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E se tutti decidessero di licenziarsi?

Recensione al libro di Stefano Valerio Saluteremo il signor padrone



Saluteremo il signor padrone

Una recensione di Carla Pagliero a Saluteremo il signor padrone di Stefano Valerio (Buendia Books, Torino 2023).


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E se all’improvviso tutti decidessero di licenziarsi seguendo un impulso irrazionale e apparentemente senza senso? Da questo assunto ha inizio la bella favola per adulti che ci racconta Stefano Valerio, il libro sviluppa in 127 pagine scenari fantastici ma non così distanti dal reale se si pensa che il fenomeno delle dimissioni dal lavoro è sorprendentemente attuale e già molto attenzionato da sociologi ed esperti del settore.

Saluteremo il signor padrone, il libro è uscito di recente per le Edizioni Buendia e l’autore, Stefano Valerio, è un pugliese che vive da anni Torino e che ha studiato a Bologna. Le due città le ritroviamo nel testo e ne costruiscono ineludibilmente gli scenari di fondo: Torino e la sua memoria di città operaia in declino, e Bologna la dotta, vivace e ricca di stimoli culturali e politici. Il titolo è ripreso da una vecchia canzone di risaia presente nel repertorio di diversi autori «impegnati» degli anni Settanta e ci riaggancia da subito ad un tema che infervorava parecchio le discussioni in quegli anni, quello del rifiuto del lavoro, un rifiuto motivato dalla logica disumana e sfiancante dello sfruttamento padronale. Il padrone della canzone è ancora quello dalle «belle braghe bianche» che non vuole sganciare il giusto compenso ai suoi lavoratori, e l’operaio è quello abbrutito e malvessato dalle condizioni di lavoro della società industriale novecentesca. Nel libro di Valerio lo scenario è più frammentato e complesso di quello tutto sommato rassicurante, perché noto, della canzone, e ripropone, attualizzandolo, il tema del rifiuto del lavoro ai giorni nostri. A fianco di Lino, vecchio operaio di cipputiana memoria, che sogna la pensione come catartico momento liberatorio, incontriamo sua moglie Betti, casalinga esperta, Amir, giunto da poco dall’Egitto che alterna lavori di raccolta, precari e malpagati, a mansioni altrettanto aleatorie e vessatorie come le consegne di merce fatte con la bici a qualsiasi ora e con qualsiasi tempo, sempre accompagnato dall’ingombrante, colorato e segnaletico fardello targato Glovo. Altri protagonisti della storia sono Fara e Steno, giovane coppia che si presenta all’appello con tutta la precarietà e le esigenze che caratterizzano questa generazione. Il loro piccolo spaccato sociale è strettamente segnato dalla mancanza di tempo. Tempo da usare per loro, quello che vorrebbero avere per poter stare e crescere insieme, realizzare le loro vite e le loro aspettative, non solo economiche, soprattutto ora che la famiglia si è arricchita di una persona di cui prendersi cura, il piccolo Arturo. Protagonista secondario, ma non meno importante, Faruk, cugino di Amir, ingegnere rampante e abilissimo nel risolvere problemi di gestione industriale del mondo globalizzato, e poi ancora imprenditori e leader politici e sindacali, generali ansiosi di mettersi al servizio dei poteri «forti» e golpisti.

Il sottotitolo, «Favola sociale», ci fa immaginare una lettura lieve e spensierata con una rosea conclusione finale. In realtà i temi trattati nel racconto sono impegnativi, attuali e complessi anche se vengono proposti in maniera leggera e un po’ surreale, «favolistica», appunto, ma, soprattutto, le argomentazioni usate sono puntuali, chiare, documentate: si va dal lavoro precario alla frammentazione sociale; dal lavoro delle donne, diviso (o forse moltiplicato) fra le esigenze economiche e quelle di cura della famiglia, all’insoddisfazione di vivere in una società che continua a mettere il centro dell’attenzione sul profitto a qualsiasi costo piuttosto che sulla persona. Si delineano, infine, esigenze che in queste ultime generazioni, quelle contraddistinte significativamente con le ultime lettere dell’alfabeto, sono diventate prioritarie e irrinunciabili, come quella di realizzarsi anche attraverso il lavoro e di trovare per il lavoro svolto, e che occupa buona parte dell’esistenza, un compenso adeguato, che non si esaurisce nel compenso monetario.

I protagonisti della storia non si conoscono, si incontrano per strada, al supermercato, ma non interagiscono che casualmente fra di loro. Le occasioni tradizionali di confronto quali le assemblee, i presidi, gli scioperi cadono nel vuoto, strumenti di un passato che è stato cancellato dalle tecnologie, dai media, forse da una politica che non ha saputo adeguarsi ai cambiamenti. Li unisce l’occasione che li coglie nell’atto di compiere la stessa scelta, l’unica possibile, le dimissioni dal lavoro, nello stesso identico momento, senza un preciso preavviso o un richiamo all’ordine. Un flash mob spontaneo, non organizzato, dettato forse dal respirare lo stesso spirito dal tempo. La decisione di scegliere una vita migliore, finalmente libera da un lavoro ingiusto e malpagato, sembra riproporre, per certi aspetti, la mano invisibile preconizzata da Adam Smith, quella dove gli individui, infine, si decidono spontaneamente per il benessere collettivo preferendolo all’egoismo individuale.

Molte delle suggestioni esposte nel racconto riprendono gli scritti di Franco Berardi, Bifo, filosofo e teorico del movimento del Settantasette bolognese. Bifo, il teorico dell’ala più creativa e immaginifica di quegli anni. Sullo sfondo le atmosfere che si respiravano nelle radio libere, nelle università e nelle fabbriche: la grande festa della Rivoluzione mancata. Bifo compare nella storia anche come personaggio, lo si vede aggirarsi per le strade di Bologna, forse riferimento nostalgico agli anni bolognesi dell’autore, si accenna alla sua lettura della società postmoderna segnata da una sorta di depressione caratterizzata da ansia, stress e panico, che determinano l’immobilismo e l’inerzia dell’intero corpo sociale. Lo svilupparsi della favola rende merito al pensiero del filosofo bolognese nel cercare soluzioni definitive e belle a questa società bloccata e sembra infine trovarle nella transizione «dal lavoro senza vita alla vita senza lavoro».

Un libro attuale quello di Stefano Valerio, facile da leggere e ricco di descrizioni che sembrano visualizzare immagini familiari soprattutto a chi frequenta il mondo dei social e che ha vissuto la sperimentazione utopistica delle dimissioni forzate ma a tempo determinato dei tempi del Covid. Alcune scene sembrano in effetti già pronte per una traduzione filmica. Mi è venuto in mente, leggendo il libro, un film di Paolo Virzì, uscito nel 2008, Tutta la vita davanti, liberamente ispirato al romanzo autobiografico Il mondo deve sapere di Michela Murgia. Nel film si descrivevano i cambiamenti che erano in atto, la precarietà e la frammentarietà di un mondo senza futuro e senza progetto, che allora si incarnava in un soggetto sociale ancora indefinito e informale, quello dei lavoratori dei call center. Il libro di Stefano sembra essere il sequel di quella storia e nello stesso tempo ci fa intravedere possibili prospettive future, non necessariamente a vantaggio del liberismo selvaggio e cannibalistico che ci circonda e che pervade in maniera invasiva le nostre esistenze.


Torino, 4 novembre 2023


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Carla Pagliero, architetto di formazione, si è occupata di didattica e storia dell'arte. Ha insegnato per 35 anni storia dell'arte e ha partecipato a progetti di ricerca sulla didattica con l'IRRSAE e con la scuola di specializzazione interfacoltà. Ha collaborato con la fondazione Scuola del San Paolo e con la casa editrice SEI come consulente.




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