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Festìna lente



Questo testo contiene un prelibato ricettario a cui farà seguito un secondo, il 13 agosto.


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L’amico Silvano Minari ricordava spesso il motto latino, attribuito all’Imperatore Augusto dallo storico Svetonio, che unisce in un ossimoro due concetti apparentemente antitetici, velocità e lentezza, circoscrivendo così, e concentrando, un modo di agire senza indugi, eppur con cautela. Ribadendo anche, sempre Silvano, quanto fossimo entrambi profondamente intrisi di quel doppio, ma vitale, complesso e felice modus operandi: affrettarsi, quando il caso, ma con cura e cautela. Tra gli svariati e prolungati, intensi e lunghi momenti trascorsi con Silvano, spiccano, per esempio, le ore trascorse a pulire e tagliare funghi, prevalentemente porcini e finferli appena colti, con sul tavolo uno straccetto appena appena inumidito, l’apposito spazzolino, coltelli e coltellini, taglieri, bicchieri e una bottiglia di rosso. Alcuni, soprattutto gli esemplari migliori, erano talvolta utilizzati subito in cucina, o in carpaccio, tagliati fini fini e conditi con solo un pizzico di sale e pepe e un filo d’olio, o grattugiati su una pasta fresca… ma ancora calda; la maggior parte erano invece tagliati all’uopo per l’essiccatura, per risotti o piatti in umido con polenta. In tempi di cibi rapidi, qualche ricetta lenta può in effetti permettere di riassaporare i periodi dilatati della preparazione e gli ingredienti dimenticati di una tradizione molto pratica, e al contempo ricca ed essenziale. Certo, le proposte di cucina veloce spopolano e incontrano favori quasi unanimi, i cibi precotti o congelati divengono pressoché normali, il dilagante food delivery e le diete ad personam sono all’ordine del giorno: tuttavia, con moto ostinato e contrario vorrei riandare a preparazioni un po’ elaborate e dilatate nei tempi, in grado di farci riassaporare non solo l’importanza degli elementi principali, ma soprattutto il gusto dei passaggi, dei processi elaborativi e dei momenti ciclici del lavorio culinario. Le materie prime e i tempi sono parte essenziale e costitutiva, insieme al fuoco e al cuoco, di ogni cucina: prendersi tempo per cucinare può esser anche un modo salutare e cosciente per prendersi cura di sé e dei propri commensali, ovvero dei nostri compagni (di coloro, cioè, che «condividono con noi il pane», o, in generale, il cibo). Non sempre, e certo neanche tanto spesso per gran parte di noi, è possibile – o facile – prendersi delle ore, magari distese anche in più giornate, per cucinare: ma riuscire a farlo, anche sporadicamente, può dar luogo a soddisfacenti ritualità autoformative: gusto, sensi, conoscenze, dimenticanze e ricordi, tempi diversi e immagini ne possono uscire ogni volta rinnovati e corroborati da nuove sfumature e nuove scoperte. Pure in questo caso, come in molte altre attività creative e attive, si rivela quanto mai pertinente e pregnante l’accezione francese – a me tanto cara – del verbo conoscere, in cui connaître, arricchita dalla congiuntura di co e naître, può significare al contempo «nascere insieme», rinnovarsi, cioè, ogni volta nel mentre si compiono delle attività, insieme alle componenti stesse e a eventuali soci che vi partecipano. La cucina, del resto, è anche memoria, sia di profumi, gusti e sapori che rimangono impressi a nostra insaputa più di quanto possiamo immaginare, o forzatamente cercare di rievocare, sia di relazioni, processi, economie, necessità, socialità e tempi diversi che risuonano e agiscono molto profondamente. Le seguenti ricette riguardano anche tutto questo, ma pure qualcos’altro: si tratta, in effetti, di piatti che in certo qual modo si potrebbero definire autonomi, nel senso che, soprattutto con gli stili di vita quotidiani, ognuno di essi può già esser sufficiente e completo a sé, come in effetti è. E può rappresentare già, ciascuno di per sé preso, come un viaggio perlustrativo alla scoperta di ulteriori soluzioni ma anche di conferme, di nuove combinazioni ma anche di rievocazioni impreviste, di territori già conosciuti ma anche di terre ignote.


Sarde in saor

Saor, in dialetto veneto, significa «sapore», e gli ingredienti, semplici e poveri ma magistralmente amalgamati, vedono protagoniste in questa portata d’entrèe le sarde, con cipolle e aceto, per questo piatto che si fa risalire, addirittura, al XIV secolo. La versione veneziana del «saor» si affianca a molte varianti affini elaborate autonomamente (il «carpione» dei laghi di Lombardia, lo «scapece» del mezzogiorno d’Italia, dallo spagnolo «escabeche», il «cisame», ecc. ecc.), accomunate dall’idea fondamentale di trattare il pesce (o le verdure) con aceto, per esaltarne le caratteristiche e allungarne la conservazione; e anche, secondo le antiche prescrizioni della dietetica antica, per compensarne la qualità «fredda» e renderlo più digeribile, e infine, in questo preciso caso, per «sgrassare» e rendere più delicata la caratteristica e per molti versi squisita e apprezzata sapidità delle sarde. Il saor presenta tuttavia, nel nostro piatto, il segno chiaro ed evidente della venezianità sotto diversi punti di vista: la cipolla, che dagli orti delle isole lagunari o di Chioggia, imbiondita e resa dolce da una gentile stufatura, caratterizza con dolcezza e aroma inconfondibile più di una preparazione tipica della cucina lagunare (vedi il fegato di vitello alla veneziana e il baccalà alla cappuccina); le spezie, poi, con uva «sultanina» e pinoli, evocano il ruolo di Venezia di porta d’oriente, richiamando il carattere gentile e il «garbo» che abitano l’anima di questa città; per concludere con la semplicità (da non confondere con immediatezza) della preparazione, e la sobrietà nell’utilizzo degli ingredienti, che dicono della raffinata praticità veneziana. La preparazione del saor si nutre quindi dell’ambiente in cui nasce, impregnandosene proprio come le sarde fritte del loro garbato condimento, fino a farsi, nella versione popolare, decisa e rude, intensa di cipolla e aceto di vino, e nella versione più nobile ed elitaria, ingentilita e profumata di preziose spezie e aromi. Ma queste variazioni non sono certo il saor dei vecchi pescatori veneti, che preparavano questo piatto a bordo delle proprie imbarcazioni utilizzando i prodotti presenti nella stiva, e difficilmente uvetta e pinoli, piuttosto pregiati, ne facevano parte. Ora, le proporzioni tra cipolle e pesce sono oggetto di accese diatribe tra gli stessi veneziani, e pare che 2:1 sia la proporzione classica: 2 kg di cipolle per ogni kg di sarde. Ma questa proporzione, e ulteriori variazioni sul tema, come l’aggiunta dell’uvetta ammollata e/o pinoli, oppure l’uso del vino bianco al posto di tutto o buona parte dell’aceto (per rendere il piatto più delicato e meno aggressivo), seguono un po’ il gusto e la tradizione di chi cucina. Le sarde in saor sono soprattutto l’emblema del Veneto, e fanno parte della sua tradizione gastronomica e storica. La tradizione veneziana vuole anche che, oltre che nelle famiglie venete, questo venga preparato come cibo tradizionale per la Festa del Redentore che si tiene a Venezia, festa estremamente sentita dagli abitanti della laguna, che si festeggia la terza domenica di luglio. Eccone dunque la ricetta da me rielaborata secondo aggiustamenti via via preferiti e affinati, che non segue le proporzioni canoniche (soprattutto per quanto concerne le cipolle), ma che ritengo ottima per l’equilibrio delle parti: le sarde, in questo rapporto, sono «sgrassate» e debitamente bilanciate dalle cipolle, che però non prevalgono, mentre le ulteriori componenti offrono ulteriori, minime ma sensibili, piacevoli sensazioni. Ingredienti: 1/2 kg di sarde fresche, 500 gr di cipolle (meglio se bianche e rosse in pari misura), farina qb, olio di semi qb, olio evo qb, sale e pepe, 1 cucchiaio di zucchero, 70/80 ml di aceto bianco debitamente corretto con un aceto «aromatico» (per esempio dell’aceto di grignolino, o qualche goccia di balsamico), un pugno di uvetta, 1 pugno di pinoli. Realizzazione: pulire le sarde, avendo cura di togliere la lisca ma lasciando la coda attaccata. Lavarle. Passarle, così aperte, in un piatto nel quale si sarà disposta della farina, dunque friggerle in olio di semi (di girasole va benissimo) girandole delicatamente almeno una volta. Disporle dunque in un piatto intercalando tra i vari strati della carta assorbente che ne trattenga parte dell’olio fritto. A parte, affettare le cipolle a fette sottili e farle appassire abbastanza lentamente in olio evo. Salarle (poco poco), peparle, e unire lo zucchero e l’aceto, mescolando ben bene il tutto e tenendolo sulla fiamma fino a quando non evaporano aceto e acqua contenuta nelle cipolle. Una volta cotte, dopo aver preventivamente ammollata in acqua tiepida l’una, e velocemente scaldati gli altri, aggiungervi uvetta e pinoli e spegnere. Ora, in una teglia anche leggermente alta, alternare qualche strato di sarde a cipolle calde. Lasciar riposare il tutto per un giorno al fresco (anche in frigo, ma non necessariamente), e servire freddo. Abbinamento consigliato:«Terre Silvate» La Distesa, il delizioso bianco d’ingresso di Corrado Dottori, e non si esagera quando lo si definisce un vino dal rapporto qualità/prezzo speciale. Corrado Dottori è indubbiamente uno dei volti più importanti e rappresentativi del vino artigianale, non solo per i suoi liquidi splendidi e cangianti, ma anche per la cultura e la serietà che lo contraddistinguono. Da sempre sostenitore di un approccio non interventista, Corrado è probabilmente il massimo esponente di quella grande uva a bacca bianca che è il Verdicchio, troppo spesso mortificata da interpretazioni impersonali e statiche. Ci ritroviamo di fronte a uno dei migliori bianchisti d’Italia, perciò non resta che godere delle sue creature, partendo da questo spensierato nettare. Il «Terre Silvate» è frutto di un uvaggio costituito in prevalenza da Verdicchio e un piccolo saldo di trebbiano. In vigna non si fa ricorso ad alcuna sostanza chimica o di sintesi, nel rispetto assoluto di vitalità del suolo e della pianta, mentre in cantina si prosegue con fermentazione alcolica spontanea senza che avvenga alcuna chiarifica o filtrazione. Il liquido affina per 6 mesi in vasche di cemento e viene imbottigliato solo con una irrisoria dose di anidride solforosa. Si presenta nel bicchiere con veste gialla, luminosa e vivace. Un naso gentilmente bucolico restituisce note di fieno, fiori di campo, lime e mela verde, in quello che è a tutti gli effetti un profilo schietto, ma di netta definizione. Il sorso è pericolosamente scorrevole e dinamico, mix perfetto tra polpa, acidità e vena salina. Grandiosa bottiglia quotidiana.


Risotto col tastasal

Il «tastasal» è la pasta di salame fresca: non è facilissimo trovarne di buona qualità, come è un «problema» rintracciare della buona carne di maiale in generale. Si può trovare nei supermercati, anche se, ahimé, non tutti. Va detto che con le ricette tradizionali il problema principale sono spesso gli ingredienti qualitativamente «modificati», rispetto a qualche decennio fa: è da notare poi, nello specifico, che il salame tipico veronese (zona da cui tale ricetta proviene), contiene quasi totalmente carne di maiale, mentre in Lombardia e altre regioni la pasta in commercio ha un maggior contenuto di carne di manzo. Un macellaio di fiducia e di qualità può dunque esserci d’aiuto, oppure si può correggere ciò che si trova in commercio con del capocollo (braciola) di maiale macinato o della soppressa senz’aglio (perché quella con l’aglio, quando si riesce ancora a trovarla, è meglio gustarsela in purezza, magari con del buon pane, tipo quello toscano, senza sale, o tipo la biova). Ingredienti: 350 gr di riso (meglio se Vialone nano, dai chicchi lievemente più piccoli e tondeggianti rispetto al Carnaroli, ma anche quest’ultimo non sfigura), 300 gr di tastasal, 1 lt di brodo bollente (meglio, se possibile, di carne), 30 gr di burro, ½ cipolla finemente tritata, ½ bicchiere di vino bianco secco, parmigiano grattugiato. Realizzazione: far sciogliere a fuoco basso il burro con la cipolla, senza farla imbiondire. Aggiungere il riso e farlo insaporire brevemente, quindi bagnare col vino. Mescolando, e facendo evaporare il vino, aggiungere il tastasal in modo da farlo amalgamare al meglio col riso, sfilacciandolo in piccoli brandelli con le dita. Aggiungere quindi tutto il brodo e mescolare bene a fuoco vivo fino a ebollizione. Quindi coprire la pentola e abbassare la fiamma al minimo, senza più rimestare. A cottura ultimata, intorno ai canonici 18 minuti, aggiungere il parmigiano e una noce di burro. Un paio di minuti di mantecatura e il risotto è pronto da servire. Abbinamento consigliato: «Ampelio», vino rosso toscano di pregio prodotto dalla rinomata azienda agricola La Torre, di Montalcino: viene prodotto con uve di Sangiovese vinificate pure al 100%. Il grappolo del vitigno «Sangiovese grosso», sottovarietà «Brunello di Montalcino», si presenta con due ali laterali. La profumazione è intensa ed è conferita al frutto dall’altitudine che attraverso elevate escursioni termiche sviluppa in particolar modo le sostanze aromatiche delle bucce. La forte esposizione al sole è alla base del grande corpo che si ottiene nella vinificazione. Il vino Ampelio si presenta all’esame organolettico con un intenso colore rosso rubino, l’aroma è intenso e si esprime con sentori di fiori e di spezie della macchia mediterranea. Il gusto è flagrante e speziato, con note di frutta di bosco e retrogusto lungamente persistente.


Polenta e baccalà alla… trevisana

Certo, la classica e rinomata ricetta del baccalà è quella «alla vicentina»: in questo caso, tuttavia, vorrei riproporre quella a cui sono più concretamente, ovvero affettivamente, tradizionalmente e gustativamente legato, provenendo essa, cioè, da mia madre, e dunque dalla provincia di Treviso, e per esser più precisi da Fagarè della Battaglia (frazione di San Biagio di Callalta), borgata situata sulla riva destra del Piave e ricordata principalmente (e tristemente) per il suo Ossario, dove riposano i resti di oltre diecimila caduti, più della metà dei quali ignoti, e all’esterno del quale, lungo le siepi di cinta, sono esposti i due pezzi di muro, provenienti da una casa posta presso la vecchia stazione, su cu i soldati lasciarono le celebri scritte «È meglio vivere un giorno da leone che cent’anni da pecora», e «Tutti eroi! O il Piave, o tutti accoppati!». La versione materna, in effetti, non si discosta molto da quella ufficiale, fatta eccezione per la cura e la «raffinatezza» (naturalmente chi scrive gli è evidentemente affezionato) di alcuni particolari, ma soprattutto (forse collegabile alla stessa «raffinatezza»…) per l’accostamento prettamente distintivo (e a me caro) della polenta bianca (tipicamente trevigiana, veneziana e padovana) in luogo di quella gialla, essendo la prima ottenuta dalla macinazione di un mais bianco, chiamato anche Biancoperla, tendenzialmente più delicata e di grana più fine rispetto alla più diffusa polenta gialla, più saporita e grossa. Ma veniamo al baccalà, perché qui le disquisizioni si fanno così particolari (e «campanilistiche»), che solo in queste province, intorno a Venezia, il termine baccalà significa una cosa ben precisa, e cioè stoccafisso, mentre nel resto del mondo (a cominciare da Ravenna, Bologna, Livorno, Brescia, Genova, e Marsiglia, Barcellona, Valencia, Lisbona, Porto, Vigo e finanche in America Latina) esso denota, nel «migliore» dei casi lo stesso merluzzo nordico, o merluzzo bianco, o semplicemente merluzzo (ovvero Gadus morhua), ma nella sua versione salata (e non essiccata), nel «peggiore» (e più diffuso) il nasello (Merluccius merluccius, dunque tutt’altro altro genere di pesce). Il sottilizzare su tali questioni lo motiverei senz’altro, in buona parte, dalla incalcolabile serie di volte in cui ho provato a fidarmi della dicitura baccalà (o bacalao), contando di rigustare, almeno in parte, il baccalà di casa, ma ogni volta «deluso» (persino piacevolmente e quasi sempre con ilarità) da tutt’altra pietanza. Non è comunque che lo stoccafisso sia consumato nel solo Veneto orientale, è che lì è chiamato baccalà, a differenza, appunto, del resto del mondo, dov’è più variamente nominato nelle sue varie accezioni (per esempio in Italia centrale o meridionale è il pescestocco, o semplicemente lo stocco, mentre in Norvegia è stokkfisk, nei paesi di lingua inglese sockfish, e così via) Ingredienti: uno stoccafisso della migliore qualità (tipo Ragno) da ca. 1 kg, una decina di scalogni piccoli, olio evo qb, vino bianco secco qb, 6/7 acciughe, due cucchiai di passato di pomodoro, latte qb, sale qb. burro qb, 500 gr di farina da polenta bianca. Realizzazione: sezionare lo stoccafisso in due tre parti e lasciarlo a bagno per 48 ore circa, cambiando l’acqua una volta, a metà ammollo. Quindi, rilavatolo, pulirlo accuratamente e mondarlo delle lische, delle branchie, della pelle e in generale delle «parti più scure»… in modo da averne soltanto le carni reidratate: lasciarle scolare. Soffriggere quindi con la dovuta delicatezza di fuoco gli scalogni finemente tagliati, in abbondante olio evo, stendere il baccalà mondato in una teglia, e versarci sopra il soffritto. In una ciotola con dentro un bicchiere di vino bianco, frantumare e sciogliere le acciughe e due cucchiai di passata di pomodoro (proprio poca dunque) e versare nella teglia insieme al pesce e al soffritto. Rimestato accuratamente, aggiungere del latte fino a coprire il tutto, ben amalgamato. A seconda delle possibilità o delle preferenze, coperta la teglia, cuocere ora a fuoco molto lento, o in forno intorno ai 100°-120° C, per tre ore e mezza quattro, dopodiché aggiustare di sale alla bisogna e aggiungere due tre noci di burro a mantecare. Un’oretta abbondante prima del termine della cottura del baccalà, si può avviare la polenta: per questa, far bollire 3 litri d’acqua con l’aggiunta di un cucchiaino di sale grosso, e versare la farina a pioggia, poco alla volta, mescolando ben bene con una frusta. Quando la polenta comincia ad addensarsi, continuare a lavorarla e rimestarla con un mestolo di legno, abbassando la fiamma e rigirando sempre, per evitare che si formino grumi. A dire il vero, non è affatto indispensabile girarla continuamente, l’importante è tenerla d’occhio e farla cuocere molto lentamente, e intervenire alla bisogna anche ogni cinque dieci minuti… Dopo circa tre quarti d’ora la polenta è pronta. Rimane il tempo per concludere la cottura del pesce di cui sopra. Portato tutto a termine, non resterebbe che disporsi a tavola, servire e gustare ciò che per ora è solo un’infusione aerea, un vapore profumatissimo: difficile resistere. L’ideale, tuttavia, se se ne hanno la possibilità e la pazienza, sarebbe ora lasciar riposare e asciugare, sia il baccalà che la polenta: poche ore dopo, o il giorno dopo, tagliata a fette e abbrustolita la polenta (alla piastra, in forno o in padella), e riscaldato il baccalà, saranno ancor più gustosi, concentrati e appetitosi. Abbinamento consigliato: Pecorino «Fiobbo» della cantina marchigiana Aurora, un vino intenso e dal profilo aromatico ricco ed espressivo, che nasce nella zona di Offida, quasi al confine con l’Abruzzo. Quest’antico vitigno a bacca bianca, originario del centro Italia, è stato riscoperto grazie a un rinnovato interesse generale per tutte le varietà autoctone e ha subito dimostrato notevoli qualità. Apprezzato da giovane per le sue dense note fruttate, è un bianco capace di invecchiare molto bene, con interessanti evoluzioni aromatiche che ne aumentano la complessità e la profondità gustativa. Si tratta in effetti di un vino armonioso e di buona struttura, particolarmente adatto ad abbinamenti con pietanze saporite, primi piatti, pesce al forno o carni bianche delicate. Al termine della pigiatura, il mosto fiore fermenta con lieviti indigeni in tini d’acciaio e per il 30% in botti di rovere. Prima dell’imbottigliamento, matura per 10 mesi, sempre in acciaio e in legno. Il vino si presenta con un colore giallo dorato piuttosto intenso. Il bouquet sprigiona aromi di frutta matura, susine, cenni di frutta tropicale, sfumature di anice stellato ed erbe officinali. Al palato ha un buon corpo, con un sorso ampio, ricco e profondo. Il finale è persistente, sapido e di vibrante freschezza. Un’etichetta imprescindibile per chi vuole conoscere il vero volto del Pecorino di Offida.


Pinsa veneta

La pinza è un «dolce» tipico della cultura contadina veneta e trentina, preparato soprattutto durante le festività di inizio anno, per l’Epifania, in occasione del panevin (grande falò per bruciare la «vecchia»… annata, che s’intende lasciarsi alle spalle). Tutto sommato è una polenta arricchita di elementi grassi e dolci… Ingredienti: 250 g di farina per polenta (sia tutta gialla sia, volendo, metà bianca e metà gialla), 100 g di zucchero, 1 l di acqua, 60 g di fichi secchi, 40 g di pinoli, 60 g di uvetta, 120 g di burro fuso, zucchero a velo q.b., semi di finocchio q.b, (volendo anche un paio d’uova, un bicchierino di grappa o un bicchiere di vino bianco forte). Realizzazione: l’inizio è del tutto identico alla preparazione di una polenta, anche se in questo caso la cottura delle farine è preferibile non sia completata: bisogna, in un certo senso, «scottare» la farina al massimo per mezz’ora. Quando la polentina ha comunque assunto una certa consistenza, la si porta, intiepidita, in una capiente ciotola e si aggiungono burro, zucchero, poco sale e la frutta secca e candita: nocciole, noci, mandorle o pinoli, uvetta (fatta rinvenire per tempo, meglio se in ammollo nella grappa), fichi secchi (in parte sostituibili con prugne secche). Si possono anche inserire delle mele tagliate a fette sottili, ammorbidite e poi spadellate in poco burro, e, volendo, uova, grappa o vino bianco di una certa struttura. Alla fine, deve risultare un impasto abbastanza sodo, in grado di restare in forma. La cottura avviene in forno a 180 °C per circa un’ora o poco più, a seconda dell’ampiezza, in uno stampo a sponde alte, imburrato e cosparso di pane grattato. La parte superiore della torta può essere cosparsa di fiocchi di burro per non asciugarsi troppo e fare una bella crosticina dorata. La «pinsa», quindi, va servita tiepida. Potendosi conservare in frigorifero a 4 °C per alcuni giorni, conviene ripassarla in forno prima di servirla. Abbinamento consigliato: «Il Pan del Bric», passito ottenuto da uve stramature di Moscato bianco vendemmiato a mano dall’azienda agricola La Viranda: non contiene additivi chimici e viene preparato con soli lieviti autoctoni. La maturazione avviene in botti di legno per 18 mesi, ciò che garantisce a questo vino dolce di evolversi in modo completo.

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