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Disattivare i formati: Disobedience Archive alla Biennale di Venezia


Carlos Motta, Corpo Fechado - The Devil’s Work, 2018. Disobediance Archive, sezione Gender Disobedience
Carlos Motta, Corpo Fechado - The Devil’s Work, 2018. Disobediance Archive, sezione Gender Disobedience

Torniamo a parlare della Biennale di Venezia, a pochi giorni dalla sua chiusura, attraverso un’articolata analisi di Vincenzo Estremo delle epistemologie politiche ed espositive di Disobedience Archive, tra i progetti più apprezzati e raccontati di questa edizione. La moltitudine di proteste documentate nel video-archivio, ideato e curato da Marco Scotini fin dal 2004, presentato nelle maggiori istituzioni artistiche internazionali, con la partecipazione diretta di attivisti, artisti, performer e filmmaker straordinari, si è ampliata nel tempo - da Black Audio Film Collective, Marcelo Expósito, Angela Melitopoulos, Oliver Ressler e Zanny Begg, Khaled Jarrar, Cinéastes pour les sans-papiers, Carole Roussopoulos, Daniela Ortiz, Marìa Galindo, Pedro Lemebel, Simone Cangelosi, solo per citarne alcuni. Soggettività diasporiche e dissidenti che, attraversando i confini transnazionali e i cicli di lotte, archiviano le pratiche della disobbedienza sociale, in una nuova forma storiografica che si basa sui media: un processo di mediatizzazione della storia che, ad oggi, rimane aperto. E dopo vent’anni, Disobedience si colloca ancora in quella irriducibile zona grigia, dove non riusciamo più a separare l’arte dalla politica, in cui la dimensione estetica diventa immediatamente politica e, non ultimo, antagonista.


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In occasione della 60. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, sotto la direzione di Adriano Pedrosa con il titolo di Stranieri Ovunque, il Nucleo Contemporaneo della mostra ha ospitato negli spazi delle Corderie, una sezione speciale dedicata a Disobedience Archive, un progetto multifase curato da Marco Scotini che sin dalla sua nascita si è intrecciato a molte delle proteste globali: dalle lotte sociali in Italia del 1977; alle azioni antiglobalizzazione prima e dopo il WTO di Seattle del 1999, sino alle recenti lotte identitarie e a quelle dei migranti di tutto il mondo. In particolare, Disobedience Archive ha rappresentato un’indagine sulle pratiche di attivismo artistico emerse dalla caduta del blocco sovietico e dagli eventi dell’11 settembre, che oggi si sviluppano dentro e fuori dai contesti dell’arte. Il progetto ha viaggiato per il mondo e in ogni località ha preceduto, incontrato o condiviso i movimenti di protesta. Nel corso degli anni, l’archivio è stato modellato e rimodellato, e le sue esposizioni sono diventate un’occasione per il curatore di sperimentare diverse modalità di esposizione del suo stream, inteso non come trasmissione mediale simultanea, ma letteralmente come flusso di informazioni. La partecipazione di una mostra in forma d’archivio all’interno di una mostra, mi ha spinto a fare alcune considerazioni sia sul formato mostra che sulla nozione di archivio e soprattutto a come sia l’una che l’altro stiano attraversando una profonda ristrutturazione formale e pratica.


Disobedience Archive - The Zoetrope, 60. Espo ... nieri Ovunque – Foreigners Everywhere, 2024
Disobedience Archive - The Zoetrope, 60. Espo ... nieri Ovunque – Foreigners Everywhere, 2024

Qualche anno fa Jacques Derrida si chiedeva retoricamente a cosa stessimo riducendo il concetto di archivio, oltre al suo essere il luogo della memoria o alla nostra fantomatica necessità di un ritorno all’origine, o peggio al fatto stesso di ricercare in questo concetto il conforto per un tempo che non c’è più, cos’altro è l’archivio?[1] A distanza di qualche anno da quel testo seminale, il dubbio di Derrida è ancora fondato ma a cambiare sono i presupposti. Ovvero se l’archivio era l’oggetto a cui noi associavamo l’accumulo polveroso delle nostre trascrizioni, in cui immaginavamo di materializzare le nostre esistenze, a cosa stiamo riducendo invece oggi il termine archivio? A una metafora generica, a una descrizione


Disobedience Archive - The Zoetrope, 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, 2024
Disobedience Archive - The Zoetrope, 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, 2024

Pensare all’archivio, al luogo del potere per eccellenza, in un tempo di confusione tra critica e deistituzionalizzazione, non è impossibile ma complesso, infatti, quello che Derrida considerava come il luogo del doppio dell’ambiguo, si avvia a essere uno spazio fecondo e molteplice. In breve, è avvenuta quella trasformazione in cui la forma archivistica ha sostituito in tutto e per tutto l’archivio, un’attitudine che Hal Foster descrive efficacemente come un «impulso con un carattere distintivo proprio che è di nuovo pervasivo, tanto da poter essere considerato una tendenza a sé stante»[2]. In quest’ottica parlare dell’archivio e del suo rapporto con le pratiche artistiche con un progetto curatoriale che ha abbracciato la forma archivistica per trasmettere frammenti di documentazione visiva delle proteste internazionali degli ultimi decenni ci apre alla questione dell’efficacia di questi due enti del passato. All’interno del percorso della mostra pensato da Pedrosa, l’archivio della disobbedienza diventa un oggetto plurale in cui alcune delle questioni sulla validità del formato espositivo emergono in maniera stridente. La rassegna curata da Pedrosa, infatti, pur proponendosi di celebrare la diversità e la frammentazione culturale, risulta essere, molto più di quanto non lo desideri, un complesso di per sé modellato sugli standard dell’intrattenimento artistico/culturale. La Biennale apre a spazi di rappresentanza mostrandosi al contempo nella sua espressione eurocentrica e trasformandosi, ogni anno di più, in una sorta di frullatore di contenuti dati in pasto alla disposizione neoliberale. Un vortice in cui il rischio di assimilazione è molto elevato, in cui l’archivio della disobbedienza si fa carico di una temporalità diversa da quella della mostra.


Disobedience Archive - The Zoetrope, 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, 2024
Disobedience Archive - The Zoetrope, 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, 2024

La conformazione di Disobedience Archive nella sua predisposizione per la Biennale è quella dello Zootropio, ovvero, dello strumento pre-cinematografico che per anni ha allietato la borghesia di mezza Europa prima che il cinema diventasse il mezzo di intrattenimento che abbiamo imparato a conoscere. Lo zootropio era uno strumento in cui delle immagini statiche venivano messe in sequenza e «animate» mediante l’illusione ottica e retinica risultante dalla rotazione della cassa centrale dello strumento. Questa illusione, quella di poter convivere con un formato oramai esausto - quello della mostra - e di documentare e raccogliere non solo i video dei movimenti di resistenza e protesta, ponendosi come strumento di misura per riordinare le geografie del dissenso, è la vera sfida dialettica su cui mi sono interrogato. Disobedience Archive accorpa contenuti videografici che vivono ai margini delle narrazioni egemoni, propone uno spazio di rappresentazione per le lotte dell’autonomia con sezioni come quelle di Diaspora Activism o Gender Disobedience e prova a costruire una grammatica d’archivio che denunci il sistema attraverso un discorso innanzitutto anticapitalista. Lo scopo di Disobedience però non può solo essere quello di «mostrare», di dare un senso estetico alle lotte, l’archivio, infatti, dovrebbe funzionare da pausa di riflessione sull’esistenza e l’organizzazione politica di una coralità dell’insurrezione che è un corpo espulso dalla storia recente della nostra contemporaneità. Per intenderci, credo che il caso di Spectres Are Haunting Europe (2016) video di Maria Kourkouta e Niki Giannari, non sia solo un modo per testimoniare la drammaticità della rotta balcanica negli anni acuti della crisi migratoria del 2015/2016, ma sia innanzitutto una presa di posizione. Il cinema di osservazione, lento e temporalmente sovrapposto allo scorrere del bios, pone l’attenzione sulle vite e sul cammino di una diaspora silenziosa. Le scene di Idomeni - pioggia battente, fanghiglia, e uomini ridotti a spettatori della loro stessa rovina - sono infatti l’epitome di un’Europa che, nel chiudere le sue frontiere, non solo rifiuta l’altro, ma rinnega sé stessa. Questo campo di rifugiati, sospeso tra l’immobilità imposta e la speranza negata, incarna la contraddizione dell’ordine neoliberale: celebrare l’apertura dei mercati, ma blindare i confini umani. Come Marx ci insegna, il soggetto alienato qui non è solo il rifugiato, ma l’intera Europa, spettro senza cuore che si aggira tra le sue rovine storiche. Nel video-documentario di Kourkouta e Giannari questa realtà è tradotta in un linguaggio cinematografico rigoroso, ascetico: lunghi piani sequenza fissi, che osservano senza indulgere, evocano un distacco che è al contempo denuncia e compassione. Il video non cerca di avvicinarsi per alleviare la sofferenza, ma rimane fermo come solo una macchina può fare, a testimoniare l’insostenibile pesantezza dell’umanità abbandonata. È la stessa logica del capitalismo che viene replicata: si osserva, si consuma visivamente, ma senza intervento reale. Eppure, nel flusso delle immagini appare un atto di resistenza simbolica, una disobbedienza inaspettata di fronte alla violenza securitaria che blinda i confini continentali. I rifugiati, infatti, non sono vittime passive, reagiscono, bloccano i binari, fermano i treni, gridano «aprite il confine». Non è solo una richiesta di aiuto ma un atto di lotta politica, un’interruzione del flusso economico globale che l’Europa non può ignorare. E tuttavia, l’ironia tragica è palese: l’unico Stato che li ospita, la Grecia, è anch’esso oppresso dal medesimo sistema che produce la loro miseria. Negli ultimi minuti di questa testimonianza volutamente ripresa con il metodo della «mosca sul muro» la grammatica visiva cambia, l’immagine vira verso il bianco e nero e l’immagine da digitale si trasforma in analogica. Gli eventi, ripresi con la macchina a mano, sembrano già Storia. I rifugiati di Idomeni non sono semplici vittime; sono il sintomo e la condanna di un’Europa che, chiudendo i suoi confini riduce le proprie possibilità di futuro.


Disobedience Archive - The Zoetrope, 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, 2024. Foto di Marco Zorzanello. Courtesy La Biennale di Venezia
Disobedience Archive - The Zoetrope, 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, 2024. Foto di Marco Zorzanello. Courtesy La Biennale di Venezia

Un tempo, quello dell’avvenire, minacciato dalla violenza sistemica di un impianto economico e normativo come quello del capitalismo neoliberale che ha un piano ben preciso, come dice la persona intervistata da Hito Steyerl nel suo Universal Embassy (2004). I respingimenti, la violenza, la sottomissione, sono tutte funzionali a creare una larga classe di lavoratrici e lavoratori a basso costo. Persone su cui lo sguardo benevolente del capitale si mostra nella concessione di poco più di un tozzo di pane. L’ambasciata universale, che tra la fine degli anni Novanta e i primi del Duemila venne istituita a Bruxelles negli spazi dell’ex-ambasciata somala, chiusa da dieci anni a causa della guerra civile, ci parla nuovamente di un’occupazione, una resistenza. Disobedience ci mostra come l’archivio degli eventi recenti possa essere funzionale a una pratica di lotte efficaci. Una politica alternativa, una meta-riflessione sulla mostra, che presuppone la non neutralità dell’atto di esporre l’archivio, che a mio parere necessiterebbe di un suo corpo, uno spazio svincolato dalla sua eventualità espositiva, serve a corroborare un’estetica del dissenso. Un atto di profanazione dell’idea di Schiller di «stato estetico». Una pausa all’interno della macchina pervasiva che crea soggettività conformi. Nel suo Elogio della profanazione, Giorgio Agamben ha introdotto il concetto di profanazione come un compito politico cruciale del presente. La profanazione è una sorta di ricerca politica sulle soggettività in grado di disattivare il dispositivo di governo. L’archivio della disobbedienza deve quindi essere inteso come uno strumento tattico per un nuovo soggetto politico, qualcosa che può essere usato per profanare il circolo sempre uguale della governamentalità mediatica e culturale a cui siamo inchiodati. Una radicale riconsiderazione di due istituzioni (archivio e mostra) intrappolate nel regime del dispositivo. Con Disobedience Archive, la rottura estetica dell’arte, o il crollo dell’ideale moderno dell’estetica, organizza una forma (diversa) di efficacia politica per l’arte stessa. Non a caso, secondo Jacques Rancière, la creazione del dissenso «non è la designazione del conflitto in quanto tale, ma è una sua specifica tipologia, un conflitto tra senso e senso»[3]. Un conflitto che l’estetica può organizzare e che ci porta a percepire in modo diverso ciò che è storicamente definito, poiché l’estetica del dissenso consiste nel ridisegnare «il quadro entro cui gli oggetti comuni sono determinati»[4]. Ripensare i processi democratici attraverso una visibilità politica che documenti atti di dissenso in una prospettiva estranea alla distrazione medializzata. Disobedience Archive convive infatti, con la stessa necessità di dare visibilità politica agli invisibili, che condivide con le pratiche dell’arte contemporanee e un bisogno profondo di dare avvio a un’analisi politica radicale. Un compito delicato, un atto di equilibrio affidato non solo alla qualità intrinseca del video (dal latino video, «io vedo») ma una informazione e contro-informazione disobbediente attraverso cui le cose che non hanno corpo come gli spettri, diventano visibili, si mettono in marcia e fanno sentire la loro voce.


Disobedience Archive - The Zoetrope, 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, 2024. Foto di Marco Zorzanello. Courtesy La Biennale di Venezia
Disobedience Archive - The Zoetrope, 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, 2024. Foto di Marco Zorzanello. Courtesy La Biennale di Venezia


Note

[1] Jacques Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, Napoli 1996.

[2] Hal Foster, An Archival Impulse, in «October» n. 110, Fall 2004, p. 3.

[3] Jacques Rancière, Dissensus. On Politics and Aesthetics, Continuum, New York 2010, p. 139.

[4] Ibidem.


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Vincenzo Estremo ha un PhD internazionale in studi sui media, sul cinema e sulla comunicazione presso l’Università di Udine e la Kunstuneversität Linz. Attualmente ricopre la posizione di Course Leader PhD in Artistic Practice alla NABA di Milano e Roma. Teorico dell’immagine in movimento, è docente di curatela del cinema esposto, estetica e fenomenologia. Co-dirige la collana editoriale Cinema and Contemporary Art (Mimesis International) e scrive regolarmente per «Flash Art Italia» e «International», «Che fare?» e «il Foglio». Tra le sue ultime pubblicazioni: Extended Temporalities. Transient Visions in Museum and Art (Mimesis International 2016); Albert Serra, cinema, arte e performance (Mimesis Edizioni 2018); Teoria del lavoro reputazionale (Milieu Edizioni 2020); Indistinzione (PS editore 2023); Cronofagia e media. La gestione e il consumo del tempo fra cinema, arti visive, TV e web (con Federico Giordano e Maria Teresa Soldani, Meltemi Editore 2024); Variante digitale. Storia, istituzioni e lavoro nell’infrastruttura digitale (postmedia books 2024).




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