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Frammenti di vita di un comunista






L’autobiografia che segue è uno straordinario frammento di memoria su una militanza comunista esercitata quotidianamente negli anni Settanta all’interno dell’esperienza dei Collettivi politici veneti. Luciano Mioni, nato a Padova nel 1952, ha militato tra i giovani di Potere operaio fino al suo scioglimento. È stato tra i fondatori dei Collettivi politici padovani per il potere operaio, facendo parte della prima Commissione politica, organo costitutivo e dirigente dell’organizzazione. Successivamente sarà tra i promotori dei Collettivi politici veneti per il potere operaio.

In seguito all’inchiesta «7 aprile» viene arrestato e condannato a 6 anni di reclusione per costituzione di banda armata. Scontata la pena continua la propria militanza negli organismi autonomi organizzati del Movimento comunista veneto.

Sui Collettivi politici veneti si vedano i due libri recentemente editi da DeriveApprodi: Donato Tagliapietra, Gli autonomi. Vol. V. L’Autonomia operaia vicentina. Dalla rivolta di Valdagno alla repressione di Thiene e Piero e Giacomo Despali, Gli autonomi. Vol. VI, Storia dei collettivi politici veneti per il potere operaio (a cura di Mimmo Sersante).


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La storia dei Collettivi politici veneti per il Potere operaio (CPV) è certamente quella ricostruita da Giacomo, Piero e Donato nei due libri editi da DeriveApprodi e il lettore non ha difficoltà a riconoscervi – ora apertamente, ora sottotraccia – la mia storia politica lungo quel decennio. I libri (Storia dei Collettivi politici veneti per il Potere operaio e L’Autonomia operaia vicentina) spiegano bene quali erano i contenuti politici e gli snodi attorno a cui tra il ’73 e il ’74, a partire cioè dallo spartiacque della fine di Potere operaio, si è creata questa esperienza organizzativa; preferirei allora parlare di quegli episodi vissuti in prima persona che considero importanti perché hanno prodotto a suo tempo ragionamenti – pensiero, direbbe qualcuno – e svolte. Altrimenti, di quali res gestae parliamo?

Dopo il convegno di Rosolina che sancisce la fine di Potere operaio come gruppo extraparlamentare con una presenza e rilevanza nazionale, noi giovani militanti padovani sentiamo l’urgenza di affrontare in proprio il nodo dell’organizzazione politica da costruire in una ottica rivoluzionaria. Questo percorso di riflessione avviene nel contesto politico generale degli anni a cavallo tra il ’73 e il ’74 caratterizzati sul piano internazionale da una grande ripresa dell’iniziativa capitalista a guida statunitense (vedi il golpe fascista in Cile) mentre su quello nazionale assistiamo al tragico ripetersi di episodi stragisti realizzati dai «nostri» servizi segreti (strage alla questura di Milano, strage di Peteano, di Brescia) e a progetti di colpo di stato (golpe Borghese nel ’70 , golpe bianco di E. Sogno nel ’74); sul piano economico la crisi del petrolio viene lanciata in chiave antioperaia con un aumento generalizzato dei prezzi dei beni di largo consumo oltre ovviamente di benzina e trasporti. È in questa situazione che alcuni di noi ex medi del Comitato interistituto cominciarono a riflettere sul problema dell’organizzazione rivoluzionaria e su quali fossero gli strumenti di cui dotarsi per concretizzare un processo rivoluzionario. Il problema della violenza di massa, della lotta armata per la rivoluzione anticapitalista, di quale fosse la forma opportuna per gli anni a venire, attraversava tutte le organizzazioni extraparlamentari dell’epoca, i movimenti di massa e aveva tante esemplificazioni teorico- pratiche a livello internazionale e nazionale (la guerriglia urbana dei Tupamaros in Uruguay, la resistenza armata del Mir cileno, la guerra di popolo dei vietnamiti, le prime azioni di propaganda armata delle Br, la Raf in Germania, l’Eta in Spagna, l’Ira in Irlanda, il Black Panther Party for Self-Defencee e il Weather underground organization negli Stati Uniti). Nella sostanza il problema era all’ordine del giorno, storicamente e politicamente maturo e non eludibile. Così in forma autonoma cominciammo a pensare quale fosse un modello praticabile nella nostra realtà sociale.

Abbiamo dato un significato al concetto di uso della forza partendo dall’autodifesa; è da qui che siamo arrivati a capire come indirizzare/governare la violenza di massa in situazioni di piazza e che forza e strumenti usare per conseguire gli obiettivi evidenziati in una campagna politica. Pian piano nella pratica abbiamo cominciato a dotarci di strumenti minimali che ne facilitassero esemplificazione e verifica di tenuta rispetto ai movimenti sociali, al controllo e alla repressione delle forze di polizia dotandoci ad esempio di apparecchiature fotografiche e di compagni competenti in materia per costruire un archivio sui fascisti padovani che nella quotidianità attaccavano con uno squadrismo violento e talvolta armato situazioni di lotta nelle scuole e all’università. Il prodotto di tutto questo lavorio è stata la pubblicazione da parte nostra del Piccolo manuale di guerriglia urbana del marxista rivoluzionario brasiliano Carlos Marighella, che abbiamo divulgato con il nome di «documento blu», dal colore della copertina scelta per l’occasione. Così con i vari Carlo, Piero, Vincenzo, Rudy, Susy, Beppe e qualche altro si realizzerà una piccola comunità di discussione e sperimentazione del percorso politico complessivo che poi nei Collettivi troverà la sua maturità. Non tutti i compagni di questa esperienza continueranno un percorso di militanza politica complessiva, come si diceva allora. Comunque fu un accumulo di esperienza che funzionando per tentativi sul campo fece imparare dagli errori.

Penso alle giornate di mobilitazione antifascista del ’75 contro Covelli e Almirante. Bene, perché per me sono importanti? Ma perché è da lì che i Collettivi impareranno a gestire le piazze negli anni successivi; sì, con una modalità diversa da quella praticata allora a livello nazionale. Ce lo ricordiamo tutti: grandi cortei di massa e scontro frontale con la polizia. Il 3 giugno di quell’anno organizzammo assieme agli altri gruppi della sinistra extraparlamentare di Padova una mobilitazione antifascista per impedire ad Almirante di parlare. Si era in circa quattrocento in Piazza Insurrezione, intruppati sotto i portici a un lato della piazza, organizzati su più file; di fronte, a centro piazza, la polizia. A un certo punto, nel mentre la tensione sale, è il nostro responsabile del servizio d’ordine a urlare provocatoriamente alla polizia di sciogliersi, quasi si trattasse di un confronto campale tra la falange oplitica di Sparta e quella obliqua di Tebe a Leuttra. La consuetudine non contemplava lo scioglimento, piuttosto il cozzo, l’urto violento, lo scontro frontale da cui la polizia era sempre uscita vittoriosa. Anche quella volta. La sua carica fu repentina e a freddo, senza che avessimo debordato di un centimetro dal perimetro del portico e senza che avessimo agitato bastoni e lanciato sampietrini, esibito armi. Certo, come primo gesto di difesa volarono dopo delle molotov, e parecchie, ma la «boccia», come la chiamavamo, era sempre stata uno strumento di autodifesa mentre da un anno con la legge Reale era diventata un’arma da guerra. Nel corso della prima carica della Celere c’è l’arresto di Michele Spadafina, un nostro compagno, per flagranza di reato, il processo per direttissima e la sua condanna a tre anni furono il prezzo salatissimo che pagammo per aver sottovalutato il cambiamento di passo che nel frattempo era avvenuto con quella legge. A dimostrazione che la gestione dell’ordine pubblico stava decisamente cambiando, devo ricordare le due manifestazioni di Milano e Roma organizzate da lì a poco secondo tradizione; unica tragica, insostenibile novità, i morti ammazzati dalla polizia. Fortunatamente come Collettivi non abbiamo vissuto questo dramma perché fu dopo quella giornata di lotta antifascista, protrattasi poi fino a tarda notte, che decidemmo un cambiamento di rotta nella nostra gestione della piazza. Se negli anni a venire non lasciammo sul terreno compagni feriti o ammazzati fu perché fummo capaci di voltare pagina senza rinunciare all’uso della forza. I nostri cortei, quelli indetti da noi in condizioni per così dire di normalità, dovevano essere difesi e nessun compagno doveva sentirsi solo o abbandonato durante una nostra manifestazione. E questo valeva anche per tutti coloro che per solidarietà attraversavano il corteo. Quando invece la posta in gioco era più alta e c’era da mettere in conto anche lo scontro, dovevamo essere noi a decidere luogo, modalità e tempi. Quanto accaduto all’Arcella nel giugno del ’76 rientra in quest’ordine di idee. Ne ha già parlato Piero per cui ne riassumo brevemente i tratti per me più caratteristici perché esemplari di un nuovo modus operandi fondato sul controllo territoriale, sull’uso della forza da praticarvi, di quale tipo e quando. Con questa scelta avevamo come Collettivi il controllo della situazione – per quanto fosse possibile prevedere tutte le varianti – nonché l’attrezzatura per non entrare mai in contatto diretto con carabinieri e polizia. Potevamo così evitare tutta una serie di imprevisti che altrimenti avrebbero compromesso l’incolumità dei compagni e soprattutto violenza inutile sia in autodifesa che in attacco garantendo nel contempo il successo dell’obiettivo, nel caso dell’Arcella la sede storica dell’Msi, la pizzeria frequentata abitualmente dai fasci, l’abitazione dello stragista Massimiliano Facchini. E tutto questo bloccando a tempo debito il cavalcavia e tutte le vie d’accesso al quartiere. Vorrei ricordare che nessun compagno, ed eravamo qualche centinaio, fu fermato o individuato sicché l’obiettivo strategico di impedire il programmato comizio di G. Almirante per l’indomani fu raggiunto. Si trattò di un’operazione pulita che sarà riproposta come metodologia negli anni successivi. Gli stessi compagni di movimento a Padova e in Veneto ne trarranno vantaggio; sapevano che partecipando a un corteo o a una manifestazione dei Collettivi non avrebbero avuto brutte sorprese. Anche in questo caso la decisione di procedere secondo regole ben precise non era stata presa a tavolino da pochi compagni e imposta dall’alto a tutti gli altri. Ne parlano anche Giacomo e Piero; era vero che la nostra pratica politica è stata tutta all’insegna di uno sperimentalismo coraggioso, che quello che si pensava necessitava di verifiche che impegnavano tutti, nessuno escluso. Chiamiamolo pure pragmatismo, realismo e quant’altro, è certo che esso ha informato il nostro metodo di lavoro politico permettendoci di attraversare il passaggio storico all’operaio sociale con cautela e col dovuto senso della realtà.

Centralità del territorio e uso ponderato della forza necessaria per agirlo erano riassunti nell’espressione «zone territoriali omogenee». Se ne parla in un documento d’organizzazione ripubblicato nel libro sui Cpv; per quanto mi riguarda tornerei a insistere su quell’aggettivo omogeneo, al plurale perché i territori dove eravamo presenti erano più di uno e diversi tra loro quanto a struttura economica, composizione sociale e demografica, mentalità e chi più ne ha più ne metta. Avremmo voluto attraversare tutta questa diversità, esplorarla in lungo e in largo, inchiestarla e agirla ma purtroppo non ne abbiamo avuto il tempo. Se ne avessimo avuto, la Lega avrebbe avuto molti problemi ad affermarsi perché le avremmo tolto il terreno da sotto i piedi radicalizzando, che so, l’intervento sul lavoro decentrato, combattendo a fondo il lavoro nero, intervenendo su quella che nel nostro documento avevamo chiamato «l’intera macchina sociale umana, ideologica, preposta al controllo e al mantenimento della stabilità e della pace tra le classi». L’aggettivo allude evidentemente a un percorso che una soggettività non calata dall’alto ma in sinergia con le realtà sociali di quel territorio dovrebbe essere in grado di forzare.

È questa dinamica che spiega l’ingresso dei Collettivi politici in Radio Sherwood e l’attenzione costante nel campo dell’informazione, un processo che si conquisterà una vera egemonia culturale nei territori padovani e nel Veneto.


Radio Sherwood

Nel 1976 I Cpv iniziano a riflettere sulla necessità di dotarsi e rafforzare gli strumenti di informazione utili per coprire in maniera efficace i territori d’intervento che mano a mano si stanno ampliando seguendo il radicamento delle iniziative e delle lotte proposte, in particolare con il rapidissimo sviluppo della nostra presenza attraverso l’Interfacoltà all’università di Padova.

In contemporanea stanno nascendo le prime radio libere che trasmetteranno in fm su aree ristrette del territorio nazionale, in particolare vuoi per la potenza tecnica di trasmissione ridotta, vuoi per curare da vicino e meglio il proprio bacino di riferimento, le nuove radio coprono singole città o al massimo le zone immediatamente limitrofe.

È in questo clima che il compagno Emilio Vesce, che conoscevamo per la comune militanza in Potere operaio e che da sempre aveva una sua particolare attenzione verso la categoria dell’informazione, mette in piedi in vicolo Pontecorvo 1, a Padova, Radio Sherwood. Radio di movimento, cioè una radio di area, senza riferimenti partitici se non quelli delle lotte sociali, quindi un esperimento di radio aperta, attraversabile senza pregiudizi con cui scontrarsi.

Emilio è cosciente che la fase dello scontro sociale che si va delineando richiede una autonomia narrativa, di parte, priva dei condizionamenti e mediazioni che l’accesso ai canali di comunicazione tradizionalmente e occasionalmente offerti dal mercato permette ai movimenti sociali.

Ad analoga riflessione approdiamo anche noi dei Collettivi. Emilio si trova ad affrontare due ordini di problemi (il primo di carattere economico in quanto una struttura fissa, fortemente energivora come una radio, è talmente dispendiosa che la ristretta cerchia dei fondatori non può sostenerne la spesa e dall’altro che il processo di egemonia politica portato avanti dai Collettivi politici oggettivamente fa sì che nell’area padovana i cosiddetti movimenti vi facciano riferimento diretto, perché ne fanno parte come Gruppi sociali, Coordinamenti operai, ecc., o indiretto perché partecipi delle dinamiche di lotta territoriale da questi promosse) e si rende conto che una soluzione può trovarsi nel confronto diretto con i Collettivi per trovare una gestione comune dello strumento e quindi anche del suo progetto Radio.

La proposta di Emilio cade a fagiolo poiché come Collettivi siamo consapevoli che l’informazione sul progetto e la sua penetrazione e permanenza nei territori della provincia padovana non può più essere affidata al solo «volantino», che fino a quel momento storico costituiva lo strumento principe della comunicazione e dell’intervento politico.

Era maturata la necessità di avere strumenti più agili, pervasivi, che annullassero le distanze

temporali e chilometriche tra la fonte dell’informazione e i soggetti destinatari della stessa.

Togliere le barriere, fare sì che i soggetti in lotta gestissero e ricevessero direttamente le loro informazioni, e quale strumento poteva svolgere questo ruolo se non una Radio autonoma?

L’incontro tra Emilio e la struttura organizzata dei Collettivi, in pieno dispiegamento territoriale, dà origine alla Radio Sherwood che tutti noi conosceremo nei decenni a seguire.

Con l’accesso allo strumento radio i Collettivi affinano sensibilità che già avevano raccolto nei luoghi d’intervento cittadino, ad esempio si capisce che informazione, cultura, socialità costituiscono un amalgama inscindibile e necessario a sviluppare quel soggetto proletario nascente che di lì a poco denomineremo come operaio sociale e che costituirà il soggetto della possibile rottura degli equilibri padronali e statali incardinati nell’ideologia lavorista.

Con Emilio, che manterrà sempre la sua indipendenza di pensiero restando un grande militante del movimento comunista veneto senza mai entrare nell’organico dei Collettivi, sviluppiamo un confronto reale a tutto campo. Con Emilio realizziamo una redazione stabile della radio, che impara ad affrontare in maniera professionale il confezionamento delle rassegne stampa, dei radiogiornali, delle inchieste speciali, delle dirette.

Inizialmente la redazione si baserà sulle capacità professionali di Emilio, io e Barbara come apprendisti in appoggio e referenti nel confronto politico; redazione che via via nel tempo si arricchirà di compagni molto più capaci di noi (Sandro, Davide, Arnaldo, Stefano, Chicco, Franca, Vilma, Gianni…). Si formalizza pure una redazione musicale di giovani compagni di movimento veramente competenti e appassionati (Amedeo, Juliano, Cesare, Pachete, Diego…). Si amplia e struttura il palinsesto dei programmi per coprire sempre di più e meglio le 24 ore di trasmissione quotidiane.

Insieme riprogettiamo materialmente la radio, con un processo di autocostruzione, realizzando i nuovi studi di registrazione e trasmissione a misura delle nuove redazioni, giornalistica e musicale, potenziando i trasmettitori delle alte frequenze e innalzando una altissima antenna per allargare il campo di ricezione radio. In quella fase tanti giovani compagni imparano a darci una mano (Peter … e più tardi Gianni detto Falcao).

Radio Sherwood si connota rapidamente come organo di informazione dei movimenti sociali in simbiosi con la strategia e direzione dei Cpv, Emilio ne resta il direttore in stretto rapporto politico con i Collettivi fino agli arresti del 7 aprile 1979.

Radio Sherwood rappresenta nell’economia politica dei Collettivi uno strumento fondamentale di penetrazione sociale nella città; attraverso la rottura delle barriere temporali e spaziali, le notizie sulle lotte, nel medesimo momento in cui accadono, raggiungono studenti, lavoratori, le persone a casa o in auto. La notizia travalica l’ambito ristretto del soggetto in lotta che la origina e diventa comune conoscenza diffusa sul territorio cittadino dando la possibilità a tanti di identificarsi con il problema trattato e toccare con mano l’esistenza di possibili soluzioni praticabili anche nella propria situazione. Radio Sherwood diffonde conoscenza e autorganizzazione, la semplice introduzione del «microfono aperto» voluta da Emilio, cioè aprire la linea telefonica agli ascoltatori senza filtri produceva coinvolgimento diretto, da soggetto passivo della notizia l’interlocutore diventava attore diretto, protagonista della notizia, un vero rovesciamento di paradigma.

Innovazioni che per i movimenti aprivano nuove praterie da attraversare.

Questa capacità dialettica, movimenti/organizzazione costituirà la particolarità di Radio Sherwood anche all’interno del panorama delle radio di movimento in Italia, l’impossibilità di appiattirne il posizionamento sulla categoria organizzazione a mio parere sarà l’elemento che la preserverà da ogni criminalizzazione delle inchieste giudiziarie e in una certa misura ne garantirà la vitalità per tutto il successivo quarantennio.

In questo quadro si capisce l’attenzione dei Collettivi anche per le politiche culturali proposte in ambiente universitario e la «scalata» alla direzione del Centro universitario cinematografico che gestiva la programmazione cinematografica per gli studenti di Padova, Cinema Uno, presso il Teatro Ruzzate. Per un paio di anni, in questo spazio di autonomia strappato al controllo dell’università, con regolari elezioni, svolgerò il ruolo di direttore di Cinema Uno con l’aiuto sostanziale di tanti compagni del movimento (Bruno V., Carlo M.) che pur non militando nei Collettivi ne riconoscevano la giustezza di intervento e avevano la possibilità di esprimere le loro capacità, concretizzando le loro passioni al servizio di un processo divenuto comunitario.

Se la Radio rappresenta la palestra d’inizio in cui i Collettivi esperimentano e si impossessano dei nuovi strumenti di informazione, la crescita tumultuosa del progetto dei Collettivi, dal ’76 al tutto il ’78, determina l’esigenza di dare all’informazione una struttura più organica su tutto il territorio veneto, si dà forma a un nuovo ambito organizzativo: Il Centro di comunicazione comunista veneto. Nell’ottobre del ’78 esce il primo numero di «Autonomia», settimanale comunista dei Cpv.


Centro di comunicazione comunista veneto (Cccv)

Via via che si moltiplicano gli strumenti di informazione diretti dai Cpv il Cccv riesce a dare struttura a un’informazione organica sull’intero territorio veneto: Radio Sherwood triplica le sue frequenze di trasmissione impiantando a Thiene e a Mestre due nuovi studi completamente autosufficienti e autogestiti dai Collettivi e compagni delle strutture di movimento facenti capo agli specifici territori, la libreria Calusca, la rivista «Autonomia» e il Cuc come motori culturali e di socializzazione del fiume carsico del risveglio di lotte dei giovani proletari veneti.

Dopo gli arresti del 7 aprile 1979, la tragedia dei nostri compagni Alberto, Antonietta e Angelo, morti l’11 aprile ’79 e poi qualche mese dopo quella di Lorenzo, che determina anche lo sconquasso dei Collettivi politici vicentini, e i 30 e passa arresti dell’11 marzo 1980, questa necessità si fa talmente imperante che il Cccv rappresenterà uno snodo, anche di coordinamento organizzativo, fondamentale per la tenuta/rappresentazione dell’organizzazione.

La base processuale parte dal ’77 (prima inchiesta del Pm Calogero) per arrivare all’87, una mole enorme di materiale da vagliare e gestire di cui praticamente da subito i Collettivi hanno contezza ma che verrà affrontata come specifico ragionamento a partire dalla direttissima del 1980 quando, con l’arresto di più di 30 militanti dei Collettivi, a Padova si apre una crisi nell’articolazione sia dell’organizzazione che dell’intervento politico.

La gestione dell’informazione viene forzatamente centralizzata, per maturare in forma più organizzata nel 1982.

Il peso dei processi a mezzo stampa rovesciatici addosso da tutti i media nazionali, cartacei, radiofonici e televisivi associati a un uso micidiale della carcerazione preventiva ci costringe a chiuderci in difesa per rintuzzare sul piano degli iter processuali il progetto dell’accusa (Pci-Calogero).

La pressione dell’inchiesta Calogero è enorme e soprattutto ideologica tanto che ad esempio per ben 3 anni consecutivi, ’81-82-83, praticamente ogni primavera dopo il mio rilascio di fine Ottanta con una sospensione pena per motivi di salute vengo comunque riarrestato mediante la reiterata emissione di mandati di cattura che riformulavano il reato associativo di banda armata.

L’effetto sul piano processuale era nullo ma impattante sulla vita e l’organizzazione dei compagni colpiti dal provvedimento che subivano la ripartenza di una nuova carcerazione preventiva. Per me fortunatamente si riduceva a una quarantina di giorni ogni volta, il tempo tecnico perché gli avvocati del nostro grande collegio di difesa presentassero i ricorsi al giudice istruttore, che com’era giuridicamente corretto, nell’ambito dello stato di diritto fin lì sopravvissuto al tritacarne delle leggi speciali, li accoglieva.

In questa complessità del quadro politico e repressivo avviene la venuta meno del progetto originario dei Collettivi e l’apertura di una fase di ripiegamento e riflessione nella ricerca di modelli interpretativi e organizzativi che diano nuovamente respiro alle lotte territoriali che non si sono fermate.

Questa possibilità di riflessione e di mantenimento di una certa presenza politica si incardina sul radicamento sociale costruito negli anni e sugli istituti di massa messi in piedi. I compagni della Bassa Padovana, praticamente l’unico collettivo (il Collettivo politico Padova sud) uscito pressoché indenne dalle inchieste mantengono, in piedi i processi di lotta ed organizzazione ancora possibili.

Una grande responsabilità e peso affrontati con dedizione e capacità a cui i compagni del movimento comunista veneto porteranno sempre riconoscenza.

Quando vengo rilasciato contribuisco al buon funzionamento e rafforzamento del Cccv

che già conta su bravissimi compagni e che si arricchisce di nuove presenze rappresentanti le diverse realtà territoriali venete (Guido, Dario, Loris per Rovigo, Gianni, Sandro, Stefano, Davide per Padova…). I compagni non solo gestiscono i flussi informativi nei diversi media (Radio Sherwood, il settimanale Autonomia, le testate giornalistiche nazionali e locali) ma articolano la presenza dei Collettivi all’interno delle strutture messe in piedi per gestire la fase processuale: il collegio degli avvocati difensori, il comitato dei familiari e sono portavoce verso l’esterno dei compagni ancora detenuti.

Nella sostanza il Cccv diventa un nuovo aggregato fuoriuscendo dallo schema del nucleo e dell’attivo agganciato ad una zona territoriale omogenea come da tradizione dei Cpv.

Il suo territorio è virtuale e l’efficacia dell’informazione, la misura del suo intervento sono tremendamente concreti nel contrasto all’impianto accusatorio calogeriano e nella rivendicazione della legittimità dell’antagonismo e dell’illegalità di massa in oggetto.

Disciplina e militanza in continuità con il metodo politico dei Cpv, seppure nella problematicità della fase, costituirono il presupposto dell’efficacia della funzione del Cccv. Lo stile di lavoro e il metodo con cui si è gestita la materia permise al Cccv di tenere insieme diversi ambiti e soggetti sociali, anche culturalmente esterni fino ad allora alle rivendicazioni sociali sotto accusa.

Così diventa possibile costruire indicazioni, scadenze coinvolgenti una ampia stratificazione sociale, specchio del radicamento territoriale dei Collettivi.

Anche all’emersione di questa seconda leva di compagni, successiva alla nostra come fondatori dei Cpv, dobbiamo il riconoscimento di avere gestito al meglio delle possibilità la nostra linea difensiva; gestione che processualmente permetterà a noi sotto processo per banda armata a Padova e nel Veneto – rispetto ad analoghi processi a Milano, Roma, Torino – non solo tante assoluzioni, un forte contenimento delle pene complessive e dei massimali di pena ma anche la tenuta collettiva di tutti gli imputati con il rifiuto delle dinamiche dissociative che travolsero quasi tutte le organizzazioni rivoluzionarie in Italia.

La tenuta organizzativa di un centro che gestisce la comunicazione dei Collettivi (Cccv), per come ancora potevano darsi, ci dà il tempo di riprendere ed approfondire il nostro approccio con il mondo dell’immagine.

È in questa cornice che creiamo il Centro di documentazione antinucleare e antimperialista.


Centro di documentazione antinucleare e antimperialista (Cdaa)

Se nell’aprile del ’79 l’idea e l’iter burocratico per aprire una televisione collaterale a Radio Sherwood fu abortita dall’incedere travolgente delle inchieste giudiziarie, la consapevolezza che il mondo dell’immagine entrava prepotentemente a definire l’immaginario collettivo si faceva sempre più chiara e a partire dalle scadenze di informazione e lotta contro il nucleare, per la chiusura delle Centrali di Caorso, Trino Vercellese e Montalto di Castro presenti in Italia, pensammo di costruire un centro di documentazione video che gestisse una filiera di videoproduzioni, dal basso, che offrisse ai movimenti gli strumenti per fare conoscere tematiche e lotte.

Con i compagni Enrico e Roberta, giovani lavoratori, tecnici di regia, presso una televisione privata, cominciammo a raccogliere o fare le riprese video di manifestazioni per assemblarle poi con materiale d’archivio e fare i primi video.

Il primo, con materiale completamente autoprodotto da noi, sarà la video inchiesta sull’omicidio di Pietro Greco, Pedro, avvenuto a Trieste il 9 marzo del 1985 per mano di polizia politica e servizi segreti. La struttura produttrice del lavoro sarà denominata Centro di documentazione antinucleare antimperialista e dalla prima sede temporanea a Padova ospitata nella libreria Calusca troverà stabilità riattrezzando un paio di locali sottoutilizzati presso Radio Sherwood .

All’epoca le prime produzioni video circolavano su ingombranti videocassette, iniziammo a montare le produzioni usando due grandi videoregistratori in formato ¾ di pollice recuperati da Roberta ed Enrico, molto usati, da una tv privata. Poi questi master venivano convertiti nel formato in uso presso le famiglie che possedevano i primi videoregistratori in formato vhs.

Insomma un traffico laborioso che ci costrinse a costituire una cordata di compagni e compagne (Io, Roberta ed Enrico, e i nostri cari compagni medici Luisa e Carlo), che si accollò un prestito bancario indebitandosi per qualche anno per acquistare una centralina di montaggio Panasonic con caratteristiche professionali (due videoregistratori, la centralina, un monitor Sony Trinitron, i migliori dell’epoca) e uno dei primi videoproiettori per il grande schermo. I titoli si facevano con i primi pc per videogiochi (Vic 20 Commodore 64, Atari) che avevano un’uscita predisposta video.

Facciamo uno sforzo di lungo periodo che non impegni i processi organizzati ma sia sostenuto dai

soggetti più sensibili, disponibili e interessati all’ampliamento degli strumenti mediatici per il movimento, iniziamo così.

L’intento del Centro di produzione Cdaa era offrire video sulla storia del movimento, sulle sue forme di lotta e iniziative. Una biblioteca video che con le videocassette potesse entrare nelle case o che con il grande videoproiettore incontrasse nelle piazze, nei cinema, nelle sale comuni delle case dello studente un pubblico più vasto.

Praticamente un volano per fare conoscere le lotte, che all’epoca interessavano le produzioni inquinanti e il nucleare. Ricordo ancora un episodio riguardante la centrale a Carbone di Porto Tolle, nel delta del Po, estremamente inquinante in quell’area così ricca di fragile biodiversità.

Con dei giovani compagni della radio avevamo ottenuto un passaggio sulla barca di un pescatore solidale e avevamo girato degli spezzoni navigando attorno al perimetro della centrale che insiste sulla laguna. Eravamo in stagione invernale e ci siamo arenati in una barena, canneto e fango, per toglierci d’impiccio i più giovani si sono immersi nella fanghiglia fino al petto, in estate ci sarebbe stato da ridere, ma era inverno e bagnati fino all’osso batterono i denti, giunti al porticciolo da cui eravamo partiti si lavarono con il getto di una canna. Si faceva di tutto pur di portare a casa un prodotto girato da noi.

Il Cdaa era fortemente connesso alla vita di Radio Sherwood, questa sensibilità per i media, la gestione autonoma dell’informazione, che nasce nel ’76, ha quindi un percorso lungo e tenta sempre di anticipare le tendenze.

Pensiamo ad esempio cosa offrono oggi i cellulari con le loro applicazioni di videoregistrazione, montaggio e interfaccia in tempo reale con l’intero mondo web… , se avessimo avuto queste tecnologie all’epoca, perché hanno una enorme importanza nella modificazione antropologica, della testa, dei comportamenti della totalità dei fruitori dello strumento cellulare, che non è solo uno strumento di informazione bensì di governo delle persone.

Anticipavamo delle tendenze gestendole con intelligenze, conoscenze ma soprattutto attraverso la rete sociale che diventava il motore che ci preparava ad affrontare terreni sconosciuti, nessuno di noi aveva studiato per questo. È nell’incrocio delle nostre vite sociali che ci impadroniamo delle competenze professionali. La nostra storia è riuscire a coniugare tutte queste capacità e questo sentire mettendoli a valore.

Perché ho intrapreso questo viaggio con questi compagni e non con altri è presto detto.

Venivamo tutti fuori – intendo il nucleo dei compagni che nel ’74 daranno vita al Collettivo politico Padova nord – dal corpo degli studenti medi ed ex medi (eccetto Giacomo, che non aveva frequentato le scuole a Padova ed era iscritto alla facoltà di Scienze Politiche). Personalmente avevo frequentato l’Istituto tecnico Einaudi dove mi diplomai nel ’72. Ho un preciso ricordo di un movimento di studenti attivo nel ’69 in questo Istituto; si era raccolto attorno a un’associazione studentesca che nel nome evocava una gloriosa istituzione della Repubblica dei dogi, Il Maggiore Consiglio. Con l’aiuto di due compagni, Tiziano Vitullo e Sergio Verrecchia (che nel 1985 diventerà vicesindaco di Pd in rappresentanza del Psi), riusciamo a cambiarne la natura trasformandolo in Comitato di base; da allora non ho più smesso di fare politica dentro i movimenti. È come studente medio che comincio a frequentare i compagni più giovani di Potere operaio che già nel ’70 aveva in città una sua struttura ben definita; era presente, ricordo, all’Università e al Selvatico, un Istituto d’arte sicuramente più ricettivo e aperto di altre scuole. Poi c’era la Fusinato, la casa dello studente, che i compagni di Potere operaio avevano chiamato, guarda un po’, «base rossa»; la utilizzavamo anche noi medi. Ti metteva a disposizione carta e ciclostile e non ti chiedeva la tessera d’appartenenza. È così che anch’io entro in Potere operaio diventandone un militante. Potere operaio mi offre l’occasione di frequentare assemblee extra istituto, di andare davanti alle fabbriche e soprattutto di studiare i classici, in particolare alcuni libri di Lenin, perché quella sovietica era vissuta come la rivoluzione a noi più vicina; devo ricordare che noi non siamo mai stati filosovietici, però volevamo capire quali fossero gli strumenti che dovevamo darci per organizzare la nostra rivoluzione. Tutta questa leva di giovani compagni medi aveva capito la necessità dell’organizzazione; senza l’organizzazione non avremmo conseguito alcunché, neanche gli obiettivi minimali. Cosa offriva Potere operaio di così allettante a un giovane come me? Certamente una motivazione seria per sottrarre la mia vita allo sfruttamento cui erano soggetti i miei genitori e quella curiosità intellettuale che la scuola non poteva soddisfare; in più mi offriva l’occasione di riorganizzare la mia vita quotidiana con una pratica politica coinvolgente. Dove mai avrei potuto incontrare giovani altrettanto curiosi e così aperti al mondo? Sapevo come mi considerava e cosa mi riservava la scuola che frequentavo. Ma la militanza in Potere operaio non ha significato un appiattimento sull’organizzazione. Noi medi godevamo di una socialità tutta nostra perché si usciva tutti da famiglie rigidamente strutturate per cui il tasso di insofferenza era quello, senza grandi differenze per maschi e femmine. Abbiamo avuto in odio i fascisti anche per il loro culto della tradizione e dei suoi valori; naturale che volessimo liberarcene. Padova pullulava di organizzazioni fasciste e di cellule stragiste al soldo dei servizi segreti; per tanti anni, troppi, avevano controllato alcune piazze, alcune facoltà, addirittura rese invivibili zone intere della città. Ricordo che per questo motivo ci si muoveva sempre in gruppo e i compagni più esposti venivano accompagnati a casa. È stato l’antifascismo ad alimentare quel legame fiduciario riscontrabile tra i medi e trasmesso poi ai Collettivi.

Sono convinto che la loro tenuta organizzativa per tutti gli anni Settanta e oltre sia dovuta a questa eredità; la stessa dinamica comportamentale, di comunità, che aveva contrassegnato il modo di essere e di agire dei medi la ritroviamo nella pratica dei Collettivi. Quando sento dire dai giovani compagni di oggi che la mia generazione è stata fortunata perché in quegli anni tutto era possibile, mi viene da rispondere che sì, questo è stato vero ma solo perché siamo stati capaci di dotarci di formule organizzative, di programmi e di articolazioni di progetti nell’immediato credibili e funzionanti. Non è stato regalato niente alla nostra generazione, è stato tutto conquistato. Certo, le sollecitazioni che ci venivano dal mondo non mancavano e non sto qui a ricordarle; in casa i nostri operai lottavano e vincevano e tutto questo bailamme ti faceva sentire forte e vincente ma anche noi abbiamo fatto la nostra parte con le nostre scelte. Dopo Rosolina abbiamo scelto facendoci carico di un nuovo progetto che abbiamo perfezionato strada facendo, sperimentando e interrogandoci. Non c’è continuità tra l’esperienza di Potere operaio e quella dei Collettivi; solo chi aveva una visione hegeliana della Storia poteva pensarlo, ad esempio Calogero e il Pci che lo sponsorizzava. Il tema della scelta mi impone di fare alcuni nomi perché è bene ricordare chi allora decise il da farsi: Piero, Augusto, Susanna, io, Giacomo ed altri ancora. Quante volte ci siamo ritrovati a casa di Giacomo e Piero a leggere e studiare assieme, a chiosare e discutere mentre sua madre, Maria, ci accudiva tutti come figli suoi. Avevamo chi ventiduenne, chi ventiquattro anni quando decidemmo con la nostra testa di prendere in mano il nostro destino costruendo questa nuova organizzazione. Questo sì che può esserci imputato ma l’inintelligenza del soldatino che vive aspettando ordini, questo è veramente troppo. Prendiamo il documento politico che decidemmo – Piero, Giacomo e io – di presentare alla rete dei compagni medi e universitari nel ’74; segna la data di nascita dei Collettivi e una cesura netta con la storia di Potere operaio. A rileggerlo oggi non ho difficoltà a riconoscere che è stato lì che abbiamo tirato le somme della nostra esperienza passata. Ai compagni proponevamo un patto fondativo «vincolante il comportamento e la milizia politica del singolo all’interno e all’esterno dell’organizzazione e per tutta l’organizzazione». Era il «nostro» leninismo. Si voleva riproporre su una scala più larga un’etica comportamentale maturata nelle strade e nelle piazze della nostra città. Quanto alla forma dei Collettivi, niente era stato pensato a tavolino perché essa era già data; anche in questo caso stavamo tirando in barca le nostre reti. E infatti i tre Collettivi, del nord, del centro e del sud, erano già una realtà e quanto ai loro responsabili, i galloni erano stati conquistati sul campo: io e Giacomo a gestire il Collettivo nord, Piero e Augusto il Collettivo centro, Gianni e Giancarlo il Collettivo sud. Parlo della prima fase della loro storia. Il fatto che una decina di giovani in un percorso di autoformazione siano riusciti a esprimere la complessità di contenuti politici e l’articolazione tattica nei rispettivi territori è rimasto un mistero solo per chi non ha voluto capire. La chiave del nostro successo è da cercare nel modo in cui abbiamo affrontato la complessità della specifica fase che ci trovavamo a vivere: mai semplificare, vedere tutti gli aspetti, cercare di prevedere quelle varianti che si sarebbero presentate e in tal modo anticipare gli eventi ma soprattutto riuscire a valorizzare le qualità anche caratteriali di ciascun compagno. Tante volte in un organismo dirigente ti trovi a confrontarti con compagni che sono diversi da te e con i quali puoi non condividere opinioni e analisi; se le incomprensioni e le lacerazioni sono sempre dietro l’angolo, noi però abbiamo avuto sempre la capacità di smussare questi momenti di incomprensione e di portare a valore il particolare carattere di ciascuno. Per dire: era Giacomo, che per la sua formazione era veramente una persona molto riflessiva e a cui piaceva studiare, a portare a sintesi in modo chiaro e condiviso quanto si era discusso nella Commissione politica. Con Piero scoprivi cos’è una mente effervescente, mai ferma, pensante; la sua capacità era di innovare per cui nelle discussioni, introducendo sempre nuovi elementi, era quello che faceva da traino. Invece a me, che ero un discreto organizzatore, veniva più semplice, una volta definite le linee e le traiettorie da seguire, applicarle poi sul campo, legale e illegale che fosse. Sì, illegale perché non fai la rivoluzione senza l’uso sapiente e ragionato della forza. Noi ci siamo sempre differenziati nella concezione della lotta armata dalle organizzazioni combattenti clandestine; non ci è mai appartenuta l’idea di uno Stato in fieri che si scontra con il potere costituito. La politica comanda il fucile; a questo assunto maoista siamo rimasti sempre fedeli. L’uso della forza è sempre stato commisurato ai movimenti di massa; se questi non l’avessero fatto proprio, se non l’avessero accettato a tutti i livelli, addirittura proposto, noi come organizzazione non l’avremmo praticato. Non si dava uso della forza se tutti i suoi livelli organizzativi non ne fossero stati convinti. Non veniva imposto ai militanti da una banda di visionari perché erano i militanti a tutti i livelli a esserne convinti. Erano i militanti a decidere l’arma, se il sampietrino, la fionda, la sbarra oppure la pistola. È facile pensare, come è senso comune, che a decidere sia il capo ma noi non avevamo capi. A decidere era la situazione di movimento. Quanto alla pericolosità dell’azione, essa veniva assunta da chi aveva maggiore responsabilità politica. Era, questo, l’altro criterio discriminante ed è stato così che ci siamo guadagnati il rispetto e la stima dei compagni di movimento. Il tutto però dentro una sottovalutazione del nostro Stato democratico. Continuavamo a pensarlo tale, democratico per l’appunto, e di diritto, che ti arresta, ti processa, eventualmente ti condanna sulla base di un iter ben preciso, a partire dalla raccolta di prove documentate. Chi di noi avrebbe mai sospettato prima del 7 aprile il suo stravolgimento con l’introduzione dell’inversione dell’onere della prova? Forse avremmo dovuto pensarci già nel marzo del ’77 quando Calogero, sempre lui, ci accusa di associazione per delinquere, un reato associativo normalmente utilizzato nelle inchieste di mafia.

Una rappresaglia in probabile risposta alle prime azioni del Fronte comunista combattente.

Un sentore di bruciato che non avevamo fiutato. È stato il fattore tempo a prendersi gioco della nostra ingenuità. Quali prove avevano contro di noi? Nessun compagno era stato preso in fallo, nessuna arma era stata mai trovata. Certo che eravamo noi a combinare tutto quel casino ma le prove? Paradossalmente proprio il flop di questa prima inchiesta rafforzava la nostra convinzione che ciò che avevamo davanti era pur sempre uno Stato di diritto. Ci sentivamo protetti dalla nostra stessa storia perché le cose erano state fatte bene, nel linguaggio della mala «in modo pulito».

Il Fronte comunista combattente

Ma cosa è stato il Fronte comunista combattente (Fcc) nell’esperienza dei Cpv?

Il Fcc nasce come ulteriore articolazione dei livelli d’organizzazione, i militanti sono scelti in base al ruolo di responsabilità politica complessiva che rappresentano nell’organigramma dei Collettivi e in base all’equilibrio e consapevolezza dimostrati sul campo dello scontro laddove nel tempo si necessitò dell’uso della forza.

Il Fcc costituisce l’ambito d’organizzazione che si fa praticamente carico di dotare i Cpv degli strumenti materiali necessari ad esercitare in sicurezza l’uso della forza richiesto dal programma di fase e di rappresentarne all’occorrenza una sintesi, che accumula l’esperienza sul campo, che definisce regole comportamentali, metodologiche per le azioni illegali, che affronta le problematiche dell’armamento, della logistica che ne consegue, ecc.

Nel contempo è l’ambito condiviso dalla direzione dei Cpv in cui si discute l’opportunità dell’uso della forza, della sua intensità ed estensione territoriale all’interno di una campagna politica-militare dell’organizzazione.

All’interno della nostra scelta di campo, dove le categorie lotta armata e unità dei comunisti costituiscono ambiti strategici per arrivare a una possibile rottura rivoluzionaria anticapitalista, il Fcc è anche il nostro strumento per un confronto politico con le altre organizzazioni comuniste rivoluzionarie che dal ’75 in poi privilegiano in modo praticamente esclusivo contro Stato e padroni il terreno della lotta armata nella clandestinità organizzativa.

Se nelle prime apparizioni del Fcc (primo semestre 1977) alla sua azione si dava una forte connotazione al carattere di «propaganda armata» questo era dovuto al quadro politico nazionale, alla battaglia politica rispetto alle componenti rivoluzionarie clandestine che stavano virando invece su un terreno di scontro armato frontale con lo Stato, di guerra.

Lotta armata, in questa accezione di guerra simulata, per noi significava vedere spostato sul terreno prettamente militare lo scontro di classe, mentre, semplificando, propaganda armata significava cominciare a introdurre nelle dinamiche dei movimenti organizzati emergenti un ragionamento sulla necessità di mantenere il primato della politica anche nell’uso della forza, quest’ultima sempre parametrata nella sua forma e intensità a processi reali, concreti di ricomposizione proletaria e costruzione di organismi di massa antagonisti.

La guerra di classe era un percorso di lungo periodo che non lasciava spazio a fughe in avanti, al generare scollature tra i movimenti di massa, i suoi organismi di coordinamento e direzione delle lotte.

Per impedire l’egemonizzazione dei nuovi movimenti autonomi, della nuova composizione di classe che si andava delineando nella figura teorica dell’operaio sociale, da parte delle organizzazioni combattenti clandestine si rendeva necessario dimostrare che il monopolio delle armi non era una loro esclusiva e che altre strategie ne possedevano l’uso. Strategie che ne prevedevano l’uso sempre in rapporto stretto con le pratiche, le dinamiche, gli obiettivi che determinavano lo sviluppo concreto degli organismi dei movimenti di massa, senza privilegiare mere logiche di organizzazione.

La battaglia politica contro un combattentismo sempre più autoreferenziale e connotato su una logica di guerra dispiegata, vedi l’ossessivo annientamento del nemico di turno, rese naturale al Fcc scegliere di posizionare la propria azione all’interno delle campagne d’organizzazione che coinvolgevano contemporaneamente sul terreno dell’uso della forza un centinaio e più di compagni dei Cpv sul territorio veneto (per la stampa di regime le cosiddette «notti dei fuochi»).

La dinamica lotte e obiettivi di massa sul terreno pubblico, uso della forza contro obiettivi portati in luce dalle lotte, azione di propaganda armata contro le figure eminenti della regia padronale nella singola campagna d’organizzazione dava corpo e struttura politica alla nostra teoria del Contropotere.

Il Contropotere essendo un terreno politico esistente solo se di massa impediva anche ogni logica di fuga in avanti sul terreno del militarismo.

In effetti la complessa articolazione pubblica dei Cpv fece in modo che nel territorio veneto si contenesse notevolmente il fenomeno verificatosi post ’77 nelle aree metropolitane, Milano, Roma, dove gruppi di quartiere o paese scegliendo l’ideologia della clandestinità combattente e procurata un’arma da fuoco ponevano in essere azioni di annientamento dell’avversario, da noi ritenute avulse dalla fase politica ed esterne alle esigenze e ai percorsi dei movimenti di lotta di quel territorio.

Solo dopo la fase repressiva del 7 aprile 1979 riappare nel Veneto in forma visibile la componente combattente clandestna riferita alle Brigate rosse e, come era prevedibile, tanti guai ne vennero per il Movimento comunista organizzato (Mco).

Mi viene in mente l’acceso scontro politico che nel 1981 dovemmo articolare in Veneto partendo dal territorio di Marghera. Al Petrolchimico i compagni, attorno al nostro Claudio Cerica, avevano saputo rilanciare un programma operaio e proletario di massa tanto che su di esso avevano messo in minoranza il sindacato di fabbrica e iniziato un formidabile ciclo di lotte contro la cassa integrazione al Petrolchimico, per la riduzione della giornata lavorativa, la chiusura delle produzioni di morte, che si intrecciava sul territorio anche con le lotte sul diritto alla casa (vedi «Autonomia» n. 25, pagg. 18-19-23). In questa situazione di espansione del movimento le Brigate rosse intervennero rapendo il direttore del Petrolchimico, l’ing. Taliercio, e firmandone la condanna a morte. Una azione totalmente aliena dalla realtà del Comitato operaio del Petrolchimico, dal Comitato lavoratori e da tutto il Movimento comunista organizzato del Veneto che gestivano il ciclo montante di lotte.

Fu in quell’occasione che Sandro e io, che curavamo il Centro di comunicazione comunista veneto d’urgenza stilammo un manifesto, a firma Mco, di critica all’azione delle Br con la richiesta di non dare seguito all’omicidio dell’ing. Taliercio.

Il manifesto fu appeso sui muri di tutti i maggiori centri cittadini del Veneto, fu passato alla stampa e divulgato da Radio Sherwood.

Ma a nulla servì, le Brigate rosse anche nel Veneto avevano definitivamente deciso di forzare il quadro politico sposando l’ideologia militarista di una guerra di annientamento contro lo Stato e resero esecutiva la decisione che in tutta evidenza avevano a priori predeterminato.

L’effetto immediato fu la criminalizzazione dei nostri compagni di fabbrica e di organizzazione presenti nel territorio di Marghera-Venezia, primo di tutti Claudio Cerica, e lo spostamento di tutto il dibattito politico organizzativo dalle lotte per determinare passaggi di contropotere gestito da strutture organizzate in fabbrica e nei quartieri (i processi di ricomposizione proletaria, di costruzione degli organismi di massa antagonisti che noi vedevamo al centro della strategia dell’intero movimento rivoluzionario) a iniziative difensive sul terreno della repressione.

È da ricordare che quell’area territoriale del Veneto era l’unica che vedeva i Collettivi politici locali integri e non ancora toccati dalla repressione dispiegatasi con il processo 7 aprile.

La battaglia politica contro la clandestinizzazione degli organismi di massa per l’allargamento dello spazio pubblico dei processi di lotta e organizzazione era una necessità per noi strategica, fu difesa e sviluppata in sinergia con tutti gli strumenti d’organizzazione dal Fronte comunista combattente, alle ronde contro gli straordinari, ai Gruppi sociali di zona.

Nonostante l’ondata repressiva seguita all’omicidio dell’ing. Taliercio, luglio ’81, il movimento cresciuto attorno all’intervento dei compagni dei Cpv, proprio per questa sua complessità di forma e azione mantiene la sua vitalità nella produzione di nuovi cicli di lotta tanto che, quasi senza soluzione di continuità, già da fine ottobre 1981 riprendono a decine e decine le occupazioni di case a Mestre e Venezia («Autonomia» n. 26 pagg. 16-17) con l’appoggio solidale del Comitato lavoratori Petrolchimico di Porto Marghera, del Comitato lavoratori Actv (VE), del Comitato rilevatori censimento Mestre.

In conclusione posso dire che la complessità del modello organizzativo basato sulla militanza pubblica dei suoi quadri ha fatto sì che non solo l’accumulo della forza e il suo uso fosse di aiuto, sintesi e sviluppo per gli organismi di massa nel Veneto ma che nessuno dei compagni dei Cpv arrestati dal 1977 in poi fino al processo di Cassazione tenutosi nel 1986 sia stato condannato per un reato specifico attribuibile al Fronte comunista combattente.

Ripenso con un po’ di meraviglia e un tantino di nostalgia a una mia giornata tipo: quasi ogni mattina a Mestre, il pomeriggio a Padova spesso con i compagni della Direzione, la sera nella Bassa oppure a Vicenza, in giro come una trottola, sempre in movimento. E mi piaceva, mi divertivo. Da dove veniva quella forza di vivere? Qui tento per la prima volta una risposta tutta intima. Alcuni di noi avevano genitori che durante la guerra avevano militato nella Resistenza, il padre di Barbara ad esempio, dei Boscarolo, dei Lo Piccolo, di Donato e i miei. Sarebbe stato naturale una nostra dipendenza da quella mitologia e invece ci siamo sempre considerati sganciati da quell’esperienza; ne apprezzavamo tutti i valori ma come comunisti dei Collettivi non eravamo i figli e i nipoti della Resistenza. Eravamo la generazione che rifiutava la delusione e la conseguente accettazione della sconfitta patita lungo tutti gli anni Cinquanta con la ricostruzione. Dunque mia madre Rosetta è stata staffetta partigiana mentre mio padre Nino è stato responsabile di un raggruppamento partigiano facente parte della brigata A. Segato nella zona di Villalta di Gazzo Pd, nell’alto padovano, a sud del bassanese. Non mi ha mai parlato di quel periodo, non si è mai sbottonato; quello che so mi è stato raccontato da mia madre. Era stato in Russia, aveva fatto la ritirata e del suo reparto si salvarono in sette, metà congelati e lui rimasto senza denti; appena rientra, passa con i partigiani. Io non so spiegarmi questa timidezza del papà di non dirmi niente, neanche sulla guerra, una sorta di pudore della sofferenza; se era per una sofferenza dovuta ai tragici episodi visti e vissuti o per una frustrazione, vale a dire per il peso della sconfitta, di non aver potuto portare a compimento quella che lui giudicava una guerra di liberazione che avrebbe dovuto concludersi con una società socialista. Però dal punto di vista umano mi ha lasciato un grande bagaglio, una grande eredità, ad esempio la differenza tra giusto e sbagliato, il senso della comunità e soprattutto della solidarietà. Tutti valori – vogliamo chiamarli così? – che io ho appreso in famiglia. Ne racconto solo una. Alle superiori, tra il ’68 e il ’69 fui colpito da una grave forma di malattia allora mortale, un tumore alla tiroide in avanzato stato di metastasi polmonare. Anche in questo caso il fattore tempo ha avuto il suo peso perché i sei alpini sopravvissuti alla «campagna di Russia» grazie alla determinazione e al coraggio di mio padre che il 16 gennaio del 1943, al loro comando come squadra con compiti esplorativi, obbligati a ingaggiare un combattimento con superiori forze sovietiche, li aveva portati uno alla volta, facendosi forza dei suoi sci, fuori dall’accerchiamento nella località di Mariewka per poi ricongiungersi con il grosso delle truppe alpine in rotta nella sacca di Nikolaienwka, lanciano dentro l’Ana una raccolta fondi per la mia cura. È così che posso essere curato in una clinica di Londra dal dott. Pochin che stava sperimentando la sua cura contro la metastasi polmonare. È questo spirito solidaristico che parte dalle steppe della Russia e si diffonde a Padova in tutte le scuole che mi ha salvato, uno tra i primi casi in Europa. Culo? Ma anche fattore tempo, anche fattore solidarietà che gli alpini di mio padre facendosi carico della mia vita avevano rinverdito. È perché mi ha insegnato come stare al mondo che ritengo importante la mia famiglia. Soprattutto mia madre che non si è mai arresa di fronte alle tante perquisizioni e ai ripetuti arresti. Entrerà dopo il 7 aprile nel Comitato familiari che continuerà a frequentare anche dopo la mia scarcerazione. Per quello che potevano e per quello che era la loro dimensione sociale, tutti questi genitori usciti dalla Resistenza sono sempre stati solidali con i loro figli e figlie, finanche complici.

Ma proprio a proposito del nostro rapporto con la Resistenza, vorrei aggiungere che c’era quest’altra cosa che ci legava a quell’esperienza: il carattere autodeterminato e delle bande partigiane e dei Collettivi, il fatto cioè di essersi costituiti entrambi su forze proprie scommettendo sul territorio e su chi quel territorio abitava. Se i partigiani erano riusciti a capire e a interpretare ciò che pensavano contadini, operai e ceti urbani, noi siamo stati altrettanto bravi con i giovani operai e con gli studenti. Non solo; anche noi come una parte di loro abbiamo fatto il nostro percorso in un senso non ideologico, pragmatico come si diceva. Infine l’uso della forza, l’aver impugnato anche noi le armi.

Mi vengono in mente due episodi che vorrei raccontare, utili per entrare nel vivo sia dell’illegalità di massa in quanto comportamento sociale diffuso e sia della solidarietà… come definirla? Fattiva? Sì, fattiva perché dice direttamente cosa intendevamo per unità dei comunisti. Il primo episodio è del ’76 e si svolge alla Fusinato, allora espressione tangibile di quella illegalità di massa che innervava la nostra pratica politica e dove molti di noi, i più meritevoli, abitavano. Era la nostra base rossa e la utilizzavamo per gli scopi più disparati. Un giorno un compagno ci presenta due suoi paesani nella sua camera; erano appena evasi dal carcere di Treviso e avevano pensato bene di chiedergli aiuto. Tutto normale? Non normale sarebbe stato un diniego oppure accampare una qualche scusa. Classica era stata – guarda un po’ – la stessa modalità della fuga: una corda calata dal muro di cinta e via. Mi piaceva l’idea dell’evasione. L’avevo sognata a suo tempo per Oscar Wilde racchiuso a Reading Gaol, mi aveva entusiasmato quella messa in pratica dai tupamaros del comandante Facundo nel carcere di Punta Carretes nel ’71. I due, prestanti e atletici, erano detenuti comuni ed erano approdati alla Fusinato non per sintonia politica ma perché sapevano che lì c’era questo loro amico. Quello più anziano, Sergio, mi era sembrato anche il più sveglio; di mestiere faceva il ladro di auto per gente in, auto che costavano un capitale ed erano ricercatissime, ricordo, in Libano, una specie di Costa azzurra mediorientale per i tanti miliardari europei in cerca del loro Eden. E infatti Beirut in quegli anni era la mecca per gran parte dei nostri evasori fiscali, grandi e piccoli. Non c’era da scomodare Brecht per capire da che parte dovevo stare, se dalla parte del grimaldello o da quella del titolo azionario. E poi avevo appena finito di leggere L’invenzione della delinquenza di Anthony M. Platt con la bella introduzione di quel Giovanni Senzani che da lì a poco avrebbe guadagnato i titoli della nostra cronaca politica. No, mai e poi mai avrei rivestito i panni del salvatore perché Sergio non riuscivo proprio a vederlo come un deviante, espressione di un proletariato marginale bisognoso di un qualche controllo sociale. Insomma, ero convinto con Platt che la delinquenza fosse molto semplicemente un’invenzione tutta borghese. Piuttosto apprezzavo la professionalità con cui pensavo che Sergio praticasse per i cazzi suoi quella illegalità di massa che rivendicavo come necessaria al mio agire comunista. Un caso, questo incontro? Forse no perché l’humus che lo aveva nutrito era lo stesso in cui era cresciuta la mia generazione. Chi alimentava il fenomeno del «disadattamento» e della «devianza»? Ricordiamoci della popolazione carceraria di quegli anni. Chi finiva in galera per un nonnulla? Alla luce dei rapporti di produzione, un nome ce l’avevamo: proletari, sempre e solo proletari perché chi ha fame ruba per mangiare e chi non ha nulla rischia la vita per non morire. Certo, una frase ad effetto letta allora da qualche parte ma utile per spiegare, a partire da quella determinata composizione di classe, le tante rivolte su questo fronte in quegli anni. Che esprimessero la volontà di distruggere le carceri non avevo dubbio alcuno il che, per quanto mi riguarda, escludeva ogni ipotesi di riforma. Non un altro carcere ma liberare tutti era ciò di cui ero fermamente convinto. Con i pochi mezzi che avevamo, cercammo di aiutare entrambi: con l’espatrio il più giovane e una famiglia cui appoggiarsi per Sergio, legato a una moglie carissima e a uno splendido bambino. Tutta questa storia in cui la politica c’entrava come il cavolo a merenda ci è tornata utile; penso ai tanti problemi che abbiamo dovuto affrontare con Sergio che, non dimentichiamolo, era un ricercato. Problemi di logistica intendo, e di reddito anche. Fu in quel frangente che capimmo che la teoria della clandestinità sostenuta dalle organizzazioni combattenti faceva acqua da tutte le parti. Contemplava, quella teoria, una rigida divisione dei ruoli col militante regolare che viveva in clandestinità e l’irregolare condannato a una tranquilla vita di routine. L’esperienza concreta ce ne mostrava ora tutte le incongruenze, a partire dal necessario impoverimento di vita cui erano condannati entrambi. Sergio da lì a poco sarebbe tornato in galera perché l’esistenza materiale cui era costretto era in fondo troppo affine al carcere stesso. Gli siamo debitori di quel poco del suo sapere professionale che riuscì a trasmetterci nel breve tempo della nostra frequentazione. Ad esempio, come riusciva a passare la frontiera con documenti falsi in appena due ore dal furto dell’auto. Ci tornò utile tutto questo quando i guai capitarono a noi.

Il secondo episodio è dell’inizio del ’77. Anche questa storia comincia con un compagno di movimento, un anarchico situazionista, che ci contatta perché non sapeva come sbrigarsela con i tre evasi – due comuni e un politico – che si era ritrovato in casa inaspettatamente. Facevano parte del gruppone dei tredici appena scampato dal carcere di Treviso. Il politico era Prospero Gallinari delle Brigate rosse, del quale decidemmo di occuparci perché era quello più a rischio. Dei tredici era certamente quello più ricercato e perciò il più bisognoso di sostegno. Se non ci eravamo tirati indietro l’anno prima per aiutare un comune, questa era l’occasione per tradurre in atto il nostro concetto di unità dei comunisti. E così decidemmo di spenderci per evitare a questo compagno la cattura. Sulle prime non avevamo contatti con i suoi né sapevamo di quanto tempo avrebbe avuto bisogno lui per trovarne. Però abbiamo avuto occasione di parlargli e soprattutto di conoscerlo come persona. Sul piano politico non potevamo essere più distanti: povera la strategia e povera la visione del mondo prospettateci. Il nostro operaismo nulla aveva a che fare con il loro fabbrichismo mentre il nostro rifiuto del lavoro cozzava frontalmente con la loro impostazione lavorista. Per quanto mi riguarda, trovai conferma che veramente erano i figli legittimi del Pci. Squisito sul piano personale, in senso valoriale Prospero restava un grande compagno, aperto al dialogo e mai mi ha dato l’impressione che volesse imporre, forte dell’organizzazione che aveva alle spalle, il suo punto di vista in modo settario. Sì, Prospero sapeva ascoltare forse perché aveva capito bene lo sforzo che come Collettivi stavamo facendo. E poi era un uomo pacato, di quella pacatezza di altri tempi tipica della cultura contadina in cui era cresciuto. E questa cosa mi piaceva. Un giorno vennero i suoi a prenderlo e da allora non lo vedemmo più. Quanto riuscimmo a saperne, lo apprendemmo dai giornali. La breve frequentazione con Prospero ci tolse gli ultimi dubbi sul problema della clandestinità; per noi era inconcepibile fare politica in quelle condizioni, a meno di identificarla con la lotta armata tout court. Eravamo troppo abituati alla internità alle lotte che promuovevamo nel nostro territorio per pensarla utile in un qualche modo; ogni nostro militante la politica la faceva dentro un comitato di agitazione, un comitato di base, un gruppo operaio, un comitato di fabbrica e faceva azione di massa, gestiva insieme discorsi e processi di lotta sempre e solo in prima persona. È così che riusciva a dialettizzarsi con le infinite diversità comportamentali degli organismi di massa. Il clandestino non può vivere tutta questa ricchezza in corpo e in spirito, può solo sentirne parlare da altri. Da questo punto di vista non credo di esagerare quando dico che il clandestino è in fondo in fondo un povero, di esperienza intendo. È il motivo per cui gli abbiamo preferito il quadro militante a tutti i livelli.

Questi due esempi mi portano dritto dritto dentro il 7 aprile che personalmente non avevo colto in tutta la sua portata; un vulnus al diritto, mi ero detto in un primo momento, che avvocati e stampa democratica avrebbero provveduto a sanare. Una telefonata mi avvertì a mezzogiorno degli arresti ancora in corso di nostri compagni per cui decisi subito di allontanarmi da casa.

I mandati di cattura colpivano tre compagni dei Collettivi, Marzio [Sturaro] veniva arrestato, Piero [Despali] e Gianni [Boetto] sfuggivano all’arresto. Ma la novità era lo smantellamento del Collettivo dei professori di Scienze politiche con in testa Antonio Negri. Che c’entravano con noi? C’era di che pensare. Da quel momento sarà Radio Sherwood a occupare la scena e a tenere botta alle veline della Procura trasmesse in tempo reale ai giornalisti locali del «Gazzettino» e de «l’Unità». Con gli avvocati passammo al setaccio i mandati di cattura il che ci permise di accertare che tutta l’operazione era orchestrata dal Pci; Antonio Romito, un operaio dell’Utita e teste chiave di Calogero, era un suo militante. Su cosa poggiavano i mandati di cattura? Su prove documentali – i nostri giornali, le nostre circolari interne, i libri di Toni e i testi seminariali di Scienze Politiche – mentre i reati specifici contestati non erano avvalorati da prove concrete. Un’operazione tutta politica, si pensava, destinata a sgonfiarsi in breve tempo. Da quando i reati d’opinione facevano testo? Evidentemente avevo ancora in mente il tentativo, miseramente fallito, orchestrato due anni prima da Calogero per farci fuori. Insomma, non ci preoccupammo più di tanto. E infatti il nostro impegno sul territorio non subì arresti. La rivista continuava a essere pubblicata, la radio a trasmettere, il Centro di comunicazione comunista veneto, una struttura centralizzata pensata per gestire la fase processuale appena aperta, a muovere i primi passi. L’unico scossone, per noi assolutamente imprevedibile, l’11 aprile con i morti di Thiene. Un dramma umano e politico difficilmente aggirabile. Una nuova inchiesta si aggiungerà presto a quella di Padova; contro i nostri compagni di Thiene e Vicenza verrà spiccata tutta una serie di mandati di cattura il cui effetto immediato si tradurrà in una decina di arresti e la costrizione alla latitanza per altri cinque di loro.

Per quello stesso giorno era in programma a Padova una manifestazione nazionale contro gli arresti del 7 aprile che fummo costretti a trasformare in una grande assemblea pubblica di tutto il movimento nazionale a causa dei divieti di polizia e della scelta militare dello Stato che schierò sul campo, una città di circa 300.000 abitanti, approssimativamente 4000 uomini con armamento individuale leggero (pistola, mitra; oppure: pistola, fucile lancia lacrimogeni, manganello), con in dotazione diversi mezzi: autocivetta (decine), decine di pantere, di volanti, campagnole, gipponi, 106 blindati (con relativo militare armato di mitra che spuntava dalla torretta), una ruspa, 5 cingolati tipo M.113, tre carri armati nascosti in caserma più due elicotteri continuamente in volo. Nonostante il clima militarizzato, da vero e proprio assedio, l’assemblea, tenutasi al palazzetto dello sport, fu oceanica, più di 8000 compagni risposero all’appello contro la repressione.

Due giorni dopo, il 13 aprile, in un altro territorio completamente militarizzato, a Chiuppano si tennero i funerali del nostro compagno Angelo Dal Santo, più di 500 compagni e amici filtrano dai posti di blocco per portare un ultimo saluto e onorare Angelo e con lui Antonietta e Alberto. Anch’io, accompagnato dal compagno Riccardo Tavani in rappresentanza dei Comitati utonomi romani di via dei Volsci, dopo avere superato un ultimo posto di blocco riesco ad arrivare in tempo per presenziare alla cerimonia di addio di questo nostro fratello.

Per il resto per tutto quel mese svolsi opera di ricucitura tra le varie strutture e situazioni, soprattutto in quel di Vicenza. Intanto dagli interrogatori dei compagni si capiva il disperato bisogno di Calogero di suffragare con una qualche prova quello che ormai anche agli occhi della stampa si palesava essere un vuoto teorema. Evidentemente il Nostro aveva bisogno della classica pistola fumante. Qualche anno prima ero stato accusato di un fatto di sangue, la gambizzazione del cronista giudiziario del «Gazzettino» Antonio Garzotto. L’episodio, che risale al luglio ’77, mi aveva costretto a qualche mese di latitanza dopodiché, consegnatomi, tornai a piede libero avendo dimostrato che all’ora del ferimento stavo sostenendo un esame all’università. Il capo d’imputazione in verità non era caduto e le indagini si protrassero per altri due anni; infatti solo il luglio del ’79 Calogero, ancora titolare dell’inchiesta, ne annuncia l’archiviazione all’Ufficio competente del giudice istruttore. Per me era la fine di un incubo. Esattamente due giorni dopo, mentre esco dalla sede della radio, sul ponte di Pontecorvo vengo circondato dalla polizia politica e arrestato. Nel mandato di cattura leggevo le accuse che Romito aveva rivolto agli arrestati del 7 aprile con l’aggiunta del ferimento del giornalista Garzotto, rivendicato dal Fronte comunista combattente. L’intenzione era chiara; col mio arresto Calogero dotava di un supporto specifico, un fatto di sangue, il suo teorema. Era la prima tegola a capitarmi tra capo e collo. Appena entrato ai Due Palazzi comincio lo sciopero della fame e delle medicine, una decisione, quest’ultima, molto pericolosa considerando la mia dipendenza da farmaci salva vita. Perché? Ma perché ritenevo una follia l’insieme delle accuse e perché sapevo benissimo trattarsi di una provocazione ordita dalla Procura sulla mia pelle. Chi meglio del diretto interessato poteva valutare l’inconsistenza delle prove formulate a suo carico? Dal carcere vengo subito trasferito in ospedale dove trascorrerò una cinquantina di giorni piantonato in camera ventiquattrore su ventiquattro. I compagni del Centro di comunicazione comunista apriranno una campagna politica per la mia scarcerazione. Si tratterà di una grande mobilitazione di massa che contribuirà a fare chiarezza sulle accuse che mi erano state mosse. Ricordo che fu sistemata sotto una finestra del reparto d’ospedale che mi ospitava una roulotte dove i compagni si davano il turno e ricordo anche i tanti capannelli di solidarietà che si formavano e si scioglievano. La procura però non aveva alcuna intenzione di rimettermi in libertà perché l’occasione era troppo grossa per venire a patti e cedere anche di un millimetro. Per questo motivo dopo cinquanta giorni di tira e molla smetto lo sciopero della fame e delle medicine e rientro in carcere. Eravamo in tanti nello stesso braccio per cui ebbi l’occasione di discutere assieme agli altri la linea processuale che sarà gestita in aula da un gruppo compatto di avvocati provenienti dal Soccorso rosso. Gli incarcerati del 7 aprile si vedranno prolungare di un terzo, come sappiamo, i termini della carcerazione preventiva perché la nuova disposizione di legge, introdotta a dicembre del ’79, avrà valore retroattivo. Era cominciato l’assalto alla certezza del diritto, una delle poche certezze con cui avevamo nutrito fin lì il nostro ottimismo processuale. Il 21 dicembre sarà la volta della ex Assemblea autonoma; vengono arrestati tra gli altri Gianni Baietta e Toni Liverani, tipografi del nostro giornale e Augusto Finzi. Moriranno tutti e tre di tumore, come di tumore moriranno Serafini, Ferrari Bravo e i tanti, troppi, che dopo una lunga carcerazione preventiva saranno assolti. Chissà se Calogero se li ricorda. Se gli arresti del 21 dicembre ’79 e poi quelli del 24 gennaio ’80 (Gianni Sbrogiò e altri ex militanti di Potere operaio) dovevano servire per trovare prove a sostegno del 7 aprile, finirono per aprire la stura agli omicidi delle Br che fino a quel momento non avevano avuto uno spazio politico in zona. A marzo l’ennesimo blitz porta ai Due Palazzi un’altra trentina di compagni, tutti dei Collettivi e tutti accusati da un ex compagno di movimento divenuto nel frattempo tossicomane, tale Maurizio Lovo. Tra i compagni arrestati ci sono anche Andrea Mignone e sua moglie; l’accusa per loro è di avere ospitato dei compagni che avrebbero fabbricato nella loro casa delle molotov. A questa accusa dopo l’arresto se ne aggiunge un’altra, quella di custodire le armi in dotazione ai Collettivi. Queste armi gliele avrei consegnate io. Le due perquisizioni che seguirono a opera della polizia si risolsero in un nulla di fatto, la terza a opera dei carabinieri rinvenne finalmente la pistola fumante tanto agognata dalla Procura, rimpinguata per l’occasione dal Borraccetti, un magistrato notoriamente vicino al Pci. Questo altro mandato di cattura è per me una seconda, pesante tegola. È il pubblico ministero Borraccetti questa volta che mi trovo davanti per l’interrogatorio che non comincia subito perché prima – un vero e proprio coup de théâtre – apre una grossa valigia appoggiata sul tavolo. Scorgo appena il foglio in cui sono numerate le armi che contiene. «Mignone – mi fa – dice che gliele ha lasciate lei in custodia». L’interrogatorio viene subito sospeso perché chiedo la presenza del mio avvocato. Le armi saranno utilizzate, come era facile capire, per allestire in fretta e furia un processo per direttissima allo scopo di provare la banda armata al di là di ogni ragionevole dubbio. Cos’è una banda armata? Come si configura? E le sue armi? Solo sottigliezze giuridiche buone per gli avvocati di parte? Siccome per la Procura quelle armi in valigia erano armi da guerra, ci ritrovammo l’aggravante dell’art. 21 introdotto di proposito per estendere automaticamente i tempi della carcerazione preventiva nei processi politici. Da parte nostra non le consideravamo armi da guerra bensì da sparo, comuni armi da sparo. E le armi da sparo fanno la differenza. La fanno per il conteggio della carcerazione preventiva, per la pena che viene comminata e per le aggravanti che possono essere aggiunte. Se il processo a mezzo stampa orchestrato dal Pci in combutta con la Procura dava per scontato che quelle armi fossero da guerra, quello che si sarebbe svolto in tribunale doveva invece provarlo e non sarebbe stato facile. La direttissima, presidente Campanato, si sarebbe svolta al tribunale vecchio di via Altinate; chi degli accusati non fosse stato portato in aula nei termini previsti, sarebbe stato stralciato dal processo. La mia assenza avrebbe alleggerito la posizione dei compagni in quanto l’accusa delle armi ricadeva solo sul mio groppone. Fortuna volle che mi ammalassi proprio nei giorni immediatamente precedenti la prima udienza a cui non parteciperò per la febbre altissima che mi stava affliggendo. Ciò nonostante la mia posizione non sarà stralciata per cui andrò a processo al quarantunesimo giorno. Evidentemente un altro grande strappo alla procedura. Il processo tutto sommato non andò male. Personalmente fui condannato solo per le armi, da sparo però e non da guerra; in più prendemmo atto che politicamente non eravamo finiti perché sul territorio i compagni continuavano a essere presenti e attivi. Ricordo con piacere la presenza al processo di tutti i nostri familiari, tanti considerando che eravamo 33 gli imputati in aula. Ogni mattina, per tutta la durata processuale, si sono presentati per contestare l’impalcatura messa in piedi per l’occasione dal Pci e dalla Procura; in contemporanea, fuori dal tribunale, una massa di giovani compagni ci esprimeva solidarietà. Evidentemente in quei pochi anni centrali della vita dei Collettivi, esattamente dal ’74 al ’79, avevamo seminato bene e il lavoro di penetrazione sociale era stato buono checché ne pensasse Calogero. Resistette l’accusa di banda armata, formalizzata poi nel processo dell’85. Per quanto mi riguarda, mi ammalo di depressione reattiva proprio alla scadenza termini di tutta una serie di reati; sospesa la pena, vengo scarcerato con gli arresti domiciliari alla fine dell’80, successivamente trasformati in obblighi di residenza, di orari e di firma; in qualche maniera però riprendo la mia attività alla radio, assumo la responsabilità del Centro di comunicazione comunista veneto, seguo la difesa dei compagni ancora in carcere. Tra l’82 e l’83 vengo di nuovo arrestato grazie all’espediente della reiterazione del mandato di cattura sotto altra stesura. La fantasia di Calogero non aveva limiti. Niente di più e niente di meno della riscrittura con altre parole di un atto d’accusa per reati ed episodi già contestati. Con questo espediente furono spiccati diversi mandati di cattura. Tornai allo sciopero della fame raggiungendo questa volta i 48 chili quando normalmente ne pesavo 72. Non potevo assuefarmi al carcere, non lo potevano il mio corpo e la mia mente. Sul tema qualcosa avevo letto anni addietro quando ancora si ventilava una sua possibile riforma. Se ne discuteva in particolare, ricordo, dentro il Psi, più sensibile ai temi civili. E poi le rivolte dei detenuti erano state frequenti nella prima parte del decennio ed era stata Lotta continua a farsene carico. Tra le due opzioni allora in campo, quella di riformare l’istituzione oppure di abolirla, istintivamente ero per la seconda; l’idea di un altro carcere invece neppure mi sfiorava. È stata durante la mia prima detenzione che leggo di Foucault Sorvegliare e punire e Microfisica del potere. Se non puoi abolirlo, puoi però evadere e tutte le forme sono buone. Così anche questa volta la nuova scarcerazione mi permise di riprendere il mio posto nella battaglia processuale di tutti i giorni. La mia storia penale si chiuderà con la sentenza in Corte d’Assise: condannato per costituzione di banda armata, assolto per tutta la sfilza dei reati specifici.

Quanto alla struttura dei Collettivi, nulla sarà come prima; i vecchi organismi finiranno per scomparire, altre strutture più agili prenderanno il loro posto e, soprattutto, tutta una serie di nuovi temi finiranno per imporsi alla nostra attenzione. Penso in particolare al nucleare e all’informazione. Una cesura nella storia dei Collettivi? Certamente non netta e se c’è stata, è proceduta per riscontri e verifiche successive. In quella situazione e con alcuni determinanti compagni che resteranno in carcere per oltre cinque anni, forse non potevamo fare di più. Dobbiamo anche considerare lo sconquassamento del quadro sociale attorno a noi; penso alle nuove figure lavorative afflitte dall’ideologia del lavoro, estranee alla nostra storia e al nostro comune sentire, penso alle trasformazioni nel modo di produrre, ai rivolgimenti nei costumi e nella cultura, soprattutto al ritardo con cui abbiamo cominciato a percepire tutto questo.

Abbiamo colto, agendola dall’interno, una opportunità storica di cambiamento radicale dei rapporti sociali in favore della nostra classe di appartenenza, e pur avendo perso questo treno io credo che ne è valsa la pena nel lungo cammino intrapreso per arrivare all’oggi. Ogni esperienza attraversata, ogni nuova realtà costruita con la nostra azione politica ha modificato in meglio non solo la nostra vita di militanti ma l’ha modificata per lunghi anni in favore di ogni sfruttato che scegliesse l’organizzazione della lotta per affrancarsi dalle regole capitalistiche.

Ancora oggi noi viviamo la rendita positiva delle relazioni sociali e interpersonali create 50 anni or sono, certo nessuno di noi si è arricchito come vorrebbe il canone del successo nella società del capitale ma collettivamente siamo riusciti a essere ricchi di vita, abbiamo saputo studiare, creare lavori, inventarci luoghi di aggregazione sociale sempre funzionali direttamente al nostro progetto di rottura rivoluzionaria, abbiamo realizzato una vita piena di senso ed esperienze positive non facendoci mancare l’essenziale. Certo siamo arrivati a una sconfitta dopo avere subito sofferenze, carcerazione, la morte di troppi nostri compagni e la domanda a cui dovremmo tutti rispondere è: ne è valsa la pena?

Ebbene credo che una risposta, magari fin troppo iconografica, possa essere trovata negli avvenimenti di questi ultimi anni in Sudamerica, là dove la lotta radicale contro i fascismi e lo sfruttamento capitalista ha originato tante forme di guerriglia e lotta armata ben prima di noi. Due presidenti progressisti sono stati eletti a capo dei loro paesi dopo anni di dominio totale della peggiore destra neoliberista; il primo nel 2010, Josè Pepe Mujica dirigente dei Tupamaros con alle spalle 12 anni di carcerazione in isolamento e tortura in Uruguay, il secondo nel 2022, Petro Gustavo, dirigente del Movimento 19 aprile in Colombia. L’esito della storia del conflitto di classe non si ferma (cristallizza?) in una sconfitta, è sempre una lotta continua e di lunga durata.



Immagine: spezzone di corteo dei Collettivi politici veneti

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