Pubblichiamo le osservazioni di Pierre Dardot e Christian Laval sull'attuale Guerra in Ucraina
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Traduzione dal francese all’italiano: Officina Uninomade Brasil
L’impero zarista e la questione ucraina
Dobbiamo a Hegel la famosa frase – tratta dal commento del § 324 dei Principi della filosofia del diritto – che alcuni sono tentati in questi giorni di rapportare al nostro presente: «Le guerre hanno luogo quando sono necessarie, poi i raccolti crescono di nuovo e le chiacchiere tacciono davanti alla serietà della storia» [1].
In questo passo, il filosofo attacca l’atteggiamento incoerente di coloro che avevano previsto ciò che sarebbe accaduto in discorsi edificanti e che, una volta messi di fronte all’evento, iniziano a maledire gli invasori che appaiono «sotto forma di ussari con le sciabole sguainate» perché minacciano la sicurezza delle loro proprietà. Egli vede in questo un’incapacità di cogliere la necessità storica che lavora sotto la contingenza dell’evento. In effetti, lungi dall’opporsi a questa necessità, l’evento la realizzerebbe in una forma inaspettata e scomoda per coloro che hanno fatto tali previsioni.
Possiamo decifrare la situazione inedita creata dall’aggressione della Russia all’Ucraina alla luce di questa citazione? Per quanto possa sembrare allettante, il nesso è altamente incerto. In che modo la guerra di Putin del 24 febbraio manifesterebbe una qualche necessità storica? E in che modo Putin potrebbe essere considerato l’agente inconsapevole di questa necessità? Gli «ussari con le sciabole» di Hegel, gli squadroni di cavalleria degli eserciti rivoluzionari creati nel 1792, trovano il loro equivalente moderno nei soldati russi che ora assediano le principali città dell’Ucraina? Nella mente di Hegel, la «necessità storica» manifestata dalla carica degli ussari è quella della Rivoluzione francese che si difende dagli eserciti controrivoluzionari coalizzati dell’Europa incoronata. È questa Rivoluzione che egli celebra come «una magnifica alba» perché sostiene che le istituzioni esistenti devono essere ricostruite a partire dal «principio del diritto». Che cosa ha a che fare tutto questo con l’aggressione deliberata di un paese indipendente in spregio a qualsiasi legge e guidata dal desiderio di ripristinare una grandezza imperiale perduta? Inoltre, possiamo aspettarci che «i raccolti crescano di nuovo» in una regione che è conosciuta come granaio di frumento grazie alla sua «terra nera», la cui fertilità era già stata riconosciuta dallo storico greco Erodoto? Non dovremmo piuttosto temere che le devastazioni subite da questa terra abbiano effetti duraturi, minacciando di carestia intere regioni del mondo, prima fra tutte quelle africana? Infine, possiamo davvero dire che le chiacchiere tacciono di fronte alla serietà della storia? Non stiamo invece assistendo alla loro proliferazione incontrollata, soprattutto da parte di coloro che, in nome del «non allineamento», coprono la voce delle vittime con sproloqui indecenti e cercano di far dimenticare il loro malsano fascino per lo sfrenato scatenamento del potere statale?
Lo zarismo e la «questione ucraina»
Lungi dal procedere da qualche necessità storica, la decisione di Putin è in realtà dettata dall’ossessione di ristabilire la continuità di una storia molto antica, interrotta da rotture vissute come traumi da un uomo che ha trascorso buona parte della sua carriera come agente del Kgb a Dresda e ha vissuto il crollo dell’Urss nel 1991 come un’umiliazione che richiedeva una riparazione. Il 12 luglio 2021 ha delineato la sua concezione della storia: alla «Grande nazione russa» è stato assegnato un ruolo di primo piano, mentre bielorussi e ucraini sono apparsi come «piccoli russi» [2]. L’uso stesso di questi termini rivela una continuità, ma quale?
L’Ucraina, il cui nome significa «marca» o «regione di confine» in russo e polacco, ha fatto parte dell’Impero russo tra il XVIII e il XX secolo. I russi sono stati a lungo inclini a ridurre l’Ucraina a «Russia meridionale» o «Piccola Russia», «una mera provincia senza identità nazionale», gli ucraini a una «tribù», mai a un «popolo» o a uno «Stato», e l’ucraino a un «dialetto» o addirittura a un «patois» privo di esistenza indipendente. Per tutto il XIX secolo, gli zar percepirono le aspirazioni all’autonomia della regione come una minaccia alla coesione dell’Impero e cercarono con ogni mezzo di proibire l’uso della lingua ucraina [3].
La presa del potere da parte dei bolscevichi nell’ottobre 1917 non cambiò sostanzialmente niente all’atteggiamento di condiscendenza dei russi nei confronti degli ucraini, soprattutto perché lo stato delle relazioni tra il nuovo regime e i contadini ucraini peggiorò rapidamente. Nel 1919 scoppiarono rivolte contadine, la più famosa delle quali fu la rivolta di Makhno nell’Ucraina sud-orientale (Zaporijia), che combatté contro le armate bianche di Denikin e i nazionalisti ucraini prima di rivoltarsi contro il regime bolscevico. All’inizio degli anni Venti, la pratica della requisizione forzata sistematizzata dal regime del «comunismo di guerra» portò infine a una carestia che colpì duramente l’Ucraina meridionale, tra altre regioni (del paese). Nel 1921, con la Nuova Politica Economica (Nep), e poi nel 1923, con la politica di «indigenizzazione» (chiamata «ucrainizzazione» in Ucraina), il regime fece una svolta che fu difficile da accettare per i bolscevichi di lingua russa in Ucraina. Come scrive la storica Anne Applebaum: «Ancora una volta, nelle loro prospettive: c’era lo sciovinismo russo: per tutta la loro vita, l’Ucraina era stata una colonia russa ed era difficile per loro immaginare che fosse altrimenti. Per molti l’ucraino era una «lingua da cortile». Come lamentava il comunista ucraino Volodymyr Zatonskyi, era una vecchia abitudine dei compagni considerare l’Ucraina come la Piccola Russia, una parte dell’Impero russo – un’abitudine incisa nella memoria lungo i millenni di esistenza dell’imperialismo russo» [4]. Di questo si rese conto troppo tardi Lenin che, nel suo famoso Testamento del 1922, osservava amaramente, ma non senza contraddizioni con la sua stessa prassi, che la centralizzazione statale «presa in prestito dallo zarismo» si stava ricostituendo, appena «leggermente spalmata di vernice sovietica» e che la «marmaglia sciovinista della Grande Russia» era tornata in auge sotto le vesti dell’unione delle repubbliche.
I «compagni» di Zatonskyi e Lenin conoscevano molto male i loro «classici». È forse utile ricordare oggi, quando il fantasma della Russia imperiale torna a perseguitare l’Europa, il modo in cui Marx ed Engels analizzarono la politica estera della Russia zarista. Marx ed Engels individuarono nella politica estera della Russia zarista un desiderio che mirava, pur non avendone i mezzi a causa del suo arcaismo feudale, di dominio universale. Questa Russia era arrivata a costituirsi come il «centro della reazione politica», il «principale nemico dei popoli europei», la «spina dorsale dell’alleanza dei despoti europei», secondo le forti espressioni dei due autori. Lungi dal pacifismo, la domanda strategica che si posero fu come allentare la morsa reazionaria su tutti i paesi europei, specialmente quelli dell’Europa centrale, stretti tra l’Inghilterra capitalista e l’espansionismo russo. Non c’era nulla di tortuoso o complesso nella loro risposta.
Già nel 1865, l’Associazione Internazionale dei Lavoratori aveva scritto sulla sua bandiera: «Resistenza all’invasione russa in Europa – Restaurazione della Polonia». Per Marx ed Engels, era l’intero proletariato europeo a dover sposare la causa della Polonia, la cui nuova insurrezione era stata appena schiacciata in modo atroce nel 1863. Rovesciare lo zarismo e annientare questo incubo che incombe su tutta l’Europa è, ai nostri occhi, la prima condizione per l’emancipazione delle nazioni dell’Europa centrale e orientale. Tali erano per Engels nel 1888 i «compiti del partito operaio nell’Europa orientale». Ci si poteva aspettare solo risultati positivi per la libertà: «La Polonia sarà restaurata; la Piccola Russia potrà scegliere liberamente i suoi legami politici; i rumeni, i magiari e gli slavi del Sud, liberi da interferenze straniere, potranno risolvere i loro affari e i problemi di confine tra di loro». E sarà persino, prevede Engels, un mezzo per liberare gli stessi russi dall’incessante spreco di energie consumate nelle conquiste territoriali: «finalmente la nobile nazione dei Grandi Russi non andrà più alla caccia insensata di conquiste che giovano solo allo zarismo, ma compirà la sua autentica missione civilizzatrice in Asia e, in collegamento con l’Occidente, svilupperà le sue impressionanti capacità intellettuali, invece di consegnare i migliori dei suoi figli ai lavori forzati e al patibolo» [5].
La sovranità dello Stato portata al culmine
L’attuale guerra porta alla luce le radici profonde della logica della sovranità statale. In particolare, rende completamente obsoleta la riduzione della sovranità politica a una «semplice forma» al servizio dell’economia: sarebbe lo sviluppo del capitale che, attraverso l’espansione del mercato, sosterrebbe la forma dell’autorità sovrana, una forma che da sola è impotente. Questa riaffermazione iper-marxista del primato dell’infrastruttura sulla sovrastruttura è sostenuta dall’immagine di un «mondo liscio» realizzato attraverso la cancellazione della società civile e dei confini nazionali. Se tale interpretazione poteva essere illusoria nei primi anni Duemila, ora si sta dimostrando del tutto incapace di rendere conto degli eventi attuali.
In verità, tutti i grandi eventi geopolitici recenti, tutti gli scontri, tutti i giochi di rivalità mostrano fino a che punto la sovranità politica non possa essere afferrata all’interno delle sole coordinate della razionalità capitalista. L’invasione dell’Ucraina da parte degli eserciti russi ne è oggi la prova più drammatica. La condotta di Putin appare in questo senso come il culmine fanatico e delirante della logica della sovranità statale. Il nazionalismo della Grande Russia si scatena senza freni, in particolare attraverso l’invocazione della figura di Stalin, magnificato come leader della «guerra patriottica» contro il nazismo, che permette di legittimare la guerra di aggressione in nome della lotta per la «denazificazione» dell’Ucraina.
Le radici della sovranità statale risalgono alla prima storia dell’impero zarista e conferiscono alla sovranità statale un significato spesso molto più pesante, per la sua natura mistica, rispetto alla logica degli interessi immediati delle oligarchie economiche e finanziarie. La minaccia di default dovuta all’incapacità di Mosca di rispettare la scadenza per il rimborso del debito pubblico (117 milioni di dollari) non è sufficiente a piegare la Russia. È noto che la Russia ha accumulato enormi riserve di valuta estera e di oro per prepararsi alla guerra e alle sanzioni.
Ma se ci limitassimo a considerare solo questo aspetto, perderemmo di vista il punto principale. Putin è arrivato a chiedere che tutti i debiti esteri siano pagati in rubli, in una moneta che a oggi ha perso quasi il 30% del suo valore, il che la dice lunga sull’inadeguatezza della sola minaccia finanziaria di fronte all’affermazione della sovranità dello Stato russo. Sarebbe altrettanto fuorviante fare dell’espansione economica il motore dell’imperialismo russo, secondo uno schema convenzionale che non coglie la questione essenziale: l’ossessione per la collocazione storica della «Grande Russia». Il padrone del Cremlino, infuriato per le battute d’arresto del suo esercito e per l’inaspettata resistenza degli ucraini, è impegnato in una logica di fuga in avanti e di corsa a perdifiato che è difficile capire come potrebbe uscirne.
Il paragrafo 324 della Filosofia del diritto di Hegel, citato all’inizio di questo articolo, si svolge in un commento intitolato Sovranità nei confronti del mondo esterno: tratta quindi del rapporto che ogni Stato ha con tutti gli altri. Questo aspetto della sovranità presuppone la «sovranità nel suo aspetto interno» o «sovranità interna», discussa nel §278 dello stesso libro. Il filosofo tedesco afferma giustamente l’inseparabilità di questi due aspetti. Sovranità esterna e sovranità interna non sono due forme di sovranità, ma due facce della stessa realtà, che è lo Stato. Ma ne approfitta per sostenere che esiste una proporzionalità diretta tra questi due aspetti: meno i popoli sono in grado di sostenere la sovranità interna, meno sono in grado di lottare per la propria indipendenza esterna e più facilmente soccombono a una potenza esterna, e viceversa. Il filosofo valorizza quindi il «momento etico» della guerra come condizione per la conservazione della libertà.
Ciò che è importante qui, al di là di questa valorizzazione che si deve ovviamente rifiutare, è il riconoscimento dell’indissociabilità della sovranità esterna e interna. Ciò è facilmente verificabile nel caso della Russia di Putin: la brutale affermazione della sovranità dello Stato all’esterno va di pari passo con un rafforzamento sempre più autoritario della sovranità interna esercitata dallo Stato sui suoi cittadini, escludendo persino l’elementare diritto di chiamare guerra quella che è una guerra, e una delle peggiori nel cuore dell’Europa dal 1945.
La posta in gioco è piuttosto semplice, anche se molti cercano di oscurarla. Da un lato, un’aggressione di inaudita brutalità e ferocia, che traspone in Ucraina i metodi di terrore contro le popolazioni civili sperimentati dall’esercito russo durante le due guerre in Cecenia e in Siria, con la vergognosa compiacenza dell’Occidente. Dall’altra parte, un popolo che resiste a un’invasione, non solo un esercito di professionisti, ma cittadini comuni che prendono le armi per difendere il diritto all’indipendenza del loro Paese. È una questione di principio. La scelta non è discutibile.
Il fallimento dell’«antimperialismo a senso unico»
Contro il campismo, questo antimperialismo a senso unico che attraversa alcune correnti della sinistra, dobbiamo finalmente prendere in considerazione l’imperialismo russo. Studiarlo da vicino non significa invertire la stupidità campista; significa affermare che qualsiasi analisi che non lo prenda sul serio si squalifica da sola. Il putinismo è un pericolo mortale per i popoli. Da qui l’urgenza di combatterlo senza nessuna debolezza.
Molti a sinistra hanno ancora difficoltà a contare fino a due. Avere due nemici e non uno solo, combattere su due fronti e non uno solo, non è ovviamente comodo. È molto meno difficile per la mente poter contare sul buon, l’unico, il solo Nemico. Il semplicismo politico, nato da vecchie abitudini, ignoranza, amnesia e molta pigrizia, corrode una parte della sinistra radicale fino all’indegno. Fortunatamente, non tutta. Balibar ci ha appena ricordato che di fronte all’invasione russa dell’Ucraina «il pacifismo non è un’opzione» e che «l’imperativo immediato è aiutare gli ucraini a resistere». Non ripetiamo il «non intervento».
Ma allarghiamo il discorso: non è solo il pacifismo a essere del tutto rifiutabile quando un Paese viene invaso da un altro in barba a tutte le regole del diritto internazionale. É innanzitutto il «campismo» che non è assolutamente un’opzione. Che cos’è il campismo? È la stupidità politica dagli effetti più sinistri che consiste nel pensare che ci sia un solo nemico. Sarà definito come un antimperialismo unilaterale. Dall’unicità del Nemico deriva l’inarrestabile conseguenza che coloro che si oppongono al Nemico hanno diritto, se non a benedizioni, almeno a scuse, in base al principio che i nemici del Nemico sono, se non amici, almeno «alleati oggettivi» in una lotta giusta.
Quasi tutto il XX secolo è stato segnato da questo tragico gioco di specchi. I sostenitori del sistema capitalista hanno chiuso un occhio sulle dittature più criminali, le hanno incoraggiate e sostenute in nome della difesa della civiltà occidentale contro il comunismo, mentre una parte della sinistra non voleva vedere la terribile realtà del «comunismo» sovietico o cinese, né era troppo attenta alla natura dei regimi «post-coloniali». Il campismo di sinistra postula che l’unico nemico del popolo sia «il capitalismo», «l’imperialismo americano», «l’Occidente», «il neoliberismo», o anche «l’Unione Europea», a seconda dei casi e delle varie denominazioni in uso. Per fortuna, nel secolo scorso, ci sono sempre stati movimenti e intellettuali che hanno saputo resistere alla stupidità politica e salvare l’onore della sinistra denunciando tutti i nemici della democrazia e della libertà, senza alcuna «relativizzazione delle responsabilità». Nel movimento rivoluzionario, le correnti trotzkiste e libertarie, e molti altri movimenti come «Socialisme ou Barbarie», hanno così tenuto coraggiosamente il doppio fronte anticapitalista e antistalinista.
Avremmo potuto sperare di essere definitivamente immuni da queste assurdità con il crollo del «blocco sovietico» e la crisi dell’«egemonia americana», avremmo potuto credere che nessuna oppressione, nessuna violazione dei diritti umani, nessuna trasgressione del diritto internazionale, nessun colpo di forza, sia da Ovest che da Est, dal Nord o dal Sud, potesse essere giustificato una volta finita la Guerra Fredda. Ci siamo sbagliati. Le pigre cattive abitudini sono ovviamente continuate, anche se si vergognano un po’ in occasione della guerra d’invasione di Putin.
Il campismo della sinistra consiste nel vedere oggi in questa guerra un confronto tra una Russia umiliata, accerchiata e minacciata e un Occidente arrogante, conquistatore e aggressivo: l’Ucraina sarebbe in fondo solo un campo di battaglia tra il Nemico imperialista che vuole espandersi all’infinito e la Russia, un Paese aggredito che è stato ingannato da false promesse nel 1990. E anche se si riconosce che quest’ultimo ha qualche inclinazione imperiale, non sempre, si tratterebbe solo di un imperialismo di secondo piano, indebolito, che non sarebbe all’altezza del nemico. Se questa è davvero una guerra tra Stati Uniti e Russia, se la causa degli ucraini è così «strumentalizzata» dall’Occidente imperialista, come possiamo allora consegnare armi agli ucraini, aiutarli a combattere? Certo, se è difficile sostenere Putin, che è un grande sostenitore di tutte le estreme destre del mondo, non dovremmo almeno rimanere «non allineati», «neutrali», o addirittura «alter-globalisti», come propongono alcuni, come Jean-Luc Mélenchon in Francia? Diciamolo: questa posizione mostra solo un’inammissibile compiacenza nei confronti del fascismo neostalinista di Putin e, soprattutto, una completa ignoranza della natura totalitaria e criminale di questo potere che non ha mai smesso di distruggere l’opposizione interna, Si tratta di un completo fraintendimento della natura totalitaria e criminale di questo potere, che non ha mai smesso di distruggere l’opposizione interna, fino a eliminare fisicamente giornalisti e attivisti, perseguitando l’intera società ed esportando il suo odio armato contro il desiderio di democrazia di tutti i popoli in Cecenia, Siria e, più recentemente, in Bielorussia e Kazakistan. Si dimenticano anche tutte le provocazioni e le azioni di Putin volte a ripristinare l’impero russo in nome di una mistica nazionalista dalla logica nefasta.
Il sostegno della sinistra radicale alla resistenza ucraina dovrebbe quindi essere evidente, così come il sostegno alla causa palestinese e a molte altre nel mondo. Non solo dobbiamo chiedere il ritiro delle forze d’invasione, ma anche l’invio di armi alla resistenza ucraina e, nel frattempo, offrire ogni garanzia di protezione del territorio ucraino all’interno dei suoi confini prima dell’annessione della Crimea e della secessione orchestrata dai russi delle pseudo-repubbliche del Donbass.
Il campismo di sinistra crede facilmente che un crimine annulli un altro, che una violazione del diritto internazionale ne giustifichi un’altra, che le vittime si compensino a vicenda. È facile convenire che l’Occidente non ha nulla di virtuoso e che la sua ipocrisia è addirittura incommensurabile. Gli interventi americani e occidentali dall’11 settembre 2001 («guerra al terrore») non hanno avuto il minimo imbarazzo della legalità e hanno portato a tragedie tuttora in corso, in particolare in Iraq e in Libia, per non parlare dell’ostinata difesa delle politiche israeliane di colonizzazione dei territori occupati! Come possiamo affermare di essere a favore del diritto internazionale quando ne proteggiamo la violazione permanente, come fanno gli Stati Uniti con il loro veto nel Consiglio di Sicurezza? La lotta contro l’imperialismo americano e occidentale è pienamente giustificata. Deve essere estesa anche a tutte le forme di dominio economico, finanziario e ideologico, e non solo agli interventi militari. Questo era il significato dell’ alterglobalismo di non molto tempo fa. Ma il dominio del capitalismo occidentale non deve farci dimenticare che esistono altre forme di dominio e oppressione, in particolare religiose, e altre ideologie estremamente pericolose, come il nazionalismo «imperiale» del governo russo. Ammettiamolo, l’Occidente non è l’unico ostacolo alla democrazia e alla giustizia sociale e abbiamo più di un nemico. L’internazionalista coerente lo sa, il campista lo ignora.
La negazione del diritto dei popoli alla democrazia
Uno dei peggiori aspetti di questo atteggiamento è quello di ignorare le aspirazioni popolari degli ucraini, ma anche, per andare più indietro, i grandi movimenti democratici in Ucraina, Bielorussia, Georgia e Kazakistan. I popoli in questione sono ridotti a pedine che non esistono realmente in questo grande schema storico astratto il cui unico vero attore è il Nemico che vuole estendere il suo dominio sul mondo. Il campista di sinistra non si rende nemmeno conto che l’adesione di molti Paesi che erano rimasti a lungo sotto il controllo dell’Urss dopo il 1945 era per loro, in mancanza di meglio, una garanzia di sicurezza dopo tutte le aggressioni, le annessioni e gli smembramenti che avevano subito nella loro storia. Certo, la realtà è «sempre più complessa», come ripetono i «non allineati», ma è proprio da questo che dovrebbero imparare: i popoli hanno la loro autonomia, non sono i burattini delle grandi potenze. Il peggior errore politico del campismo è considerare che i popoli non sono nulla, che tutto si gioca al vertice. Il terrorismo islamico è stato quindi all’opera nella rivoluzione popolare siriana del 2011 fin dall’inizio. Così le «rivoluzioni colorate», le mobilitazioni popolari nello spazio post-sovietico che hanno partecipato a partire dagli anni Duemila al grande movimento di emancipazione democratica ai quattro angoli del mondo, sarebbero state solo forme mascherate dell’imperialismo americano. Così l’occupazione di piazza Maidan nel 2014, che fa parte del grande ciclo del movimento Occupy the Square, avrebbe portato il marchio di «neonazisti».
Da questo schema deriva la «relativizzazione della responsabilità». Il teorico dell’alterglobalismo e della «sinistra globale», Boaventura de Souza Santos, altre volte più ispirato, che «la democrazia è solo uno schermo degli Stati Uniti» e paragona il «golpe del 2014» in Ucraina al golpe che ha rovesciato Dilma Roussef nel 2016 in Brasile. In entrambi i casi, si tratterebbe di un unico tentativo di espandere la sfera degli interessi statunitensi: «La politica di cambio di regime non mira a creare democrazie, ma solo governi fedeli agli interessi statunitensi». La soggettività democratica dei popoli non potrebbe essere meglio negata, ridotta a giocattolo nelle mani dell’imperialismo statunitense[6]. Si dimentica anche che le multinazionali americane ed europee non hanno mai prosperato tanto quanto nel regime mafioso e ultra-repressivo della Russia, che ha garantito loro una pace sociale assoluta. Boaventura non fa altro che ripetere la vecchia doxa del XX secolo, come se la Russia o la Cina rappresentassero un’alternativa «progressista» al capitalismo occidentale, da «risparmiare» perché lo controbilancerebbero. In realtà, questi Paesi offrono alcune delle versioni più mostruose del capitalismo, in quanto combinano il peggior tipo di dittatura politica sulla popolazione con lo sfruttamento eccessivo della ricchezza a favore di una ristrettissima classe di predatori ultraricchi.
Il campismo di sinistra o l’«antimperialismo degli idioti»
Certe proteste contro le «guerre imperiali» sono a senso unico: denunciano volentieri gli attacchi americani, israeliani o europei, ma dimenticano sistematicamente i bombardamenti russi o iraniani sulle popolazioni civili in Siria, che hanno causato molte più vittime civili dei primi.
È quanto ha spiegato nel 2018 Leila Al-Shami in un potente testo intitolato L’antimperialismo degli idioti [7], riferendosi alla coalizione Hands off Syria che, nei suoi proclami e nelle sue manifestazioni, non ha detto una parola sui massacri commessi da russi e iraniani venuti a schiacciare la rivolta democratica e a difendere il regime di Bashar El Assad: «Cieco alla guerra sociale che si sta giocando all’interno della Siria stessa, questo tipo di visione considera il popolo siriano, se preso in considerazione, come pedine trascurabili in una partita a scacchi geopolitica». È questo tipo di antimperialismo a senso che gli autori della lettera aperta, tra cui molti siriani, hanno denunciato:
Dall’inizio della rivolta siriana, dieci anni fa, e soprattutto da quando la Russia è intervenuta in Siria a favore di Bashar al-Assad, abbiamo assistito a uno sviluppo tanto curioso quanto sinistro: l’emergere di alleanze pro-Assad in nome dell’«antimperialismo» tra figure che sono generalmente caratterizzate come progressiste o «di sinistra», e la conseguente diffusione di una informazione manipolata che sistematicamente ignora gli abusi ben documentati di Assad e dei suoi alleati. [...] Coloro che non condividono i loro punti di vista perentori sono spesso (e falsamente) etichettati come ’entusiasti del cambio di regime’ o utili idioti degli interessi politici occidentali. [...] Tutti i movimenti a favore della democrazia e della dignità che contrastano con gli interessi dello Stato russo o cinese sono regolarmente dipinti come il prodotto dell’interferenza occidentale: nessuno di questi movimenti è considerato autoctono, nessuno riflette decenni di lotta nazionale indipendente contro una brutale dittatura (come in Siria); e nessuno rappresenta veramente le aspirazioni delle persone che chiedono il diritto di vivere in modo dignitoso piuttosto che in condizioni di oppressione e abuso. In realtà, ciò che unisce queste cosiddette correnti antimperialiste è il rifiuto di confrontarsi con i crimini del regime di Assad, o anche solo di riconoscere che una rivolta popolare contro Assad ha avuto luogo ed è stata brutalmente repressa.
Gli autori del testo concludono con queste parole che dovrebbero far riflettere anche i più sciocchi: «Quelli di noi che si sono opposti direttamente al regime di Assad, spesso pagando un prezzo molto alto, lo hanno fatto non per un complotto imperialista occidentale, ma perché decenni di abusi, brutalità e corruzione erano e restano intollerabili» [8].
Ciò che è accaduto in Siria sta accadendo in Ucraina. È questo che preoccupa gli attivisti ucraini di sinistra, che fin dall’inizio dell’invasione hanno invitato il resto della sinistra mondiale a rompere con lo «sguardo americano-centrico». Autore di una forte «Lettera alla sinistra occidentale» [9], il ricercatore ucraino Volodymyr Artiukh spiega che, al di fuori del mondo post-sovietico, la sinistra non ha colto le nuove condizioni storiche segnate dalla strategia della Russia stessa, che non ha nulla a che fare con gli strumenti dell’egemonia americana e più in generale occidentale, del soft power e degli investimenti economici: «Nonostante quel che molti di voi sostengono, la Russia non sta reagendo, adattandosi o facendo concessioni, ma ha riacquistato la sua capacità di azione ed è in grado di plasmare il mondo intorno a sé. [..] La Russia è diventata un agente autonomo, le sue azioni sono determinate dalle sue dinamiche politiche interne e le conseguenze delle sue azioni sono adesso contrarie agli interessi occidentali. La Russia sta plasmando il mondo intorno a sé, imponendo le proprie regole come hanno fatto gli Stati Uniti, ma con altri mezzi. Ha detto che dobbiamo smettere di pensare come se la Russia stesse semplicemente rispondendo all’umiliazione inflittale dopo il crollo dell’Unione Sovietica e capire che ora sono l’Occidente e l’Europa a essere in una posizione »reattiva«. E aggiunge: »Quindi le spiegazioni centrate sugli Stati Uniti sono superate. Ho letto tutto ciò che è stato scritto e detto a sinistra sull’escalation del conflitto dello scorso anno tra Stati Uniti, Russia e Ucraina. La maggior parte di queste analisi era terribilmente sbagliata, peggiore della lettura mainstream. Il loro potere predittivo era nullo.
In effetti, l’unilateralità della denuncia raggiunge il parossismo in un articolo di Tariq Ali sulla «New Left Review», rivista di riferimento della sinistra occidentale. Il 16 febbraio, 8 giorni prima dell’invasione, Tariq Ali deride le voci di un presunto attacco massiccio della Russia all’Ucraina e accusa esclusivamente i guerrafondai statunitensi, senza nessuno sforzo di analisi del regime di Putin. Sostiene che l’Ucraina, che sarebbe sempre e solo «Natoland», non ha bisogno di sostegno ma deve cominciare a mostrare a Putin il «rispetto» che merita, non esitando a riprendere le parole di un ammiraglio tedesco. La sinistra occidentale dovrebbe quindi riorganizzarsi contro la guerra americana, che è la principale minaccia, come ha fatto contro gli interventi americani in Siria: «Stop the War non è un partito politico. Ha sostenitori conservatori e molti sostenitori dell’indipendenza scozzese. Il suo obiettivo è fermare le guerre degli Stati Uniti o della Nato, qualunque sia il pretesto. I politici e i commercianti di armi che sostengono queste guerre non lo fanno per rafforzare la democrazia, ma per servire gli interessi egemonici della più grande potenza imperiale del mondo. Stop the War e molti altri continueranno a opporsi nonostante le minacce, le calunnie e ai sicofanti» [10].
Questo articolo è una sintesi del peggiore discorso della sinistra occidentale «contro la guerra». È solo la Nato, nient’altro che la Nato, che mira al dominio del mondo e cerca la guerra per ottenere profitti ed espandere il proprio spazio di influenza. Di conseguenza, il comportamento di Putin è solo un controeffetto della Nato che non ha un’esistenza propria, né il suo regime. È questa cecità che ha suscitato la rabbia dello storico Taras Bilous, attivista dell’organizzazione ucraina Social Movement e redattore della rivista «Commons». Quasi mai, spiega Bilous, la sinistra occidentale – sempre svelta nell’indicare le «esigenze di sicurezza» nucleare russa, ha ricordato le stesse esigenze dell’Ucraina, che nel 1994 ha rinunciato al suo arsenale nucleare in cambio della garanzia dell’inviolabilità dei suoi confini, principio che Putin ha infranto nel 2014 [11].
La realtà dell’imperialismo russo
Prendere finalmente in considerazione l’imperialismo russo e studiare da vicino i suoi metodi e le sue intenzioni specifiche non significa rovesciare la stupidità campista e farne l’unico Nemico, ma è certamente affermare che qualsiasi analisi che non lo prenda sul serio si squalifica da sola.
Per la sinistra, questa cecità è tanto più colpevole quanto questo imperialismo mira non solo a estendersi ai suoi margini, ma anche a destabilizzare i Paesi in cui la democrazia liberale vive ancora, se non altro nella forma degradata che conosciamo. È un imperialismo militare, ma anche eminentemente politico: mira a estendere ovunque una concezione dittatoriale e nazionalistica del potere in cui le libertà civili e politiche non hanno ragione di esistere. Ecco perché il modello Putin ha così tanti sostenitori tra la destra globale e l’estrema destra. È perché esiste una stretta connessione tra il regime di terrore interno e la politica estera: come può una dittatura che perseguita i suoi oppositori, a volte li uccide, e proibisce ogni libera espressione della società civile tollerare, soprattutto ai suoi confini immediati, l’esistenza di società politicamente più libere? Il sostegno di Putin a Lukashenko, Tokayev e Kadyrov è perfettamente coerente: impero all’estero e dittatura all’interno vanno di pari passo. Ma sappiamo che le ambizioni di Putin vanno oltre: ogni ostacolo interno o esterno al suo potere deve essere distrutto. Lo schiacciamento della rivoluzione democratica siriana con bombe e armi chimiche è stato un monito per tutti i popoli che cercano di liberarsi dai loro tiranni, e forse prima di tutto un messaggio per lo stesso popolo russo. Se la prima linea della dittatura inizia in Russia, tutti i Paesi vicini e lontani sanno cosa li aspetta se nulla impedisce la sua estensione.
Che sia chiaro. Il nemico di Putin non è il capitalismo come sistema di sfruttamento, ma la democrazia, contro la quale intende condurre una guerra spietata. Ciò che lo preoccupa è il potere delle masse in lotta contro la corruzione economica e politica, cioè contro il suo stesso potere. Queste masse mobilitate, come abbiamo visto ancora una volta in Bielorussia, vedono nell’Unione Europea un modello politico più invidiabile rispetto alle dittature predatorie che subiscono. È stata l’associazione tra l’Ucraina e l’Unione Europea a far decidere a Putin di iniziare a spaccare l’Ucraina dopo la «rivoluzione del febbraio 2014».
Certo, è comprensibile che una parte della cosiddetta sinistra «radicale» sia piuttosto imbarazzata nel vedere le rivoluzioni popolari nel mondo post-sovietico fare dell’Unione Europea una speranza e un orizzonte, poiché essa critica giustamente la natura profondamente neoliberale e capitalista di quell’Europa. Ma se abbiamo ragione a criticare la «troppo poca democrazia» dell’Unione Europea, è in nome della richiesta di autogoverno e soprattutto non per riprendere la retorica di Putin secondo cui queste rivoluzioni sono colpi di Stato fomentati dalla Nato. Bisogna dirlo forte e chiaro: meglio per la causa dell’uguaglianza, della democrazia e della libertà, l’insufficiente democrazia dell’Occidente che le barbare dittature di Bashar, Putin e Lukashenko, modelli di tutti i fascismi contemporanei. Il putinismo ha una coerenza ideologica che lo colloca tra tutte le ideologie neo-conservatrici e tutti gli identitarismi attualmente in voga. Come ha scritto Edwy Plenel, questa ideologia assume la forma di «promozione di una Russia eterna, basata sulla sua identità cristiana e slava, come alternativa alla democrazia moderna, che è stata ridotta a un inganno occidentale». Miscela di neonazismo, panslavismo e stalinismo, il putinismo non ha nulla, assolutamente nulla, di progressista o democratico. Al contrario, è un pericolo mortale per il popolo russo e per tutti gli altri. Da qui l’urgenza di combatterlo senza nessuna esitazione.
La tremenda responsabilità dell’Unione Europea
Nessuno può negare in buona fede che il denaro pagato dagli europei per il gas russo sia stato e sia tuttora utilizzato per finanziare la guerra totale e la politica del terrore di Putin. La causa della pace e la causa del cambiamento climatico sono intimamente legate, come hanno proclamato a gran voce decine di migliaia di manifestanti nelle strade della Francia sabato 12 marzo: smettere di acquistare il gas russo significa sia chiudere il rubinetto che alimenta la mafia oligarchica di Putin, sia avviare il cambiamento radicale richiesto da ogni vera alternativa ecologica. Lo stesso giorno, con tutta la solennità richiesta dal luogo, i leader dei 27 paesi dell’Unione Europea si sono riuniti in un vertice a Versailles per concordare un obiettivo di riduzione della dipendenza dell’Europa dal carburante russo (gas, petrolio e carbone). Ufficialmente, l’obiettivo è quello di garantire l’approvvigionamento energetico dell’Unione Europea e di avvicinarsi a quella che viene pomposamente chiamata «sovranità energetica». Al termine dell’incontro, i leader hanno annunciato la fine della dipendenza europea entro cinque anni. Ma qual è il valore di questa dichiarazione rispetto alla continuità della politica dell’Unione Europea su questo tema?
Una continuità deplorevole
Nel 1951, 70 anni fa, nasceva la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (Ceca), che riuniva 6 Paesi europei e fu presentata come un primo passo nella «marcia verso gli Stati Uniti d’Europa». Solo nel 2007 l’energia è stata riconosciuta come «competenza condivisa». Nel linguaggio cifrato dell’Unione Europea, questo non significa che fa parte di un vero e proprio pool di interessi che va al di là degli interessi degli Stati, ma che gli Stati membri rimangono sovrani sugli aspetti essenziali finché l’Unione non legifera: il loro mix energetico, lo sfruttamento delle loro risorse e i loro approvvigionamenti, senza che si svolga alcun dibattito tra gli Stati stessi. Così solo Germania ha deciso nel 2011 di abbandonare il nucleare, anche se questa decisione ha avuto un impatto diretto sulla quantità di energia prodotta in Europa. Ed è stato anche la sola a decidere immediatamente di aderire al gasdotto Nord Stream 2 costruito da Gazprom. Nel 2000, un primo Libro Verde della CE ha messo in guardia sui rischi posti dal fatto che il 40% delle importazioni di gas proveniva dalla Russia.
Nel 2006, un secondo libro verde ha ripetuto l’avvertimento mentre la Russia tagliava il gas all’Ucraina. Nel 2009, la Russia accusa l’Ucraina di non pagare il gas e glielo taglia nuovamente. Nel 2014, le sanzioni dell’Unione Europea in seguito all’annessione illegale della Crimea escludono il gas russo. Nel 2015, Gazprom ha unito le forze con Shell, la tedesca Eon e l’austriaca Omv per avviare la costruzione del Nord Stream 2, a cui si è aggiunto poco dopo il gruppo francese Engie. Oggi, nel 2022, il grado di dipendenza è esattamente lo stesso del 2000, ovvero il 40%. Nel 2000, la Commissione europea ha proposto di obbligare gli Stati membri a costituire stock strategici di gas. 22 anni dopo, la proposta è esattamente la stessa. Lo stesso approccio viene quindi ostinatamente ripetuto [12].
È inutile deplorare un «difetto strutturale», come ha fatto Delors nel 2015: non si tratta più di un «difetto strutturale» a cui si potrebbe rimediare con un cambiamento di struttura e neppure un semplice «deficit» che si potrebbe aggiustare con uno sforzo specifico. Si tratta di un limite insito nel processo stesso di costruzione dell’Unione Europea, che ha sacralizzato fin dall’inizio la logica dell’interstatalità e dell’intergovernatività per meglio coniugarla con la pratica di un’intensa attività di lobbying delle grandi imprese presso le istituzioni europee. Da diversi anni, con notevole costanza, le grandi aziende russe approfittano sistematicamente delle possibilità aperte da tali pratiche acquistando i servizi di ex leader politici europei (tra cui Renzi, Fillon, Schröder, quest’ultimo non ha ancora rinunciato al suo coinvolgimento in aziende russe). Shell si è recentemente impegnata a smettere di acquistare petrolio e gas russo, ma non dice se questo impegno vale anche per gli ordini passati, un’omissione significativa visto che la maggior parte dei contratti di acquisto di gas dura 10-15 anni. Lo scorso settembre, il gruppo ungherese Mvm ha firmato con Gazprom un contratto che durerà fino al 2036. Il gruppo francese Engie si rifiuta di rispondere alla domanda anche se il 20% delle sue vendite globali di gas proviene dalla Russia e la tedesca Eon afferma di acquistare sul mercato all’ingrosso europeo, dove non esiste alcuna certificazione di origine che indichi la provenienza del gas. Al Vertice di Versailles, nessuno ha avuto da ridire su tutti questi contratti privati per il gas e sugli impegni assunti da società private europee in Russia: si è trattato di un «nulla di fatto» [13], a meno che non si volesse coprire il segreto d’impresa, cosa che è ben presente alle istituzioni indaffarate a garantire la supremazia del diritto privato.
Tassonomia verde e interessi di potere
Ne abbiamo avuto recentemente la prova con la «tassonomia verde», presentata agli Stati membri poco prima della mezzanotte del 31 dicembre 2021 dalla Commissione Europea e che rivela la realtà di questa presunta «sovranità europea», sempre invocata con frasi altisonanti. Più precisamente, si tratta della cosiddetta «sovranità energetica»: l’obiettivo è infatti quello di ottenere che l’energia nucleare e il gas, due energie introdotte all’ultimo momento nel progetto della Commissione, siano classificate come «energie verdi». Due Paesi si sono adoperati attivamente per questa riclassificazione delle due energie: la Francia, un grande produttore di energia nucleare che intende continuare a esserlo anche nei decenni a venire e che ha esercitato un’intensa attività di lobbying per questa classificazione, e la Germania, che vuole aumentare la sua produzione di gas per ridurre la sua dipendenza dalla Russia. La Francia, che è l’unico Paese dell’Ue a non avere turbine eoliche offshore in funzione, vede in questa situazione un’occasione d’oro per promuovere il nucleare come l’energia «più decarbonizzata e sovrana», secondo le parole di Macron. La posta in gioco è alta anche per la Germania, che nel 2021 contava con il 42% di energia rinnovabile e il 27% di carbone, facendo del carbone la principale fonte di energia non rinnovabile [14].
Se si considera che il nuovo governo tedesco si è posto l’obiettivo di eliminare gradualmente il carbone entro il 2030, la sfida è più chiara. Tra gli scenari esaminati dall’Unione Europea, ce n’è uno che prevede il 100% di energia rinnovabile nel 2040. La scelta della Commissione Europea è stata di voltarle le spalle fin dall’inizio. Si tratta di una pura e semplice negoziazione interstatale avallata dalla Commissione Europea, che dovrebbe essere la custode dell’«interesse generale» dell’Europa: la Francia cede alla Germania sul gas, in cambio la Germania cede alla Francia sul nucleare. Sono quindi gli «interessi nazionali», nel senso più ristretto e meschino del termine, a essere racchiusi nella «tassonomia verde». In realtà, la «sovranità europea» in materia di energia è uno squallido affare che equivale a sacrificare l’ecologia sull’altare dei peggiori interessi di potere: le conseguenze a lungo termine dello stoccaggio sotterraneo delle scorie nucleari per più di un secolo sono semplicemente ignorate, e le emissioni di gas serra generate dall’estrazione di gas fossile sono trattate come trascurabili.
L’istituzionalizzazione del lobbismo al posto della deliberazione collettiva
Qual è il motivo di una così intensa attività di lobbying da parte di Francia e Germania? Il Commissario europeo per il Mercato interno, Thierry Breton, ha detto l’ultima parola in un’intervista al «Journal du dimanche» del 9 gennaio: ha dichiarato che le centrali nucleari europee di nuova generazione richiederanno un investimento di 500 miliardi di euro entro il 2050 e che è fondamentale includere l’energia nucleare nella tassonomia «per consentire all’industria di attrarre tutti i capitali di cui avrà bisogno». L’obiettivo è perfettamente chiaro: non si tratta di proibire gli investimenti in attività economiche non incluse nella tassonomia, ma di orientare meglio i flussi di capitale attirando una riduzione del costo del capitale. La decisione della Commissione Europea è quindi interamente ordinata all’imperativo della concorrenza tra capitali. Evidenzia la nuova forma che assume la sovranità statale: la sua funzione è quella di creare le condizioni più favorevoli alla circolazione transnazionale del capitale, organizzando e dirigendo i flussi di capitale a proprio vantaggio. Per svolgere questo compito, lo Stato è più che mai chiamato a esercitare la propria sovranità. L’Unione Europea è un esempio non di una vera e propria sovranità sovranazionale, ma di una costruzione a più livelli (Commissione, Consiglio dei capi di Stato, Consiglio dei ministri, Parlamento ecc.), dove la pratica del lobbismo è un elemento chiave. L’attività di lobbying del governo francese subentra opportunamente a quella pro-nucleare svolta da Edf e Areva e, in un certo senso, le conferisce «legittimità» in quanto opera all’interno delle istituzioni dell’Unione Europea. In quest’ottica, l’Unione Europea appare per quello che è: il campo di gioco istituzionale di un gigantesco lobbismo multilivello che opera come un meccanismo autosufficiente e rende superflua ogni vera deliberazione collettiva. Questo è il processo decisionale che ha forza di legge nell’Ue.
Da qui nasce la logica degli accordi interstatali a geometria variabile che riconfigurano la sovranità statale in modo inedito senza abolirla. Da questo punto di vista, la strategia adottata da Macron alla vigilia delle elezioni presidenziali francesi è molto rivelatrice della sua concezione di «sovranità europea». In primo luogo, ha raggiunto un accordo con Orban durante la sua visita a Budapest il 13 dicembre 2021, prima ancora che la nuova tassonomia fosse proposta dalla Commissione Europea, ma per dare maggior peso alle pressioni esercitate dalla Francia. L’accordo comprende la politica migratoria, la difesa europea e il riconoscimento dell’energia nucleare come «energia verde». In un secondo momento, il presidente francese ha cercato di dissociare il fronte antinucleare tedesco-austriaco attraverso l’accordo sulla nuova tassonomia, ufficializzato poco dopo. La Francia si è così assicurata il sostegno della Germania su questa spinosa questione dopo quello dell’Ungheria. La nuova posizione assunta da Orban e Macron, questi «avversari politici» diventati da un giorno all’altro «partner europei», la dice lunga sulla logica degli interessi di Stato.
La convergenza franco-ungherese sulla politica migratoria alle frontiere dell’Unione europea gioca un ruolo fondamentale in questo senso, poiché si tratta né più né meno che di «rendere più efficace il rimpatrio nei Paesi d’origine per coloro che non hanno diritto all’asilo», cioè di intensificare e accelerare le espulsioni. Possiamo vedere fino a che punto il confronto tra «progressisti» e «nazionalisti», tra i virtuosi campioni dello «Stato di diritto» e i sostenitori della «democrazia illiberale», non sia una vera alternativa, ma una messa in scena e una drammatizzazione di disaccordi molto reali tra i poteri statali nazionali. Le reali differenze tra Francia e Germania non hanno impedito alle due potenze di accordarsi sull’estensione dell’etichetta «energia verde». Il 2 febbraio di quest’anno, la Commissione europea ha finalmente pubblicato il suo «atto delegato» (l’equivalente di un decreto) sulla tassonomia verde in cui il gas e il nucleare sono riconosciuti come «energie transitorie» [15]. Non sorprende che l’energia nucleare sia stata finora la vincitrice nel doppio gioco politico della Francia con l’Ungheria e la Germania. È proprio in questa nuova forma mistificatoria, quella della cosiddetta «sovranità europea» o «potere europeo», che la sovranità statale viene ancora esercitata all’interno dell’Unione Europea. È con questa logica, che l’ecologismo neoliberista è ben felice di accettare, che dobbiamo rompere una volta per tutte.
Per un nuovo internazionalismo
Come possiamo fermare la micidiale dinamica dei poteri sovrani che sta mettendo in discussione le fragili regole e gli equilibri della fine del XX secolo? La domanda che si pone è quella di una radicale rifondazione dell’Europa. Il grande compito della prossima generazione sarà quello di inventare una nuova cosmopolitica basata sulla democratizzazione radicale delle società.
L’estrema destra e anche una parte della destra hanno simpatie dichiarate per i «regimi forti», modelli di quella «autorità statale» che è il loro vero Dna. La sinistra radicale non dovrebbe logicamente avere nulla a che fare con questa retorica dei «poteri forti», né con gli argomenti anestetici che enfatizzano il «contesto» e la «responsabilità condivisa». Deve essere chiaro sui propri fondamenti e principi a questo proposito. Uno di questi è il diritto incondizionato all’autodeterminazione dei popoli. Come può pretendere di fare della democrazia integrale il suo obiettivo se fallisce in questo senso?
Pertanto, nessuna scusa o giustificazione barocca dovrebbe ostacolare il sostegno alla resistenza armata ucraina, così come nessuna scusa o giustificazione contorta avrebbe dovuto lasciare la rivolta democratica siriana di fronte alla barbarie al suo crudele destino.
Ancora una volta, «il pacifismo non è un’opzione». Ma nemmeno il rafforzamento della Nato e dell’Unione Europea. Per i Paesi che vogliono sfuggire alla volontà imperiale del grande vicino, possono costituire solo protezioni temporanee ma pericolose, come possiamo vedere ancora oggi. La questione strategica che si pone oggi è come evitare il confronto sempre più diretto tra potenze statali a vocazione egemonica globale, i cui risultati drammatici sono l’aumento dei bilanci militari, la crescente sofisticazione dei mezzi di forza e la moltiplicazione degli spazi e delle forme di conflitto.
Questo confronto globale tra poteri statali ha effetti diretti sull’aumento della coercizione imposta alle popolazioni, in particolare di natura poliziesca, in altre parole, accelera la «de-democratizzazione» già ampiamente avviata dalla dominazione neoliberista.
Rifiutarsi di parlare al posto degli ucraini
Invece di esitare a inviare armi di difesa a un aggressore che conosce solo la violenza più barbara, la sinistra radicale deve cercare di influenzare i rapporti di forza nella guerra. Come si può fare? Innanzitutto, non parlando al posto degli altri, non negando il diritto degli ucraini, come di altri popoli che sono sotto pressione e minacciati da Putin, di difendersi con ogni mezzo che ritengono opportuno, anche se può non piacere. L’urgenza è l’autodifesa di un popolo sotto attacco. In secondo luogo, mostrando solidarietà con la sinistra radicale ucraina che, come abbiamo visto, chiede di comprendere la natura del regime di Putin per poter prendere pienamente le misure della sua politica estera.
La guerra non deve essere condotta contro «i russi», ma contro un sistema che li opprime. Ecco perché dovremmo essere particolarmente preoccupati per la possibile rinascita di un’estrema destra ucraina nazionalista, stimolata dalla guerra, che è solo uno specchio del fascismo di Putin. Come sappiamo fin troppo bene, il nazionalismo alimenta il nazionalismo.
La sinistra radicale occidentale dovrebbe essere la prima a rilanciare tutte le voci dissidenti che si sono coraggiosamente espresse in Russia dall’inizio dell’invasione. Un esempio è la notevole lettera firmata da oltre 10.000 insegnanti, studenti e laureati dell’Università Lomonosov di Mosca che «condanna categoricamente la guerra che il nostro Paese ha scatenato contro l’Ucraina». La lettera aggiunge: «L’azione della Federazione Russa, che i suoi leader chiamano ’operazione militare speciale’, è una guerra, e in questa situazione non c’è spazio per eufemismi o scuse. La guerra è violenza, crudeltà, morte, perdita di persone care, impotenza e paura che non possono essere giustificate da alcuno scopo.
Si pensi anche alla petizione di 664 ricercatori russi che, all’indomani dell’invasione dell’Ucraina, hanno denunciato la piena responsabilità della Russia nello scoppio della guerra e hanno aggiunto: «Comprendiamo la scelta europea dei nostri vicini. Siamo convinti che tutti i problemi tra i nostri due Paesi possano essere risolti pacificamente» [16].
Il manifesto delle Femministe russe contro la guerra collega l’aggressione militare alla promozione dei «valori tradizionali» di Putin contro la degenerazione occidentale che avrebbe contaminato «l’anima russa»: «Chiunque abbia uno spirito critico capisce che questi ’valori tradizionali’ includono la disuguaglianza di genere, lo sfruttamento delle donne e la repressione di Stato contro coloro il cui stile di vita, la cui identità e le cui azioni non sono conformi alle ristrette norme patriarcali. L’occupazione di uno Stato vicino è giustificata dal desiderio di promuovere tali norme distorte e di perseguire una «liberazione» demagogica; questo è un altro motivo per cui le femministe di tutta la Russia devono opporsi a questa guerra con tutte le loro forze». Il manifesto femminista invita «a formare la Resistenza Femminista contro la Guerra e a unire le forze per opporsi attivamente alla guerra e al governo che l’ha iniziata» [17].
Ma c’è un altro compito internazionalista urgente. Consiste nel denunciare la stretta connivenza del capitalismo occidentale, in particolare quello degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, con la corruzione delle «élite» russe. È questa connivenza che ha permesso alla «macchina del saccheggio» di funzionare dagli anni Novanta. Questo capitalismo predatorio, le cui prime vittime sono state e sono tuttora i lavoratori russi, ha goduto di tutte le agevolazioni per il riciclaggio e la speculazione nei circuiti della finanza, dell’immobiliare, del lusso, dello sport, ecc. offerte dai Paesi che oggi si offendono per l’ultra-ricchezza degli oligarchi russi acquisita con la corruzione e la totale sottomissione a Putin.
È il sistema finanziario capitalista mondiale, con tutte le sue opacità, che ha contribuito alla creazione del mostro statale di Putin, ed è contro entrambi che dobbiamo unire tutti i democratici radicali dell’Occidente e dell’Oriente. Per quanto tempo i soldati russi accetteranno di essere uccisi per difendere uno Stato così ladro e corrotto? È lo stesso autocompiacimento dei leader politici europei che ha fornito a Putin i mezzi per rafforzare e modernizzare il suo esercito. Apprendiamo con stupore che Francia, Germania, Italia, Austria, Bulgaria, Repubblica Ceca, Croazia, Finlandia, Slovacchia e Spagna hanno consegnato alla Russia 346 milioni di euro di equipaggiamenti militari tra il 2015 e il 2020, nello stesso periodo in cui questa stava radendo al suolo le città siriane.
Europa Grande Potenza o Europa federale?
Infine, questa sinistra radicale non può distogliersi dall’immenso compito dell’«architettura politica» dell’Europa e del mondo. Come fermare la micidiale dinamica dei poteri sovrani che sta mettendo in discussione le fragili regole e gli equilibri della fine del XX secolo? Non solo non deve distogliersi da questo compito, ma deve farne una delle sue priorità, perché l’organizzazione politica del mondo determina in larga misura tutte le altre. Pensare di poterlo evitare proponendo una concezione assolutistica e obsoleta della sovranità nazionale e un «non allineamento» non è solo un errore politico e morale, ma è un errore sullo stato del mondo e sul modo di evitare le peggiori calamità. È comprensibile che un Paese sotto attacco ne approfitti, ma non è comprensibile che un Paese che deve dimostrare solidarietà lo usi come pretesto per un vigliacco abbandono.
La questione che si pone è quella di una radicale rifondazione dell’Europa su base democratica, rompendo con la logica della sovranità statale. La logica della costruzione dell’Unione Europea deve essere invertita partendo dal basso, cioè dagli stessi cittadini europei e dai loro gruppi, associazioni e organizzazioni. Ciò significa che l’alternativa non va cercata in un «rinnovamento» delle istituzioni dell’Unione Europea o in un rafforzamento della federalizzazione verso la creazione di uno Stato federale.
Dobbiamo iniziare a mettere in discussione la distribuzione dei poteri tra Commissione Europea, Consiglio e Parlamento. Un primo passo in questa direzione sarebbe quello di abolire il monopolio dell’iniziativa legislativa detenuto dalla Commissione Europea. Un secondo passo sarebbe quello di condividere questo potere di iniziativa tra i deputati e i cittadini, in modo che questi ultimi possano partecipare direttamente al suo esercizio. Questo amplierebbe la sfera di deliberazione che è il cuore di ogni vera democrazia degna di questo nome, invece di essere cortocircuitata dalle pratiche di lobbying.
Ma questi sono solo i primi passi verso un obiettivo che deve essere identificato come quello di un’Europa federativa e non federale. Ci si può chiedere quale sia il significato di questa distinzione poco conosciuta tra federale e federativo. In realtà, è stata in qualche modo offuscata e oscurata da dottrine politiche che hanno ripreso l’idea di Montesquieu di «repubblica federativa» per meglio dissociarla da quella di Stato nazionale.
Questa nozione privilegia ancora la sovranità degli Stati federati in modo tale che sarebbe giustificato parlare di un federalismo interstatale piuttosto che di una vera e propria logica federativa. È questo tipo di federalismo che i costituzionalisti americani hanno portato a compimento a Filadelfia nel 1787, ed è questo tipo di federalismo che ha prevalso in forma aggravata con la creazione della Confederazione canadese nel 1867. Il federalismo a cui ci riferiamo si riferisce al «principio federativo» di Proudhon e non al federalismo statale, intrastatale o interstatale. Ciò implica che l’intera costruzione parta dal basso, dai comuni e dalle unità politiche di base. Un’Europa federativa sarebbe quindi un’Europa di comuni in cui questi ultimi sarebbero liberi di affiliarsi tra loro indipendentemente dai confini nazionali, secondo la logica di una federazione transcomunale che andrebbe oltre i limiti dell’Europa stessa. In breve, un’Europa federativa, che procede da un comunitarismo transnazionale, è l’esatto contrario di un’Europa «grande potenza» o «sovrana».
La Nato, sotto la guida nordamericana, non può fungere da scudo universale più di un’Europa «grande potenza». Entrambi non sono la soluzione, ma parte del problema. Pensarlo significa rimanere nella logica dello scontro e della militarizzazione dei «blocchi». Sappiamo che né l’uno né l’altro sono garanzia di rispetto del diritto internazionale: l’Iraq, la Somalia, la Libia e, naturalmente, la violazione permanente di questo diritto con la colonizzazione dei territori occupati sono sufficienti a dimostrarlo. Inoltre, si è notato da tempo che il modo di deliberare e decidere dell’ONU, grazie al diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, riduce l’organizzazione delle nazioni a una completa impotenza non appena sono in gioco gli interessi di uno o dell’altro dei membri permanenti.
Non ci saranno né pace né giustizia internazionale, né una vera «transizione ecologica» basata sulla cooperazione globale, finché non si inventerà un’istituzione completamente diversa per gestire le relazioni e i conflitti tra gli Stati. Ma soprattutto, possiamo intuire che il vero problema risiede nell’eredità della storia, che ha fatto dello Stato sovrano la forma universale di organizzazione delle società. È in nome di questa aspirazione a formare uno Stato sovrano protetto dai suoi nemici che l’Ucraina si difende, ma è altrettanto in nome di questo stesso principio che la Russia afferma di difendersi invadendo il suo vicino.
Il potenziale distruttivo del quasi monopolio della «forma Stato» nelle relazioni internazionali, per non parlare del diritto di ciascuna di queste entità di perseguitare i propri sudditi, deve portare all’esigenza democratica di società che si autogovernano dal basso e che tessono tra loro legami multipli che sfuggono alla mediazione degli Stati nazionali. Questo dimostra, come abbiamo detto all’inizio, che non ci sarà una soluzione «internazionale» alle crisi che colpiscono il mondo senza una soluzione democratica a livello di ogni società. La guerra che Russia conduce ne è la prova più tragica. Ed è per questo che solo lo sviluppo della solidarietà e della transnazionalità delle lotte di emancipazione può offrire qualche speranza. Non sarà sufficiente far rivivere le vecchie forme di internazionalismo del XIX e XX secolo, che si sono infrante nella realtà degli Stati nazionali e delle loro rivalità.
Inizialmente basato sull’idea saint-simoniana e poi marxiana che il proletariato mondiale si sarebbe naturalmente unito con l’espansione del «mercato universale» fino a costituire una società mondiale libera dal capitalismo e dagli Stati nazionali, l’internazionalismo socialista è stato progressivamente catturato e assorbito dai quadri politici, simbolici e culturali di questi stessi Stati nazionali. L’ultimo tentativo di salvare questo internazionalismo dallo stalinismo e dal suo «socialismo in un solo paese», quello di Trotsky con la Quarta Internazionale, è ormai completamente esaurito. Qualsiasi tentativo di far rivivere l’idea di una direzione centralizzata della lotta è destinato a fallire. Il grande compito della prossima generazione sarà quello di inventare una nuova cosmopolitica basata sulla democratizzazione radicale delle società.
Note [1] Hegel, Principi della filosofia del diritto e della scienza dello Stato in forma abbreviata, nota al § 324, citata e tradotta in francese da Jean Hyppolite nella sua Introduzione alla filosofia della storia di Hegel. [2] S. Dullin, intervista a «Le Monde», 16 marzo 2022. [3] A. Applebaum, Famine rouge, Grasset, 2019, pp. 31-37. [4] Ivi. p. 105. [5] Cfr. K. Marx – F. Engels, La Russie, traduzione e prefazione in francese di Roger Dangeville (1974), Union générale d’Édition, collezione 10/18, Paris 1974, pp. 231-232. [6] B. de Sousa Santos, Las claves de una catástrofe anunciada, El lamentable papel de Europa en la guerra Rusia – Ucrania y las lágrimas que desató, «Pagina 12», 10 marzo 2022 [7] L. Al-Shami, L’antimperialismo degli idioti, versione francese http://solitudesintangibles.fr/lanti-imperialisme-des-imbeciles-leila-al-shami/. [8] Ivi. [9] Volodymyr Artiukh, Le spiegazioni americanocentriche non sono più sufficienti. Lettera alla sinistra occidentale, 6 marzo 2022. Questo testo è apparso originariamente sulla rivista ucraina «Commons» ed è stato ripreso da «Contretemps». [10] T. Ali, Notizie dal Natoland. [11] T. Bilous, Ucraina. Una lettera da Kiev a una sinistra occidentale. [12] Riprendiamo qui le informazioni straordinariamente precise fornite da Marie Viennot in «La Bulle économique» trasmessa su France Culture il 12 marzo 2012. [13] Nelle parole di Marie Viennot. [14] Va notato che si tratta di lignite in superficie e che il suo sfruttamento richiede miniere a cielo aperto il cui scavo minaccia l’esistenza di interi villaggi. [15] V. Malingre, Pour la Commission européenne, le gaz et le nucléaire peuvent accompagner la transition écologique, «Le Monde», 2 febbraio 2022 [16] Appello di 664 ricercatori e scienziati russi: Chiediamo la cessazione immediata di tutti gli atti di guerra diretti contro l’Ucraina, pubblicato da «Le Monde», 25 febbraio 2022. https://www.lemonde.fr/idees/article/2022/02/25/appel-de-664-chercheurs-et-scientifiques-russes-nous-exigeons-l-arret-immediat-de-tous-les-actes-de-guerre-diriges-contre-l-ukraine_6115263_3232.html. [17] Manifesto delle femministe russe contro la guerra, 27 febbraio 2022. https://alencontre.org/europe/russie/manifeste-des-feministes-russes-contre-la-guerre.html.
Immagine: Nanni Balestrini, La vecchia Europa, 2006.
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