Questa rubrica, «Diario della crisi», prende avvio oggi grazie alla collaborazione tra due realtà editoriali che si propongono di favorire la discussione e la critica politica: «Effimera» e «Machina». A esse si aggiunge il periodico online «El Salto» che tradurrà e divulgherà i testi di questa sezione in spagnolo. Le uscite, con cadenza quindicinale, avverranno in contemporanea sui tre siti.
Il tema che vogliamo trattare non è nuovo. Il concetto di crisi ha sempre innervato la critica al capitalismo, nelle sue diverse declinazioni, da quello fordista a quello bio-cognitivo al nuovo volto dell’accumulazione consentita dalle piattaforme. In questo momento, tuttavia, riteniamo di essere in presenza non solo di una crisi di natura sociale ed economica ma di una molteplicità di crisi. Siamo cioè in presenza di una convergenza di diverse tipologie di crisi, che innervano tessuti e realtà anche molto dissimili fra loro: l’ambiente e la riproduzione-sociale, la cultura e la comunicazione, la politica e la rappresentanza, solo per citare alcuni esempi eclatanti.
Ci troviamo a sfidare un contesto complesso e variegato, al cui interno il sistema di produzione capitalistico sta mostrando in modo evidente la sua natura predatrice e distruttiva. La guerra, da questo punto di vista, rappresenta solo la rivelazione manifesta di queste crisi. È necessario perciò comprenderne la natura profonda, interrogarle e cogliere gli elementi di «squilibrio traumatico» che possono comportare. Krisis (Κρίση) nel greco antico significa «scelta». Per noi «scegliere» significa «cambiare». Il diritto alla scelta, all’autodeterminazione è uno strumento possibile per iniziare a immaginare un nuovo cambiamento. Un cambiamento in grado di cogliere tutti questi aspetti.
I contributi che seguiranno saranno caratterizzati così da una natura multidisciplinare, in grado di cogliere i diversi aspetti critici che vi si nascondono e che raramente sono posti in evidenza.
Apriamo dunque questo nuovo corso con un testo di grande pregio di Christian Marazzi che si interroga sulla reale origine dell'inflazione che si allarga nel contesto occidentale. Non inflazione da domanda ma inflazione da profitti.
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Prove di recessione
Negli ultimi mesi dell’anno l’inflazione globale ha dato segni di rallentamento. Ad esempio, in Europa è diminuita dal 10.6% al 10%. Dall’estate scorsa i prezzi dell’energia sono calati, i prezzi dei beni alimentari sono pure diminuiti e le catene d’approvvigionamento sono meno ingolfate. La stabilizzazione internazionale dei prezzi all’ingrosso dei beni alimentari non si è però tradotta in minor inflazione per le economie domestiche su scala globale («Financial Times», 6 dicembre, p. 3) [1]. In ogni caso, le tre banche centrali, la Fed, la Bce e la Bank of England, a metà dicembre hanno rallentato l’aumento dei tassi di interesse (mezzo punto percentuale in meno rispetto ai 4 aumenti precedenti dello 0.75%). Negli Usa i tassi della Fed si situano ora tra il 4.25% e il 4%, in Europa la Bce li ha fissati al 2% e nel Regno Unito i tassi sono al 3.5%. I mercati finanziari hanno reagito in modo diverso alle mosse delle tre banche centrali: la reazione alle esternazioni della Lagarde ha causato il calo più consistente (-2.5% dell’indice benchmark S&P 500, 15 dicembre). Secondo il «Financial Times» (Ft, 17/18 dicembre), queste differenti reazioni dei mercati finanziari definiranno le strategie delle banche centrali a fronte del calo dei tassi d’inflazione, o comunque del suo andamento [2]. È un fatto che le banche centrali hanno voluto dare un messaggio molto chiaro rispetto alla loro determinazione di voler contrastare l’inflazione, ma i rischi politici sono pur sempre elevati. In questo fine 2022, le domande degli analisti sono le seguenti: l’inflazione ha davvero raggiunto il suo picco? Di quanto potranno ancora aumentare i tassi d’interesse? La recessione sta per esplodere (Us), quanto durerà (Europa) oppure ci siamo già dentro (come in Uk)? Quando le banche centrali invertiranno la stretta, ridando così ossigeno ai mercati finanziari? È un fatto che non appena i mercati sentono odore di recessione, e quindi di possibile riduzione dei tassi d’interesse, ripartono alla grande, salvo poi recedere quando i dati sull’inflazione dimostrano che siamo ancora lontani dall’obiettivo del 2% (obiettivo che però sembra chimerico). I mercati finanziari vogliono la recessione, le banche centrali vogliono contenere l’inflazione, è un gioco delle parti che ha al suo centro la medesima volontà di spezzare la spirale prezzi-salari reminiscenza della stagflazione degli anni Settanta. Naturalmente, molto dipende dalla guerra in Ucraina e dall’andamento dei prezzi energetici, dal cambiamento climatico, dal cambiamento delle politiche anti-Covid in Cina, dagli effetti macro-economici degli aumenti dei tassi di interesse, dalla spesa di famiglie e imprese che, se al ribasso, non farà che peggiorare sostanzialmente la (possibile) recessione.
Secondo l’«Economist» (The monetary marathon, 10 dicembre, p. 68), sono tre le ragioni per cui la lotta all’inflazione da parte delle banche centrali è lungi dal poter raggiungere l’obiettivo del 2%. In primo luogo, la continua scarsità di forza-lavoro: mentre le notizie sul fronte dei prezzi sembrano buone, scrive il settimanale, «the latest wage data are worrying». Negli Usa, negli ultimi tre mesi i salari sono aumentati del 5.1% su base annua, e da quando i dati sono stati pubblicati i mercati azionari sono calati in attesa di aumenti prolungati dei tassi di interesse. Più o meno a questi stessi livelli i salari in Gran Bretagna, con scioperi che lasciano presagire aumenti più consistenti [3]. In Europa la situazione sul mercato del lavoro è meno tesa, ma l’inflazione energetica rischia di intaccare il resto dell’economia e di generare aumenti salariali per contrastare l’aumento del costo della vita. È evidente che per l’«Economist» è il salario reale che deve diminuire, dato che gli aumenti dei salari nominali sono ancora ben al di sotto del tasso di inflazione [4].
In secondo luogo, il problema della fiscal policy. Le politiche pubbliche espansive andrebbero moderate in linea con le politiche anti-inflazionistiche delle banche centrali.
Tuttavia, negli Stati Uniti il recente Inflation Reduction Act riduce in minima parte l’indebitamento pubblico, a maggior ragione il condono dell’amministrazione Biden di parte dei debiti degli studenti. In Europa, i sussidi per la lotta contro il rincaro energetico rischiano di surriscaldare l’economia, come è successo nel 2021 negli Stati Uniti con l’«American Rescue Plan». In Inghilterra, le misure di risparmio entreranno in funzione solo nel 2025. Due terzi della spesa energetica della Ue è per il controllo dei prezzi, ciò che, secondo l’«Economist», è molto dispendioso e disincentiva il risparmio energetico. Oltretutto, solo un quinto della spesa energetica è mirato sui più poveri. È quindi prevedibile che i sussidi aumenteranno nei prossimi mesi.
In terzo luogo, nel 2023 l’inflazione energetica è destinata a riaccendersi perché l’economia cinese, diversamente dal 2022, si riaprirà e si riprenderà in conseguenza di politiche anti-Covid meno restrittive. La concorrenza globale per l’approvvigionamento di gas naturale liquefatto (liquified natural gas, Lng) sarà quindi elevata. Benché la battaglia contro l’inflazione delle banche centrali abbia raggiunto un punto di inflessione, conclude l’«Economist», «it will not be won for a long time».
L’economista Nouriel Roubini, il «dottor Doom» dell’Università di New York che anticipò la crisi finanziaria del 2007-8, sostiene che il sovraindebitamento delle economie domestiche, delle imprese private; i disavanzi abissali degli Stati; il ritorno dell’inflazione; la fine delle politiche monetarie accomodanti delle Banche centrali (con denaro a costo zero) sono tutti gli ingredienti per un crack economico-finanziario. Roubini prevede un duplice colpo: 1) le Banche centrali aumenteranno i tassi di interesse per ripristinare la stabilità dei prezzi e gli «zombi» (famiglie, imprese, società finanziarie, Stati) subiranno un colpo brutale per i costi del debito, il calo dei redditi e delle entrate, la svalutazione degli attivi; 2) Tutto questo porterà alla stagflazione (aumento dei prezzi, accompagnato da crescita debole), come negli anni Settanta, ma a quei tempi l’indebitamento era basso (Project Syndicate, 2 dicembre, ripreso da Silvano Toppi, Sarà un atterraggio rude, prevede il dottor Destino, «Area», 16 dicembre 2022) [5].
Inflazione da salari?
È sulla «wage inflation», sull’inflazione da salari, che bisogna riflettere, dato che sembra al centro delle preoccupazioni sia delle banche centrali che dei mercati finanziari (Jay Powell: «wage increases are probably going to be a very important part of the inflation story going forward»).
Secondo l’International Labour Organization (Ilo), nella prima metà del 2022 i salari reali globali sono diminuiti dello 0.9%. È la prima volta dal 2008. Comparativamente, nei paesi ricchi il declino è stato peggiore che nei paesi emergenti: nei paesi ricchi del G20 abbiamo un -2.2% (Nord America: -3.2%, in quelli emergenti del G20 +0.8%). Quindi, come la mettiamo con le analisi delle banche centrali, della Fed e di tutte le altre?
Il problema starebbe nel disallineamento tra domanda e offerta di lavoro: negli Usa ci sono 1.7 posti vacanti per ogni lavoratore disoccupato. Quindi – è questo il ragionamento – bisogna continuare a contrastare l’inflazione da salari se si vuole arrivare al tasso-obiettivo del 2% d’inflazione. Una sorta di politica monetaria preventiva.
Sul «Financial Times» Rana Foroohar cerca di spiegare il perché di questa discrepanza tra domanda e offerta di lavoro (Wage inflation is a mirage for most workers, Ft, 5 dicembre). Durante il 2021, a causa della pandemia, la partecipazione della forza-lavoro è precipitata e deve ancora ritornare ai livelli pre-pandemici. Molti sono ancora fuori dal mondo del lavoro a causa di malattie o per curare i più dipendenti. Ma una parte importante della storia è il pensionamento, che rappresenta la metà delle 3.5 milioni persone che mancano all’appello dei datori di lavoro. Molti anziani non hanno più trovato lavoro dopo la fase acuta della pandemia; altri si sono ritirati approfittando dell’effetto ricchezza («wealth effect», ossia le plusvalenze realizzate sui risparmi investiti in borsa) dei mercati finanziari negli anni recenti. Ci si chiede anche se nuove tendenze, quali la deglobalizzazione, i mutamenti demografici e le crisi climatiche, abbiano alterato l’elasticità di mercato del lavoro, creando più volatilità e inflazione. Nella sua analisi Rana Foroohar non accenna al fenomeno della Great Resignation, le Grandi dimissioni che, malgrado l’ondata di licenziamenti (1.3 milioni di persone) nei settori dell’Information Technology, dei servizi bancari e assicurativi e nella grande distribuzione (come Wallmart), hanno visto ancora nel solo mese di ottobre 4 milioni di persone dimettersi dal posto di lavoro, in particolare nel settore dei servizi, nell’istruzione, nell’assistenza sanitaria e nell’ospitalità [6].
Comunque sia, le imprese puntano sul miglioramento della produttività per far fronte all’aumento dei prezzi, o investendo in tecnologia o con lo «shrinkflation», cioè riducendo le dimensioni del prodotto o la qualità dei servizi (hotel, ristoranti, aeroporti). Secondo l’Ilo, quest’anno nei paesi ricchi il gap tra crescita della produttività e salari reali ha conosciuto il maggior aumento dal 1999: la gente lavora molto di più e meglio, senza però vedere alcun beneficio per il proprio sforzo.
Siamo quindi ben al di qua della spirale prezzi-salari evocata per giustificare le politiche monetarie restrittive. Semmai, è di un’altra inflazione che occorrerebbe parlare, quella degli attivi finanziari, del settore immobiliare degli anni di politica monetaria ultra-espansionistica. «È una amara ironia costatare che mentre la politica monetaria ultra-espansiva ha alimentato bolle da tutte le partii, e ora i banchieri centrali devono reprimere l’inflazione, non hanno però gli strumenti per aggiustare ciò che si è davvero rotto nel mercato del lavoro».
Più verosimilmente, ci stiamo confrontando con un’inflazione da profitti. A sostenerlo sul «Financial Times» (2 novembre) è addirittura Paul Donovan, capo-economista delle gestioni patrimoniali di Ubs: «Le aziende hanno trasferito i costi più elevati sui clienti. Ma hanno anche approfittato delle circostanze per espandere i margini di profitto. L’ampliamento dell’inflazione oltre i prezzi delle materie prime più un’espansione dei margini di profitto che delle pressioni salariali».
Contraddizioni monetarie
È la Bank for International Settlements, la cosiddetta banca delle banche centrali («Quarterly review», 6 dicembre), che ha sollevato il paradosso delle politiche monetarie anti-inflazionistiche. Negli anni dei tassi di interesse nulli o negativi, nell’economia si sono accumulati tutta una serie di rischi di default che, come ha dimostrato la crisi del brevissimo governo di Liz Truss, quando si materializzano, costringono le banche centrali a intervenire iniettando liquidità, contraddicendo così l’obiettivo di combattere l’inflazione attraverso la riduzione della liquidità in circolazione (tipica strategia monetarista di riduzione dell’offerta di moneta). Nel caso del mini-budget della signora Truss del mese di settembre (forte riduzione della pressione fiscale sui ricchi, elargizione di sussidi per far fronte al caro-bolletta), molto mal visto dai mercati finanziari, sono stati i grandi fondi pensione a prestazione definita che si sono trovati a dover vendere precipitosamente i titoli di Stato per evitare la loro svalutazione, insomma per evitare il fallimento. La Bank of England era intervenuta per salvare il salvabile, ma ciò ha creato un precedente di «moral hazard», di azzardo morale (di incoraggiamento ad assumere rischi, sapendo che le banche centrali non mancheranno di intervenire acquistando obbligazioni, cioè iniettando liquidità). Il rapido aumento dei tassi di interesse globali e la situazione precaria (scarsità) della liquidità sul mercato strategico dei Buoni del Tesoro statunitensi (come si è visto nel marzo del 2020 subito dopo l’esplosione della pandemia), porta la Bis a suggerire di intervenire d’urgenza nel settore finanziario non-bancario (dove si sono accumulati i maggiori rischi a causa di investimenti in titoli estremamente fragili). Dopo trent’anni di deregolamentazione dei mercati finanziari, è forse un po’ tardi.
Più in generale, è il passaggio dal quantitative easing al quantitative tightening che mette in evidenza alcune contraddizioni di fondo potenzialmente esplosive. Parallelamente agli aumenti dei tassi d’interesse, la Bce ha qualcosa come 5000 miliardi di euro in titoli obbligazionari accumulati nel corso degli anni di quantitative easing da vendere nei prossimi mesi e anni. Ma questo piano si scontra con l’aumento dei debiti pubblici dei governi dell’eurozona previsti per il prossimo anno in conseguenza degli interventi di copertura dei costi energetici di famiglie e imprese [7]. Il rischio di una crisi del debito sovrano come quella del 2012 è elevato. In ballo c’è la «sostenibilità del debito» europeo. Il prossimo anno gli investitori privati saranno chiamati ad acquistare qualcosa come 300 miliardi di euro di debito pubblico. In gioco c’è la solidarietà tra i paesi dell’eurozona. L’Italia, ad esempio, con il suo debito pubblico (150% del Pil) è il paese che rischia maggiormente. Benché i rendimenti sui Buoni del Tesoro a dieci anni si siano abbassati, sono pur sempre tre volte superiori ai livelli d’inizio 2022. Di fatto, se in Italia l’inflazione può migliorare il rapporto debito/Pil, la condizione è che i tassi e lo spread non aumentino, pena l’azzeramento di quel beneficio [8]. Secondo la Goldman Sachs, la coalizione di destra del governo Meloni si trova «on a narrow fiscal path» [9].
Note [1] «In definitiva, i segnali provenienti dai prezzi alla produzione dei beni alimentari confermano il trend di disinflazione avviato a metà 2022. Ci vorranno due o tre mesi prima che il calo dei prezzi si possa percepire lungo tutta la catena del valore, portando sollievo ai consumatori europei. Ma ci arriveranno» (Marcello Minenna, La discesa dell’inflazione alimentare, «Il Sole 24 Ore», 18 dicembre 2022). [2] Più che ai diversi tassi di interesse, la differenza dei tassi d’inflazione è dovuta alla loro diversa composizione interna: nell’eurozona, oltre due terzi dell’inflazione complessiva è dovuta all’energia e ai prodotti alimentari, mentre negli Stati Uniti questi generi rappresentano meno di un quinto. Resta che, al netto dei prezzi energetici e alimentari, l’«inflazione di fondo» (core inflation) americana è superiore di due punti percentuali a quella europea. «Una spiegazione è che, dopo le chiusure e restrizioni contro la pandemia, i prezzi dei servizi e degli acquisti a lungo rimasti compressi (turismo, ristorazione, tempo libero, automobili) abbiano avuto un recupero più forte di quello europeo» (Nicola Capelluto, Minacce di recessione, «Lotta comunista», novembre 2022). Questa analisi, apparsa sul mensile «Lotta comunista», è una delle migliori in circolazione. [3] In realtà, dall’arrivo al potere dei conservatori nel maggio del 2010 al settembre del 2022, nel settore privato i salari reali sono cresciuti del 5.5%, mentre nel settore pubblico sono diminuiti del 5.9%. Negli ultimi due anni (2021-22), il calo dei salari reali è stati 7.7% (+ 1.5% nel settore privato). Normale che nel settore dei servizi pubblici si sia entrati nel «winter of disconsent». [4] Il 4 novembre 2022 la Lagarde – dopo aver riconosciuto che è «probabile che i salari evidenzino un certo recupero rispetto all’elevata inflazione, considerata la presenza di condizioni che consentono ai lavoratori di provare a compensare la perdita di reddito reale» – ha dichiarato però che «il compito della Bce, dato il nostro mandato di stabilità dei prezzi, è assicurare che tale processo non generi una dinamica inflazionistica. Un disancoraggio delle aspettative di inflazione unito al loro radicamento nelle trattative salariali e nella determinazione dei prezzi potrebbe infatti condurre a una spirale salari-prezzi che sosterrebbe a sua volta il disancoraggio stesso, ottenendo in ultima analisi sia il calo dei redditi reali sia l’aumento dell’inflazione nel tempo» (https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2022/html/ecb.sp221104_1~8be9a4f4c1.it.html). [5] Si veda, se proprio ci si vuole deprimere, l’intervista a Roubini apparsa sul «Financial Times» il 19 dicembre («I hope I didn’t depress you too much»). [6] «The great attrition of emploees shows no signs of slowing. Recent reports from management consultant McKinsey suggest as many as 40% are considering leaving their jobs, usually to seek a different type of career or “non-traditional work”, including temporary or part-time roles» (Gillian Tett, What Musk misses about how this generation works, FT, 20 novembre). Il tema delle Grandi dimissioni va ripreso e approfondito, in particolare per la «Playlist Generation», come chiamla Tett chiama i giovani che stanno risignificando il lavoro e il rapporto tra vita e lavoro. [7] L’Istituto di ricerca di Bruegel ha calcolato che dallo scorso mese di settembre i governi europei hanno già speso 573 miliardi di euro tra riduzione dell’Iva, trasferimenti alle famiglie povere, salvataggi delle aziende elettriche ecc. Queste spese si aggiungono a quelle stanziate negli anni della pandemia peggiorando i già «claudicanti» debiti pubblici di molti Paesi. A ciò si aggiungono l’aumento delle spese militari concordate a livello Nato con l’obiettivo di giungere al 2% del Pil e soprattutto il costo dell’aiuto all’Ucraina che si articolerà nell’accoglienza di una nuova ondata di profughi e nel sostegno di un paese che ha bisogno di 5 miliardi di dollari ogni mese per non finire in bancarotta e tutto ciò dimenticando gli eventuali costi della ricostruzione. [8] A questo proposito, Stefano Lucarelli si pone le seguenti domande: «siamo certi che di fronte alla recessione la Bce possa davvero mettere in vendita sul mercato i titoli europei acquisiti? Se sì a chi li venderà? Sarà l’occasione per far nascere una Debt Agency (https://www.knowledge.unibocconi.it/notizia.php?idArt=24735)? In questo scenario quale potrebbe essere il ruolo del Mes (laddove l’Italia cedesse alle pressioni e lo votasse)? Oppure assisteremo a un coordinamento fra Fed e Bce e la Fed diverrà una sorta di prestatore di ultima istanza per una Unione monetaria europea in cui si pretende di non far svolgere alla Banca centrale questo ruolo? Sul piano politico questo potrebbe sancire un do ut des: tu Europa paghi i costi maggiori della ridefinizione geopolitica imposta dagli americani, ma noi ti garantiamo la sostenibilità delle finanze pubbliche». [9] Anche l’economista gesuita Gaël Giraud, in un suo articolo apparso lo scorso primo settembre su «Avvenire», pensa che le politiche attuali delle banche centrali possano portare al collasso europeo. Nella stessa direzione il «Financial Times» del 15 dicembre (Ecb retreat to put Euro300bn strain on eurozone bonds, 15 dicembre 2022).
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Christian Marazzi. Dopo aver insegnato all’Università di Padova, alla State University di New York e alle Università di Losanna e di Ginevra, è diventato docente presso la Scuola universitaria della Svizzera italiana. È autore di numerose pubblicazioni in campo socio-economico e politico; in particolare di saggi sulle trasformazioni del modo di produzione postfordista e sui processi di finanziarizzazione, tra le quali segnaliamo: E il denaro va. Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari (Bollati Boringhieri, 1998), Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica (2° ed., Bollati Boringheri, 1999), Capitale e linguaggio. Dalla new economy all’economia di guerra (DeriveApprodi 2002), Finanza bruciata (Casagrande, 2009), Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale (Ombre corte, 2010), Diario della crisi infinita (Ombre Corte, 2015) e Che cos’è il plusvalore? (Casagrande, 2016).
Immagine: Pietro Fortuna
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