Il 19 Ottobre 2013 la città di Roma fu invasa da decine di migliaia di persone che manifestarono contro le politiche di austerità con cui il governo Letta, in continuità con il precedente governo Monti, intendeva affrontare la crisi del debito sovrano che aveva investito l’Italia e l’Europa. Quella manifestazione fu uno degli ultimi colpi di coda di un movimento nato con le mobilitazioni studentesche dell’Onda di qualche anno prima, che si inseriva in un eterogeneo ciclo di lotte globali. All’epoca, la strategia discorsiva di media e istituzioni tentò di scongiurare l’apertura di un possibile spazio di ricomposizione politica mettendo in contrapposizione i giovani «sconfitti» della globalizzazione, che si dedicavano all’ozio e alla violenza di piazza con i giovani «intraprendenti», che si impegnavano nello sviluppo di fantomatiche startup. Per noi quell’ordine del discorso non era mera ideologia utile a delegittimare un movimento di massa al contrario, coglieva una segmentazione reale della composizione di classe e una gerarchia tra diverse figure del lavoro. A quasi dieci anni di distanza da quell'evento riproponiamo, come primo contenuto di archivio (come anticipato nel testo di presentazione di questa sezione pubblicheremo periodicamente vecchi articoli per la loro significatività politica), i commenti a caldo di Carlo Vercellone, Salvatore Cominu e Simona de Simoni a cui chiedemmo di intervenire sui temi appena ricordati. Due lustri dopo se essi conservano una loro schiacciante attualità ci restituiscono anche la cifra di un nostro fallimento. Prendiamo ad esempio la questione della meritocrazia (di cui la contrapposizione tra fannulloni e startup è la prosecuzione), che ha segnato profondamente quella stagione, durante la quale il merito veniva utilizzato dall’«alto», come strumento di delegittimazione delle lotte ˗ come abbiamo visto ˗ e contemporaneamente dal «basso» come dispositivo polemico contro i processi di declassamento di cui parlano i commenti di Vercellone e Cominu. Su di essa siamo riusciti a produrre delle radicali critiche teoriche, come ha fatto Simona De Simoni con il suo articolo che riproponiamo, tuttavia non siamo stati capaci di aggredire il nodo materiale che celava. In altre parole, non siamo riusciti a costruire, attorno alla necessità di contrastare i processi di declassamento, delle forme organizzative credibili ed efficaci. Questo è il principale problema irrisolto che ci ha impedito di abitare produttivamente il «momento populista» e che ci ha spinti ad orientare la ricerca sulla crisi di mediazione del ceto medio. Oggi il tema del merito e la contrapposizione tra «intraprendenti» e «fannulloni» continua ad essere brandita dall’alto (ad esempio contro il reddito di cittadinanza) ma vive ancora come istanza polemica in pezzi di composizione di classe? Oppure si è trasformato in qualcosa d’altro? O ancora, come alludono gli articoli di seguito, la crisi ha sbarazzato del tutto qualsiasi illusione nella promessa del capitalismo? Un altro tema strettamente connesso a questo del merito è quello del lavoro cognitivo e parallelamente del lavoro autonomo affrontato dall’articolo di Salvatore Cominu. Come il merito anch’esso rappresenta un nodo problematico e irrisolto di stringente attualità ma che ha radici ben più profonde perché affonda nelle trasformazioni «post-fordiste», del capitalismo (soprattutto italiano) degli anni Ottanta e in una specifica formazione del ceto medio, su cui non a caso Machina ha aperto un cantiere di riflessione. Anche in questo caso l’incapacità di costruire proposte organizzative all’altezza delle ambivalenze del lavoro cognitivo e del lavoro autonomo ci ha impedito di pesare politicamente in questi anni di crisi. Il risultato paradossale è stato che invece di assistere ad un approfondimento delle analisi abbiamo osservato la scomparsa delle riflessioni su questo tema dal campo della «teoria critica» che si è sempre di più allontanata da un approccio materialista e che più parlava di soggettività più perdeva di vista i soggetti concreti. Con la riproposizione di questi articoli intendiamo rilanciare la necessità di un dibattito sempre più urgente.
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Carlo Vercellone
La logica del declassamento ha ormai rimpiazzato quella della dequalificazione nei processi di svalorizzazione della forza lavoro e di segmentazione della composizione di classe del lavoro cognitivo. La crescita della precarietà e delle ineguaglianze salariali si estende sempre più all’insieme degli strati sociali con meccanismi che non hanno in sostanza quasi più nulla a che vedere con differenze oggettive nei livelli di formazione e della qualità del cosiddetto capitale umano. Come lo rileva l’ultimo libro di Cohen, Homo oeconomicus, individui con percorsi pressoché identici relativi agli anni di studi o all’esperienza professionale, vedono talvolta i loro destini divergere in modo completamente imprevedibile. Le differenze in termini di remunerazione e condizione d'impiego possono divenire considerevoli anche per due diplomati dello stesso anno della stessa università o grande école. Gli economisti chiamano «ineguaglianza residuali» questi fattori di differenziazione interna al salariato che sembrano dipendere più dal «caso» che dalle qualifiche e competenze effettive. In realtà non hanno nulla di residuale: nel corso degli anni Novanta, sempre secondo Cohen, questi fattori spiegano più di due terzi del processo di approfondimento delle differenze di salario in Francia! Come spiegarlo? Visto che non crediamo al caso, l’ipotesi più plausibile mi sembra essere la seguente. Si tratta di processi di segmentazione che permettono di catturare il valore creato socialmente dal lavoro cognitivo, dividendolo in due grandi categorie: una massa di lavoratori precari che subiscono un processo potente di pauperizzazione; una minoranza, in particolare il cognitariato della finanza, cooptata in forme diverse nella logica della rendita. In mezzo, oscillando tra questi due poli, si trovano probabilmente i cosiddetti auto-imprenditori.
A questo proposito, due elementi mi sembrano molto significativi: a) grazie alla deregolamentazione del settore finanziario, i lavoratori di questo settore assorbono una parte crescente della massa salariale globale: tra il 1980 e il 2010, negli Stati Uniti, questa parte è passata dal 6% al 11%. In Francia e nella zona euro questa crescita è stata minore (dal 6,5% al 8%), ma bisogna tener conto dell’effetto legato alla drastica diminuzione dei posti di lavoro (cassieri ecc) in seguito alle ristrutturazioni del sistema bancario; b) la forza lavoro «più qualificata», in particolare quella impiegata in attività di trading, gode di una vera e propria rendita salariale. Secondo certi studi, questi lavoratori si possono avvalere di remunerazioni dal 30% al 50% superiori a lavoratori cognitivi che dispongono delle stesse competenze e dello stesso livello di qualificazione, ma sono impiegati in altri settori.
Ma non è tutto, «Alternative Economiques» cita uno studio della BRI secondo il quale quando l’impiego nel settore finanziario supera il 4% dell'impiego totale, gli effetti sulla crescita della produttività divengono globalmente negativi. Oltre agli effetti perversi della finanza, la ragione è che il settore finanziario priverebbe il resto dell’economia di competenze essenziali che potrebbero essere utilizzate in modo socialmente più efficace. L’interpretazione di questo dato è difficile (dovrei procurami lo studio della BRI), ma questa correlazione è in ogni caso un’ennesima dimostrazione della contraddizione tra la logica del capitalismo cognitivo e le condizioni sociali alla base di un’economia fondata sul ruolo motore del sapere.
Per finire su precari oziosi e auto-impreditori, un altro elemento interessante di analisi è quello proposto da Gorz nel 2003, ne L’immateriale, nel capitolo sui dissidenti del capitalismo digitale, quando accanto al declassamento subito, identificava un declassamento volontario, espressione di un rifiuto dell’alienazione del lavoro cognitivo e della logica del divenire imprenditori di se stessi. Sono pagine utili da rileggere anche per comprendere meglio a distanza di dieci anni l’evoluzione della composizione e della soggettività del lavoro cognitivo.
Simona de Simoni
«Quindi, guardate bene... no, carine, bisogna che lo facciate... guardate da vicino. Vediamo che cosa resta»
Z. Smith, Denti Bianchi
La dicotomia «sconfitti» e «intraprendenti» si presenta come l'ultimo approdo retorico, l’ultimo dispositivo discorsivo, con cui si è cercato di squalificare la soggettività ricca, variegata e conflittuale che si è riunita ed espressa a Roma nella manifestazione dello scorso 19 ottobre. Gli sconfitti, infatti, sarebbero tutti coloro che non sanno rimboccarsi le maniche e «inventarsi un lavoro», come spesso ci si sente dire. Sarebbero persone in difetto di volontà e creatività. Gli intraprendenti, al contrario, sarebbero inarrestabili inventori del proprio futuro e, per questo, destinati al successo. In tal modo, si mobilita un vecchio e consolidato dispositivo di soggettivazione capitalistica: lo schema già individuato da Max Weber in cui il piano etico e quello della razionalità economica transitano l'uno nell'altro senza alcuna mediazione. All'interno di questo paradigma, la vita buona si definisce come vita messa a valore nei termini della valorizzazione capitalistica. D'altro canto, il carattere apodittico e tautologico dello schema – che determina un intero orizzonte di valori – è già perfettamente riconosciuto dallo stesso Weber quando riconosce nella dottrina calvinista della predestinazione la realizzazione perfetta del primo «spirito del capitalismo». Qui, il successo – sempre etico, professionale ed economico al contempo – si configura come un dono concesso in sorte per natura, coltivato e perseguito tramite virtù personali e sempre riconfermato in un processo circolare. La rivisitazione pop e secolarizzata della credenza altro non è che la leggenda del/della self made man/woman, del «farsi da soli/e» secondo cui il lavoro, la ricchezza e addirittura la felicità altro non sarebbero che il compenso per l’esercizio impeccabile di virtù individuali, agite e messe a valore in modo isolato. Ma, e qui sta uno dei punti su cui il dispositivo comincia a scricchiolare, il godimento degli eventuali frutti di tanta virtù e impegno, si profila come un miraggio tutt’al più compensato da qualche palliativo isolato da fruire in modo solitario. Su questo punto, non si tratta di agitare moralismi più o meno reazionari su forme di vita anche cinicamente conformi e conformate, ma soltanto di riflettere sulla forza con cui un immaginario mobilita ed è mobilitato da energie e potenzialità soggettive. Sotto i colpi dell'austerity, l'attrattiva calvinista sembra definitivamente fiaccata. Vediamo bene e da vicino, vediamo cosa resta. Guardare da vicino non significa svelare con un colpo di bacchetta magica cosa sta dietro l'immagine fittizia. Non significa – per quanto sempre necessario e importante – elencare tutte le buone ragioni per cui lo schema del self made è falso, ma significa individuare uno spazio di agibilità soggettiva e collettiva nel solco di un immaginario con il quale, comunque sia, bisogna fare i conti. Non esistono né volontà né coerenza individuali tali da poter sfuggire alle maglie delle contraddizioni in cui ci si trova immersi. Eppure, in termini collettivi si possono inaugurare e praticare tante contro-narrazioni, come si è fatto a Roma il 19 ottobre o in tante altre micro-relazioni e micro-situazioni che proliferano di continuo e ovunque. Non senza ironia, l'immagine del contagio assume fattezze del tutto positive e auspicabili. A distanza ravvicinata, da una prospettiva che non intende svelare alcunché, ma tutt'al più provare a registrare delle turbolenze, si possono distinguere nitidamente almeno due piani su cui va scomponendosi la promessa (che poi è soprattutto ingiunzione normativa) della produttività-creatività-felicità e, con essa, la separazione secca tra intraprendenti/falliti (e, a cascata, un’intera famiglia di opposizioni semantiche).
La falsità della promessa
Argomentare a favore della falsità della logica su cui regge il dispositivo del self made non è difficile. Basta fare un elenco: condizioni di nascita, luogo di nascita, colore, genere, condizioni di salute, capacità, energie, interessi, fortune e sfortune della vita, formazione, ambizioni, desideri, debolezze, manie, carattere, stato d'animo, umore, capacità fisiche, disciplina, … Potenzialmente gli elenchi sono infiniti, numerosi quanto gli esseri che chiamiamo umani. Chiunque, infatti, può fare lo sforzo di pensarsi come incarnato e situato e capire facilmente che l’espressione «farsi da sé», ancor prima che essere vera o falsa, semplicemente non significa nulla. Se mai, costituisce un tentativo maldestro di ordinare qualcosa in modo vago, astratto e disincarnato. A ben vedere, infatti, non c’è nulla nelle vite concrete delle persone che si dispieghi in modo continuo e lineare nei termini del progetto. Nemmeno le cose più soggettivamente connotate, come praticare uno sport o innamorarsi. E figuriamoci il resto, figuriamoci quando si chiamano in causa gli altri e la realtà. Ovviamente, si potrebbe argomentare in modo più sofisticato e convincente, ma qui basti assumere che la massima che dovrebbe regolare le nostre vite può essere smentita semplicemente riconoscendo che quel che facciamo risulta iscritto entro una maglia complessa di condizioni e relazioni. Non servono né argomentazioni geniali, né confutazioni da premi Nobel. E, men che meno, argomentazioni di taglio morale. Basta partire da sé. É povero il mondo che ha bisogno di eroi.
Indesiderabilità della promessa
Il contenuto dell'ingiunzione-promessa auto-imprenditoriale non è desiderabile. Cosa dovrebbero essere (o cosa sono secondo un'approssimazione sempre più grottesca), infatti, le vite self made così tristemente e virtualmente rincuorate a pacche sulle spalle dall'autorità di turno? Sempre più, prende forma l'immagine diffusa di esistenze spese alla rincorsa di un riconoscimento – che raramente va al di là del piano simbolico o formale – iscritto dentro rapporti verticali e vissuto in solitudine. Vite che trovano forse un po’ di calore in qualche affetto amicale o in una relazione amorosa. Sempre che anche questi ultimi non siano stati sacrificati alla propria infelice intraprendenza o in una di quelle fughe del cervello in cui il corpo resta davvero sospeso in qualche limbo. É questo il contenuto della promessa, a guardarla da vicino. Questo è il patto a cui, molto semplicemente, si cerca di sottrarsi. Fallire – nella società del debito – vuole pur sempre dire smettere di pagare. E allora, fallire non vuol dire nulla più che smettere di pagare troppo caro per la distorsione a cui approdano anche i propri desideri e le proprie aspettative più preziose. È evidente che stia circolando, almeno sul piano dell’immaginario, una dismissione virale di atteggiamenti mimetici e che questo contagio rappresenti già una destituzione – quand’anche faticosa e spesso sofferta – di modelli soggettivi insostenibili e indesiderabili.
Si è detto spesso che il debito è il dispositivo centrale del capitalismo contemporaneo. Forse, a volte, però si riflette poco su quanti e quali beni sia richiesto di ipotecare per capitalizzare al meglio le proprie risorse. Il tempo, gli spazi di vita, il piacere, gli affetti, i legami, le responsabilità verso altri/e, persino i ricordi o i fantasmi e così via. Nell’assunzione collettiva del fallimento (come strategia opposta, vitale e partecipata, rispetto all'accettazione passiva e isolata dell’austerity) proliferano soggetti indisponibili all’indebitamento sistematico e diffuso: viene progressivamente meno la disponibilità a pagare troppo e a pagare tutto! Grazie alla capacità di negoziare le proprie identità e la propria felicità all'interno di relazioni incarnate e micro-politiche anziché di gerarchie astratte o di meccanismi impersonali del riconoscimento, la stessa dicotomia successo-fallimento tende a saltare.
Salvatore Cominu
La retorica sull’auto-imprenditoria come via maestra della mobilità sociale non è una novità di questi anni, potremmo anzi dire che la crisi ha definitivamente affossato il postfordismo all’italiana, fatto assai più di microimprese famigliari, operai che si mettevano in proprio, ceti medi autonomi, che di dottori di ricerca con idee brevettabili. Allora (anni Ottanta e Novanta) l’enfasi sul capitalismo popolare – realtà tutt’altro che retorica – aveva la funzione di bastonare il fordismo annegante, non solo per inefficienze congenite ma per il suo inseparabile effetto collaterale, la lotta di classe capace di produrre effetti vulneranti sui profitti.
La retorica sulle startup innovative, al confronto, appare ben misera cosa. Anzitutto sul piano numerico; vi sono più startup nei quotidiani che nei registri delle camere di commercio. Vezzeggiati dai giornalisti gli startupper – ma il discorso sarebbe estendibile ad artigiani digitali, co-worker e a tutto il variegato repertorio di stilizzazioni mediatiche del lavoro cognitivo cui si affiderebbe il compito di trainare il paese fuori dalla crisi – godono peraltro di ben poco credito tra investitori e banche, che applicano loro un rating molto basso nella valutazione del rischio. Quello che separa lo startupper dal precario sottoccupato è quasi sempre un confine di classe. Non conosco un fondatore di nuova impresa terziaria che non abbia avuto come venture capitalist i familiari, quasi sempre con robusti redditi e adeguate rendite da investire sul futuro dei figli e delle figlie (spesso con scarsa convinzione sulle loro effettive possibilità di riuscita). Al di fuori di questo, il massimo dell’intraprendenza è investire in un biglietto aereo, possibilmente low cost, per Berlino, Londra, Parigi, ultimamente anche Mosca, San Paolo e Shanghai. Se le startup ex decreto Monti, in un anno, sono state all’incirca 1.200 – facendo i conti all’ingrosso, parliamo di 2.500-3.000 persone – nel solo 2012 si sono trasferite all’estero 79.000 persone, di cui quasi la metà tra i 20 e i 40 anni. É superfluo richiamare la natura ideologica di questa rappresentazione. Quel che conta, però, è che quella del self made è una retorica oggi divenuta scarsamente efficace, se è vero (come emerge regolarmente da ogni ricerca sulle aspettative professionali dei giovani) che la larga maggioranza degli under 30 desidera un lavoro sicuro o al limite, tra chi sente di appartenere ai primi della classe, ambisce a entrare in multinazionali come Apple o Google, percepite come dominio del lavoro stimolante e creativo.
Del tutto speculare è la retorica (di nuovo, tutt’altro che originale), che rappresenta i «perdenti» come oziosi che hanno fallito i loro investimenti educativi. L’atteggiamento mainstream nei confronti dei cosiddetti Neet (acronimo che contiene in sé un’implicita valutazione: se non lavori, non studi, non ti stai formando, allora che cavolo fai? Sei un parassita!) oscilla tra le grida dei talebani neoliberisti – che danno la colpa alle mancate riforme mercatiste e meritocratiche del sistema – e i più tradizionali ceffoni paterni, volti a indurre un prosaico «muovete il culo».
Ciò detto, credo sia importante evitare di riprodurre questa dicotomia al contrario, fornendo l’immagine di un’intera composizione sociale e di almeno un paio di generazioni consegnate al dominio della soggettività neoliberale. Il dispositivo della professionalità, del lavoro creativo e socialmente utile, non è del tutto inceppato. Ad essere radicalmente in crisi, però, presso ampi strati di lavoratori – più o meno istruiti e relativamente giovani – è il mito della mobilità trainata dal merito individuale e da una buona dose di spregiudicatezza auto-imprenditoriale. Anche se i rituali sociali e forse anche la miseria dei bisogni espliciti espressi da tanti knowledge worker o aspiranti tali possono (legittimamente) provocare disgusto, non possiamo però cadere nella trappola di contrapporre a questo conformismo la bellezza delle vite liberate dai dispositivi di assoggettamento. Lo scarso appeal della condizione di lavoratore cognitivo, in realtà, è evidente anzitutto a chi la vive. Quello del workaholic è un presente e un futuro poco auspicabile anzitutto per chi è costretto a mettere al lavoro – anche quando non è remunerato – larga parte della sua esistenza, e raramente è felice di farlo! Più che con il radioso volto del nerd immerso nei suoi algoritmi brevettabili, l’immagine emblematica (e sicuramente più diffusa) del lavoro cognitivo è data oggi dal declassato, dal free lance che si arrabatta alla ricerca di opportunità di reddito (non di carriera), dal consulente-seriale che sforna progetti e agisce procedure senza significato, dai lavoratori del sociale ridotti a eccedenze dai tagli al welfare, e via di seguito.
Intendo dire, anche se occorrerebbe suffragare le percezioni con qualche elemento più tangibile, che mi sembra che si sia realizzata in questi anni una divergenza – anzitutto nella percezione di sé e del proprio status – tra uno strato «superiore» e uno «inferiore» di lavoratori cognitivi. Parlare di lavoro cognitivo senza entrare nelle sue gerarchie, oggi è riferirsi probabilmente al nulla. Presso i secondi, gli incentivi a farsi «unità-imprese» sono più subiti che agiti spontaneamente; il rancoroso rimuginare che sale dai blog e che fa da sfondo alle conversazioni, ci dice in realtà di una composizione assai più depressa che mobilitata a sostegno della distruzione creatrice operata dalla crisi. Ciò, ovviamente, non ne fa un soggetto disponibile a rinunciare tout court alle sue prerogative. Detto rozzamente, credo sia proprio questa la difficoltà del passaggio odierno, in cui il 19 ottobre ha rappresentato un momento fecondo (soprattutto se comparato alla marcia del sabato precedente) ma probabilmente parziale. Come si coalizzano gli impoveriti e i penultimi, laddove tra i secondi troviamo ormai molti di coloro che la retorica mainstream vorrebbe impegnati a baloccarsi con l’eterna promessa di una knowledge society liberatoria, rimane la questione. A mio modo di vedere, non eludibile.
Immagine: John M. Bennet
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