale. A Parma sabato sera c’era una Street parade con migliaia di persone, ci sono capitato per caso, c’erano dieci o quindici carri, compreso quello del Livello, ma non è che questo ha avuto una risonanza. Il problema del centro sociale non può essere visto al di fuori della povertà che oggi la sinistra esprime globalmente. Il centro sociale non può assolvere a tutte le funzioni possibili. Noi riuscivamo perché avevamo una cerniera che era Rifondazione comunista, una storia di persone che arrivavano dal Partito comunista e che comunque avevano una certa sensibilità e occupavano posti dentro i giornali, che davano spazio a quello che le posizioni dei centri sociali esprimevano. Oggi il centro sociale è l’ultima cosa che esiste di alternativo a tutto quello che è ormai appiattito. Puoi dare la colpa al centro sociale? Non si può vedere il centro sociale al di fuori dei mutamenti che si sono dati nella storia, nella società.


Luca: Gigi scrive che, in termini materialistici, il centro sociale risponde a un cambiamento del proletariato giovanile che diventa precario, è attraversato dalla crisi, che non si riconosce più in una dimensione politica, non viene intercettato neanche dal sindacato, alle volte i suoi comportamenti, le sue scelte musicali possono essere intercettati invece dai centri sociali. Poi i quartieri sono cambiati. L’immigrazione, di prima e di seconda generazione, la tecnologia, il ruolo dei social, cambiano i valori, attorno vediamo ricostruirsi identità religiose, nazionalistiche, razziste. Ci sono risposte identitarie che un centro sociale non riesce a esprimere e al limite contrasta (ad esempio il fumetto di Zero Calcare su Strappare lungo i bordi). È vero che i centri sociali vivono all’interno di una realtà, ma questa realtà è anche fatta di ineguaglianze spaventose, di metà persone, le più povere, che non vanno neanche più a votare, una delegittimazione del quadro politico pazzesca, un conflitto sociale che esplode in Francia, Inghilterra, Stati Uniti e nei paesi come il Bangladesh. L’anomalia è che qualcosa o qualcuno dovrebbe intercettare questo malessere, non solo la destra sovranista. L’abolizione del reddito di cittadinanza non ha avuto nessuna risposta sociale. Eppure era importante. Così la battaglia sul salario minimo. Era una battaglia che forse i centri sociali potevano interpretare.


Dario: Non c’era nessuna cerniera… Il posizionamento dei centri sociali nasce quando c’era una sinistra istituzionale e si poteva vivere anche un po’ nella sua ombra. Quando quella scompare, non ti assumi la responsabilità di occupare quel posto. Ti poni come duro e pure e dell’istituzione non te ne frega niente. Secondo me è stato un errore. Non c’è stato un approccio organico al tema della rappresentanza. Ricordo un tentativo con i Passamontagna arcobaleno alle primarie del Pd. Poi è finita la sinistra parlamentare. Sapevamo che c’erano dei compagni dentro i partiti che davano una sponda. Al Gabrio c’è stato il tentativo di mantenere i rapporti con i 5stelle.


Luca: Infatti tentativi ne sono stati fatti, da Beppe Caccia nella giunta Cacciari a Nunzio D’Erme ai municipi romani, a Paolo Cento e i verdi, fino ai rapporti con De Magistris. Anche a Torino un assessore come Stefano Alberione[9] è costretto a dimettersi per aver partecipato agli scontri il Primo Maggio con l’Askatasuna…


Sollazzo: Alla fine degli anni Ottanta i centri sociali erano l’unica realtà culturale, politica, l’unica possibilità che tu potevi avere in una città. Fuori da quello c’era la roba (l’eroina) e la strada che era piena di zombi e cadaveri. Negli anni Novanta poi avevamo una centralità, tanta gente con un certo opportunismo ha capito che facevamo cose che potevano essere copiate, estrapolate dalla politica e l’ha fatto, ha aperto locali con successo, questa cosa è dilagata. E alla fine degli anni Novanta, quando quella centralità è stata persa e quando bisognava trovare una nuova modalità, è esplosa la tecnologia, sono esplose le chat. La gente iniziò a trovarsi in community virtuali e non ha ebbe più bisogno  di comunità reali e questa fu una sottrazione enorme di una potenzialità di malessere che prima poteva essere espresso nella politica. Questo assorbì molto di più di quanto i centri sociali potevano complessivamente gestire e travolse tutti. Ha cambiato tutti, i partiti politici, i centri sociali, le organizzazioni strutturate da secoli. È completamente cambiato tutto. Le destre hanno utilizzato con straordinario successo questo nuovo modo di aggregarsi virtualmente, questo modo di essere da soli a casa convinti di essere all’interno di un movimento.


Luca: Però la destra oggi riesce a fare le milizie, ad assaltare Capitol Hill e a Roma la sede della Cgil… Come mai però i centri sociali, che con Decoder e Ecn avevano capito in tempo questo cambiamento in arrivo, non sono riusciti a attraversarlo come ci è riuscita la destra? Eppure c’erano il Cyberpunk, la figura dell’hacker…


Sollazzo: In realtà noi dovevamo essere alfabetizzati su quel piano, a parte singoli individui, anche quello di noi che ne sapeva di più, non ne sapeva in realtà nulla. C’era chi era già proiettato nel mondo che sarebbe arrivato, ma la gran parte di noi no. Siamo stati travolti. Ci ponevamo ancora il problema se Ecn dovesse essere controllato politicamente o avere una sua autonomia…


Luca: Poi c’è il tema della difficoltà di costruire reti stabili di alleanze tra centri sociali, di coordinamenti per potenziare le iniziative culturali, artistiche e soprattutto politiche. Da anni mi pare, da dopo Genova direi, quella prospettiva è quasi sparita dall’orizzonte.


Guazzo: Sì, ma attenzione, il web oggi è diventato una cosa molto densa. Oggi ci sono canali sicuri, che vengono creati anche qua. Qui sopra c’è uno snodo di Hack lab, partecipa al progetto di Mastodon[10] per creare un web protetto, che non profila, parlo del progetto di Autistici.


Luca: Ma visto da fuori questo, nella società della comunicazione, esprime più una debolezza, la paura di essere ascoltati, una logica dell’immaginario cyberpunk destinato alla minorità, se non si impone a un livello più alto, al tempo di Telegram e di Musk. Siamo una tribù con i nostri segnali di fumo e la polizia non li capisce… un po’ poco mentre girano miliardi di bit al nanosecondo…


Guazzo: Ma se non ti dai quegli spazi, non puoi sperimentare. È una dimensione in fieri. Se in questi anni siamo stati sussunti dal punto di vista artistico, politico, anche nei linguaggi, nelle mode, ha avuto una influenza notevole e oggi resta qui il fatto che si continua a criticare i modelli dominanti. Ci si rende conto che c’è una storia. Quando si parla di beni comuni, sono parole d’ordine di cui si parlava qui, quindici venti anni fa quando non ne parlava nessuno. Abbiamo assistito su questo tema al fallimento dell’occupazione della Cavallerizza[11], dal tema dei beni comuni alla privatizzazione. Non è che le persone non si accorgano di questo aspetto: la cultura che abbiamo prodotto è stata risucchiata. Se sei di nicchia è anche per ricostruire quegli spazi.


Alex: La rete ha un impatto molto diversificato sulle diverse categorie sociali. Ad esempio a chattare non sono i Puma, i Sancho, che però postano le foto su Instagram, che è quell’altro territorio che c’è e che hanno fatto loro. E questa possibilità di avere tribù sulla rete, ha fatto sì che poi dal vivo non ci si incontra più. E alla fine non ci si conosce più. Tra persone che hanno un’alta scolarità e persone che fanno lavori normali, non ci si incontra più, c’è uno scollamento facilitato dalla rete e che deve essere colmato. E poi però non bisogna esagerare, anche i ragazzini, vedo mio figlio alle medie, passano molto tempo sul cellulare ma si vedono, giocano, vanno in bici. Al liceo si tende poi a essere molto più settorializzato, sei un giro molto più omologo, gli altri vanno al professionale, si mollano e non si ripigliano più. C’è una incomprensione totale tra le persone con un certo reddito e un certo livello sociale e gli altri, non li conoscono. Ogni tanto chiedo: «Ma voi ce l’avete un amico che ha la licenza media?». Un amico. Ti guardano…«Ma non c’è la scuola dell’obbligo?». Ma il 52% degli italiani ha come titolo di studio la licenza media.


Luca: Rispetto all’idea che la storia dei centri sociali possa essere un’occasione mancata, cosa ne pensiamo? Nel 1995 il Consorzio Aaster di Bonomi propone un’ipotesi di Convegno ad Arezzo[12] sull’impresa sociale e centri sociali che non si fece per i contrasti che creò. Tra essere sussunti dal mercato e il marginalismo, davvero non c’era un sentiero diverso da percorrere?


Dario: A me viene in mente come si organizzano i curdi. Secondo me il punto è sulle forme dell’organizzazione politica che ti devi dare. Il centro sociale è il punto di partenza, non il punto di arrivo, per me. E non può vivere da solo. Può farlo, ma non assume più una capacità di trasformazione. In primo luogo dovrebbero parlarsi, avere la capacità di creare una narrazione del mondo. Noi non costruiamo immaginari riproducibili o che riusciamo a raccontare fuori da qua, se non con la nostra presenza fisica nelle cose che facciamo, che non è poco. Ma non siamo consapevoli di produrre immaginari. Non produciamo un discorso coerente. È indubbio che abbiamo perso delle opportunità, ma avremmo dovuto fare delle scelte diverse. Il mito che l’assemblea è tutto e che il collettivo è l’inizio e la fine, dove decidi le strategie e le metti in pratica, non è così furbo. Alcuni compagni con più esperienza avrebbero dovuto fare un ragionamento diverso, dove il centro sociale diventava uno dei luoghi dell’intervento sociale, ma dietro doveva esserci un collettivo politico che si dava l’obiettivo di fare l’intervento dentro il centro sociale, ma di darsi anche altre forme dell’organizzazione. È un limite secondo me partecipare individualmente all’esperienza del sindacalismo di base, ci si deve intervenire come organizzazione politica. Non ci siamo mai posti il problema di occupare le praterie della rappresentanza politica che sono rimaste deserte. Se le sono prese i 5 Stelle. Il professionismo è un tema ambivalente. Io penso ai curdi.


Sollazzo: Credo che a questo tavolo nessuno pensi all’esperienza sociale come a una occasione mancata. I centri sociali sono quello che sono. Anche questa idea di concepire la storia come punti di arrivo, evoluzioni, trasformazioni che poi rimangono nei secoli, è qualcosa di sepolto con il Novecento e prima ci facciamo i conti e meglio è. Noi siamo stati fottuti dalle idee. Se guardi ai centri sociali, l’esito politico è solo uno degli aspetti dei centri sociali e non è possibile ridurre la loro storia solo a questo. I centri sociali hanno inondato la società probabilmente molto di più di quella che è la nostra percezione. Credo che tanta gente che oggi fa politica, se non ci fossimo stati noi, non la farebbe. Tanti linguaggi non ci sarebbero. Lo stesso appoggio alla Palestina non avrebbe questa forma se non ci fossero alle spalle trent’anni di appoggio ai palestinesi. Secondo me è un aspetto vincente ma fluido, liquido come direbbe Bauman, che non mi farebbe mai pensare a una occasione mancata. E personalmente non avrei potuto avere una migliore palestra di vita per capire qualcosa di me stesso e del mondo.


Luca: L’occasione mancata è in particolare sulla questione della rappresentanza. Oggi il 50% delle persone non va a votare, rifiuta la rappresentanza per come si dà, quelli che non votano sono gli iperproletari che avrebbero potuto essere rappresentati da realtà diverse, come ad esempio i centri sociali, nelle forme che potevano dispiegarsi.


Sollazzo: Ma non eravamo la maggioranza…


Dario: Se questa è l’occasione per dircelo, ben venga. Poi la storia non è finita.


Luca: Residualità non è un giudizio morale, vuol dire semplicemente perdita di potenzialità. Quello introdotto da Dario sulla professionalizzazione, era un tema importante introdotto da Dario. D’altra parte a metà degli anni Novanta il dibattito sul Convegno di Arezzo è stato proprio quello. Terreno scivoloso, c’era l’esempio del Terzo settore. Perché quell’area dei centri sociali non è riuscita a trovare delle forme anche di lavoro che sapessero tenere collegato se non al proprio interno quelle figure che avevano attraversato i centri sociali. Una Compagnia delle opere dei centri sociali… Perché è vero che se tu insegni yoga, lui fa l’avvocato e lui insegna all’università è una forma di disseminazione, ma forse era utile anche riuscire a costruire percorsi in grado di tenere più collegate le figure sociali alla realtà dei centri, offrendo anche occasione di reddito, per trattenere quelle energie e arricchire così i centri, anziché chiedere solo investimento di tempo, passione e energia ai singoli? In alcuni territori si è cercato di farlo, penso al Veneto o a Milano. Almeno si è provato a misurarsi anche su quel piano. Prevale a un certo punto che ogni tentativo di misurarsi con la realtà produttiva, con la professionalizzazione, era un cedimento al mercato. Come se poi ognuno di noi, in quanto iperproletario, non dovesse continuamente vendere la propria forza lavoro e non dovesse acquistare merci… Non era una trappola pensare che l’unico rapporto con il centro dovesse essere quello della gratuità?


Guazzo: È vero anche che tutti quelli che hanno fatto delle cooperative sono diventati delle merde.


Sollazzo: Partendo dal mio lavoro, se io oggi avessi l’opportunità di fare quel che faccio in un centro sociale lo farei molto volentieri! Tutta una serie di persone che come me, non vorrebbero sganciarsi completamente dalle cose, ma che per esigenze materiali di vita devono lavorare, avrebbero potuto relazionarsi in modo diverso con i loro vecchi compagni dei Csoa. Invece i centri si dimostrano una realtà giovanilistica, con una mentalità da giovani che si possono «permettere» un certo stile di vita. Credo che ci siano delle forme di reddito, di riconoscimento, delle forme di lavoro che dovevano passare attraverso i centri sociali.


Dario: Però una delle forme di finanziamento delle organizzazioni politiche è buttare delle persone nelle istituzioni e farsi pagare dallo stato. È diverso. Professionismo vuol dire che devi trovare forme di finanziamento. Io non sono sicuro che il fine del centro sociale sia fare delle cooperative, ma non sono neanche sicuro che si debba impedire. D’altra parte paghi chi fai suonare. Se fai un’altra cosa non lo paghi. Nel mercatino di là ci sono persone che ci guadagnano.


Luca: Non solo, i centri sociali sono stati una macchina per finanziare la politica, quest’area non ha più dovuto finanziarsi illegalmente grazie ai soldi che entravano nei centri sociali. Qui si pone anche la questione dell’elusione della dimensione fiscale dei centri (nel dibattito di Arezzo, provocatoriamente, si faceva notare che in questo i centri sociali erano simili ai lavoratori autonomi…). Questo non è mai stato valutato abbastanza.


Guazzo: Qui si paga tutto e lo rivendichiamo. Anche in Circoscrizione ogni volta che qualcuno di destra tira fuori ‘sto discorso qui. Rivendichiamo anche il fatto che per rispetto del quartiere noi facciamo meno di venti concerti all’anno come scelte. Ne facciamo diciotto. E ci finanziamo anche con altre forme. Con il mercatino, le cene. Negli anni Novanta si facevano serate tutte le sere. Qui ora si pongono questo problema e non lo fanno più. D’altra parte sai che il mercato attorno a te ti offre così tante cose che questo non ha più senso. Oggi è normale che ti arrivi qualcuno nel centro sociale che vuole pagarti con Satispay o con il bancomat anche alla porta. Non abbiamo il bancomat o lo scontrino perché siamo fuori da quel discorso di mercato.


Sollazzo: Non sei fuori dal mercato, prendi i soldi e li utilizzi, sei solo fuori dal discorso dalle regole del mercato, perché hai ancora un contropotere tale che ti permette di farlo. È anche vero che in una società capitalistica, fare l’anticapitalista avendo tutti Satispay, il bancomat e i soldi in tasca, non è difficile, è impossibile. Il discorso iniziale dei centri sociali di essere fuori dal mercato nasceva in una società molto diversa da quella di oggi, meno complessa, dove ad esempio, a livello musicale c’erano poche grandi etichette, l’autoproduzione era già di per se un atto insurrezionale. Oggi invece l’autoproduzione sta esattamente sullo stesso piano della produzione. Oggi chiunque con uno strumento tecnologico può autoprodursi anche a livelli clamorosi e diventare un miliardario. L’analisi del cambiamento della società a fianco di quella che è stata la nostra storia, ci può dare un senso anche delle cose che sono andate bene e di quelle che sono andate male. Ma oltre a noi sono successi cambiamenti che sono stati uragani, adesso stiamo parlando di intelligenza artificiale e fino a due anni fa era un film di Spielberg! Stiamo andando avanti a una velocità incredibile, stiamo cercando di analizzare contraddizioni che hanno vent’anni e stiamo andando incontro a nuove contraddizioni che sono infinitamente più complesse. Il lavoro salariato sarà completamente modificato nel giro di dieci anni in una maniera che non riusciamo neanche a immaginare.


Luca: In questi anni nei nostri circuiti sono circolate tante idee. Il reddito di cittadinanza è stato teorizzato e proposto da «nostri economisti come Marazzi e Fumagalli, in piena crisi si era diffusa l’idea delle monete locali, ad esempio. Era forse possibile praticare con maggiore decisione percorsi diversi. C’è stata una sorta di fascinazione per un momento per le monete digitali, il sogno di produrre ricchezza sociale uscendo dai limiti del capitale, per una redistribuzione diversa e più equa della ricchezza sociale o della ricchezza tout court. C’era tanta intelligenza sociale critica in questo circuito. Si poteva volare più alto, forse. È stato un limite di tutti noi, sapendo che la fatica di chi ha retto per anni i centri sociali è stata enorme, e merita tutto il nostro rispetto. Se a livello soggettivo questa storia ci ha dato molto, ma ad altri livelli ha consolidato meno.


Sollazzo: Poteva essere importante che i nostri saperi e le nostre attività anche professionali potessero trovare spazio qui dentro, così come è stato importante che la nostra storia si disseminasse al di fuori dei centri.


Dario: Manca tanto la capacità di narrare quello che sta succedendo. È quello che fa la politica: è la capacità di costruire una narrazione condivisa. In questo momento ci mancano gli intellettuali. Possiamo chiederci perché quelli che sono passati di qua e poi sono stati docenti universitari, perché non si sentono più parte di questo movimento, come faceva Toni Negri ad esempio? Manca di avere qualcuno che dia gli strumenti per parlare…


Sollazzo: C’è ancora la logica che sei un infame se vai a lavorare alla Cgil… dai! Ci sono relazioni sociali tra compagni terribili, a volte. Questo ci ha annientato tanto quanto la repressione o i cambiamenti della società. Sono convinto dell’importanza di un percorso che non è politico, che è di analisi dell’umano, delle relazioni sociali, del nostro essere anche persone «nuove» in una società che cerchiamo di contaminare in modo positivo. Ci sono stati episodi anche pesanti nei confronti di compagni, perché qualcuno decideva che aveva la linea rivoluzionaria giusta e semplicemente cercava di imporla. Noi come Gabrio, non eravamo fuori da queste dinamiche, ne siamo stati meno contaminati perché eravamo più aperti, per nostra fortuna. Io sono stato invece vittima e carnefice nella mia lunga storia di attivista, perché avevo ereditato quel modo di fare dai vecchi compagni degli anni Settanta che avevo cercato di conoscere quando ero più giovane.


Dario: Per anni abbiamo avuto l’immaginario degli anni Settanta.


Sollazzo: Lo abbiamo scimmiottato.


Dario: Quando poi in piazza vuoi fare gli scontri, e comunque gli scontri sono qualcosa su cui dobbiamo fare i conti se vogliamo raccontare la storia dei centri sociali, essere pronti a fare gli scontri con la polizia significa entrare dentro un mood in cui lo scontro è virtù, anche tra realtà affini.


Luca: Però anche su quello si è lavorato. La fase delle tute bianche (da via Corelli fino a prima di Genova) è stata una fase di simbolizzazione dello scontro, si è lavorato per evitare che la gente si facesse davvero male, che ne uscisse male. Con gli scolapasta in testa, con i gommoni o gli scudi di plastica o i caschi. Si passava dalla violenza alla forza, anche nel linguaggio. Era un’operazione importante, virtuosa. Non poteva durare in eterno, è stato sottoposto a critica. A Genova non è stato più così. Carlo Giuliani ci ha perso la vita.


Alex: Faccio un passo indietro. Il punto che bisogna capire del centro sociale è che è un luogo fisico. È dove è il centro sociale. Principalmente è questo. Se non ci vai, non sei del centro sociale. Io adesso vengo al centro sociale, mi bevo le birre, conosco le persone, ma non direi mai di parlare di politica se prima non avessi spazzato il cortile in maniera regolare, tutte le settimane, o aver fatto il mio turno al bar. Questo è il centro sociale, un luogo fisico, fatto di persone che si organizzano un luogo, non si può prescindere da quello. Quindi tutte le potenzialità che puoi avere, le fai nel contesto del centro sociale finché continui ad andare nel centro sociale. Quando la vita ti porta da un’altra parte e te ne vai fuori, sei andato fuori dal centro sociale. Il centro sociale, essendo un luogo fisico, ha delle limitazioni forti. Io non sono mai andato via dal Gabrio, ma mi rendo conto che oggi la mia parola vale meno.


Sollazzo: Ma che la limitazione spaziale diventi anche una limitazione relazione, questo rappresenta un limite.


Alex: Certo! Ma è un limite su cui proviamo a praticare forme di allargamento, ibride.


Dario: Posso parlare della mia solitudine quando sono andato a vivere ad Alessandria? In sette anni nessuno del Gabrio è venuto a trovare nemmeno una volta. Io in ‘sto posto ci avevo messo la vita.


Luca: La mia spiegazione è che noi ci siamo incontrati per «fare» delle cose, forse nei centri sociali meno che nelle organizzazioni o nei collettivi, ma comunque era un po’ così. Nel qui e ora, sul fare. Nel momento in cui facevamo una cosa, avremmo rischiato la galera per l’altro. Ma se si scioglie un collettivo, da quel giorno puoi non frequentarti più. Semplicemente. Un limite nei rapporti umani, certo. Anche se poi quella modalità si può riattivare a distanza anche di anni con le persone con cui hai condiviso uno stile di militanza. Noi ci trovavamo sul fare, che è una grande forza e un grande limite.


Dario: Non si è capaci di costruire relazioni con legami più o meno forti. Ma se vuoi fare una organizzazione che va oltre il giro ristretto dei tuoi contatti, che è l’obiettivo che devi avere se vuoi cambiare la realtà, non puoi pensare di farlo solo con le persone che vedi tutti i giorni. Devi pensare a forme di relazione e partecipazione anche più flessibili, meno stretto e tenerti dentro tutti. E sei tu come organizzazione politica che devi porti questo problema.


Alex: Dopo di che il centro sociale non può essere il bancomat della militanza…


Sollazzo: Quando esci dalla politica militante c’è una dimensione umana nuova nella quale poi ti trovi da solo e che è molto pesante. Quando ero nel centro sociale anche tutta una serie di cose pratiche erano semplificate, se dovevo fare un trasloco in un momento c’era un furgone e le persone che mi aiutavano a farlo. Dopo invece sei solo… Come mai non ci siamo sentiti per tanti anni? Un sacco di volte mi è venuto in mente di sentirvi. C’è anche questo elemento: quando passi da una situazione di iper-collettivismo a una condizione in cui sei solo, fai anche fatica a riprendere dei fili di relazione. Andrea mi ha scritto una settimana fa per invitarmi a  questa serata. Credimi, con lo yoga sono riuscito a prendere una distanza dal coinvolgimento che è clamorosa. Eppure venire qui oggi mi ha tirato fuori delle emozioni incredibili, perché questa è una parte integrante della mia vita. Continua a esserlo. Così per tante persone che potenzialmente potrebbero essere parte di una rete. Credo che se ci mettessimo a raccontare uscirebbero delle cose davvero interessanti. Quando prima dicevo che mi piacerebbe fare parte del mio lavoro con lo yoga al Gabrio, non parlo tanto della dimensione economica, io sto parlando del fatto che il percorso che ho incontrato io, che chiamo yoga ma che è più ampio, filosofico, spirituale, e che mi ha permesso di rileggere la mia esperienza senza tradire nulla, penso che sarebbe altrettanto interessante per la politica degli attivisti, che da questo punto di vista sono a rischio di fare gli stessi identici errori cose che abbiamo fatto noi, come farsi del male tra compagni solo perché un giorno uno scopre di avere un’idea leggermente diversa da quella di un altro. Già Renato Curcio e Rostagno a Trento avevano detto che l’Assemblea è un luogo per dittatori, uscì il manifesto dell’Università negativa, quell’analisi che avrebbe dovuto essere il prodromo dell’analisi interna delle assemblee dei compagni, ma è finita nel dimenticatoio. In fondo è il tema del potere, se vuoi. Come si fa a limitare la storia dei centri sociali ad avvenimenti grandi, che pure hanno visto delle presenze di massa, ma che sono giornate, alcuni mesi, su anni di sperimentazioni, di cose, di momenti in cui abbiamo fatto la guerra per riuscire a non far passare una volante davanti al centro, che non fa storia… Noi facevamo delle cose.


Luca: Ma questo vale per tutti. Mi ricordo Prospero Gallinari che diceva delle Br che erano processate per le azioni, per i morti, appunto per avvenimenti, ma che quell’esperienza era enormemente più vasta e ricca, non riconducibile solo agli omicidi o ai ferimenti. I momenti grandi ci sono e contano.


Sollazzo: Vero, ma credo che le cose vadano affrontate con una complessità e un allargamento che non sia solo il solito riduzionismo politico, che cerchi di ottenere una storia raccontabile dei centri sociali, come quelle delle organizzazioni, che è la cosa meno interessante che si possa fare.



Note

[2] Manifestazione dei quadri Fiat che chiude la vertenza Fiat dell’Ottanta con una pesantissima sconfitta sindacale.

[3] Protesta ambientalista contro la produzione dei C604 nello stabilimento di Spinetta Marengo.

[4] Protesta contro il deposito nazionale di scorie radioattivo nell’alessandrino dell’aprile 2024, a cui ha partecipato l’ex giocatore della Juventus, Roberto Bettega.

[5] Il 1° ottobre 1977 a Torino, al termine di un corteo per protestare contro l’uccisione da parte dei fascisti a Roma di Walter Rossi, fu assaltato a colpi di molotov il bar Angelo Azzurro in via Po, una via centrale di Torino. Lo studente universitario Roberto Crescenzio, presente nel bar, rimase ustionato e morì dopo due giorni di agonia. Questo avvenimento aprì un ampio dibattito nel Movimento sull’uso della violenza.

[6] Il 15 febbraio 2003 un immenso corteo attraversò Roma contro la guerra in Iraq. In quella stessa data, milioni di persone sfilarono nelle città di tutto il mondo, in una giornata mondiale contro la guerra, decisa al Social Forum di Firenze nel novembre 2002. Il NYT definì quel movimento la «seconda potenza mondiale».

[7] Militanti storici del Gabrio, che provenivano dalle case popolari di Borgo San Paolo, il quartiere del Gabrio.

[8] Il corteo del 25 aprile promosso ogni anno dal Gabrio è diventato un luogo di incontro delle generazioni militanti, dei simpatizzanti che hanno attraversato questo luogo. Ogni 25 aprile si radunano nel quartiere Borgo San Paolo due-tremila persone e sfilano fino alla casa del partigiano Dante Di Nanni, ucciso dai fascisti nel 1944. Sulla vicenda di Di Nanni (a cui è intitolata la Palestra popolare del Gabrio) si veda Palestra popolare Dante Di Nanni, Gira per la città Dante Di Nanni, «Machina», 3 marzo 2022.

[9] Esponente di Rifondazione comunista, Assessore al Bilancio nella giunta comunale Castellani, costretto a dimettersi per aver difeso lo spezzone dei centri sociali dall’intervento delle forze dell’ordine il 1° maggio del 1999.

[10] Mastodon, ideata nel 2016, è la più grande rete di micro blogging open source, libera e decentralizzata.

[12] P. Moroni, D. Farina, P. Tripodi, a cura di, Centri socialiche impresa! Oltre il ghetto: un dibattito cruciale, Castelvecchi, Roma 1995.


***


Luca Perrone collabora con la rivista «Machina» di DeriveApprodi, per la quale, con M. Pentenero, ha curato il testo La riproduzione del futuro. Le ipotesi di Romano Alquati per una trasformazione radicale. Ha pubblicato Banditi nelle Valli valdesi. Storie del XVII secolo (Claudiana, 2021) e, con Enrico Lanza, Abbiamo fatto un sindacato. Enrico Lanza: una vita dalla parte dei lavoratori (DeriveApprodi, 2022).




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