Sergio Bianchi, Il cuoco, collage su carta, 2009
La vera cucina non è quella dei cuochi*
Giuseppe Prezzolini (1957)
Compiango quelli che devono far i cuochi per mestiere, e ho un certo disprezzo per quelli che applicano a casa le ricette scritte nei libri scelti da altri. I cuochi di mestiere son un po’ come i professori di filosofìa (o di matematiche) che, a una certa ora, debbono sentirsi in vena e parlare da filosofi (o da matematici). E quelli che usano le ricette dei libri son come gli scolari che imparano la lezione da pagina a pagina tale.
Il bello della cucina è l’improvvisazione. Il bello non è riuscire, ma provare e qualche volta riuscire, ma quella volta che ci si riesce, che soddisfazione!
Per divertirsi in cucina bisogna affrontare la situazione del giorno, senza pensarci sopra una giornata intera. Anzi, la situazione dell’ora. Arriva un amico e devi inventare qualche piatto con quello che hai. Questa è la vera cucina-poesia.
In questo modo si finisce, un giorno, per inventare delle ricette. E che cosa importa se gli altri hanno sempre, ogni giorno, una ricetta pronta, e la tengono segreta, e te la passano, se proprio ti vogliono bene, con un sorrisino di compiacenza.
Il bello è scoprire delle ricette nuove e, dimenticarsene subito, in modo da poter un giorno di poi riscoprirle ancora.
Mi ricordo di (Ardengo) Soffici in certi piccoli ristoranti di Parigi, dove si andava per ristrettezza di bilancio, alle volte prendeva degli avanzi più irreconciliabili dei piatti, li mescolava insieme, ci gettava a caso del sale o dell’olio o dell’aceto, quello che gli veniva a mano, e poi lo assaggiava, e qualche volta trovava che andava benissimo.
Sbagliate, sbagliate, qualche cosa verrà fuori, sarebbe il vero motto della cucina inventiva.
Del resto sono convinto che alcuni dei piatti più famosi del mondo, come la Paella valenciana, che riunisce il pollo con le arselle, e lo sformato, nacquero da confusioni di questo genere. E che il cocktail, un genere che permette molte varianti, che si vanno ancora inventando – sebbene non appartenga alla cucina propriamente detta, appartiene alla pre-cucina – fu pure il frutto di qualche errore fortunato, per cui due o più liquori vennero per accidente riuniti insieme, e trovati convenienti per il palato.
La vera cucina è questa, e non quella dei cuochi, che sanno prima quanti grammi, quante libbre, quanti centilitri di latte o di olio vanno nella confezione del piatto. E se mai bisogna preferire le ricette vaghe, come quelle dell’Artusi, che si esprimono così: un bicchiere di vino... (e chi lo sa di quanto capace?), una presina di sale... (e con quali polpastrelli?), una mezza cipolla... (vattelapesca quanto grossa)».
*Da: Katharina di Nieuwerve, Viaggio cucinario nell’immaginario dei sapori, DeriveApprodi, 2009
Zuppa di patate e porri*
Scrive Marguerite Duras in Outside, papiers d’un jour: «Niente nella cucina francese raggiunge la semplicità, la necessità della zuppa di porri. Dev’essere stata inventata in una sera d’inverno in una qualche contrada occidentale, da una giovane donna della borghesia locale che ebbe un improvviso orrore per le salse grasse...». Quando la si cucina «il suo odore nella casa si diffonde velocemente, forte, volgare come il mangiare povero, il lavoro delle donne, la cuccia delle bestie, il vomito dei neonati...».
Occorre un chilo di patate per due porri di media grandezza.
Tagliate i porri, con un po’ del loro verde, alla julienne. Scottateli in acqua bollente per un paio di minuti. Intanto pulite le patate, tagliatele a tocchi e mettetele in una casseruola con acqua fredda, salata. Portate a ebollizione, appena le patate sono cotte gettate nella pentola i porri. Poi, lontano dal fuoco incorporate nella zuppa 30 grammi di burro, un bicchiere di panna liquida addensata con una frusta, qualche pilucco di timo. Regolate il sale e il pepe. Servite la zuppa cosparsa di un pizzico di una julienne composta da porri, sedano e carote crudi. Accompagnatela con fette di pane grigliato e agliato. Osserva la Duras: «Questa zuppa nei ristoranti non è mai buona perché è troppo cotta, troppo brodosa e triste... così finisce per allungare l’elenco delle zuppe di verdura», umiliando il porro, un tempo raccomandato contro i morsi dei serpenti, invidiato per la sua forma fallica depositaria di virtù afrodisiache e portatore degli antichi colori celtici, il verde e il bianco.
* Da: Katharina di Nieuwerve, Viaggio cucinario nell’immaginario dei sapori, DeriveApprodi 2009.
Una ratatouille provenzale*
Cucina nel bosco: Pierina a Pianbosco (fine anni Sessanta)
Nella grande cucina borghese dell’Ottocento si identificava come un grossolano ragoût di verdure, ma è molto di più, oltre a essere un piatto che ha la stessa età del primo orto. In Provenza i contadini che ancora la chiamano ratatouilhodicono che ci vogliono le mani, anzi le dita di una donna sposata per prepararla bene mentre Chopin possono suonarlo anche le liceali. Diverrà femminile nei grandi ristoranti europei. Ci sono sostanzialmente due famiglie di ratatouille, quella nizzarda e le altre.
In una sauteuse fate appassire a fuoco dolce nell’olio d’oliva quattro cipolle bianche tagliate a piccoli pezzi. Nello stesso tempo in una padella, sempre con olio d’oliva, fate rinvenire sei grossi pomodori, spellati e privi di semi e acqua di vegetazione. Poi, in un’altra padella ripetete l’operazione con mezza dozzina di zucchine piccole tagliate a fettine per il lungo e quattro melanzane tagliate a tocchetti. Riunite queste verdure nella sauteuse, aggiungeteci tre peperoni, uno rosso, uno giallo e uno verde che avrete grigliato, pulito, spellato e tagliato a listarelle. Condite il tutto con timo fresco, rosmarino, alloro, basilico, quattro spicchi d’aglio grattugiati, sale e pepe. Mettete il recipiente per almeno tre ore all’angolo del fornello e lasciate che con il calore tutto si amalgami. Al momento del servizio appoggiate un mestolo di ratatouille su una fetta bagnata di pane senza sale. Se volete si può anche usare per cucinarci una frittata.
* Da: Gianni-Emilio Simonetti, Fuoco amico. Il food-design e l’avventura del cibo tra sapore e saperi, DeriveApprodi 2010.
La lepre in salmì*
Cucina nel bosco: Gianni-Emilio Simonetti nei boschi dell’alto varesotto (fine
anni Sessanta)
Abbiamo cominciato ogni fine settimana della primavera e dell’estate a stare fissi su nel bosco. In famiglia dicevamo che andavamo a dormire nel bosco e basta. Avevamo le tende e dormivamo là la notte tra il sabato e la domenica. Ci siamo organizzati bene. Abbiamo fatto una esplorazione in tutto il bosco finché abbiamo trovato un pezzo bello in piano uno spiazzo che abbiamo disboscato in un paio di pomeriggi. Era in mezzo ai faggi e ci si arrivava per una stradina stretta abbandonata dove però ci riuscivano a passare le moto. Vicino scorreva un ruscelletto così avevamo sempre l’acqua fresca. Il Sivori ha costruito una cassa grande di legno dove tenevamo dentro tutto quello che eravamo riusciti a fregare a casa per fare da mangiare pentole padelle piatti scodelle cucchiai forchette coltelli tutto. Zucchero sale pasta pane riso farina caffè eccetera lo compravamo mettendo insieme i soldi in parti uguali. Mettevamo tutta ’sta roba nella grande cassa che imboscavamo in un grottino lì vicino coperta con delle tele cerate e che serviva anche da legnaia. Il Sivori ha fatto un treppiedi in ferro saldato insieme che serviva per fare la polenta sul fuoco con il paiolo di rame attaccato alla catena e ha fatto anche una grande griglia.
Il Valentino però aveva voluto un patto. Quel posto lì era solo nostro e non lo doveva conoscere nessun altro. Lì non si portavano le donne che sennò andavano in giro subito a dirlo a tutto il paese. Quello lì era il nostro segreto e ci potevano venire solo quelli della nostra banda.
Ogni mercoledì sera dopo il lavoro andavamo nel bosco a piazzare le tagliole per le lepri. Ripassavamo la sera dopo per vedere se le avevamo prese. Se c’erano il Valentino le portava la mattina dopo nella cella frigorifera del macellaio dove lavorava e le teneva lì a frollare ancora intere con la loro pelle.
Il sabato pomeriggio andavamo a caccia di fagiani con le carabine. Delle volte altra carne la portava il Valentino che la fregava dal macellaio. Alla sera del sabato si cominciava a cucinare. La lepre in salmi la preparava sempre e solo il Mallaro e si incazzava se qualcuno ci metteva il becco. Preparava la marinata perché la lepre si mangiava la domenica a pranzo con la polenta gialla bramata. Faceva così prendeva e spellava con una lametta da barba la lepre la puliva dalle interiora la tagliava a pezzetti che lavava e asciugava. Li metteva in una pentola larga e bassa di terracotta e li copriva col vino rosso cipolla affettata carota sedano e erbe tipo maggiorana lauro salvia timo poi bacche di ginepro grani di pepe nero e sale. Per tutta la notte la lepre in silenzio marinava coperta e al fresco vicino al ruscello. Il Mallaro si alzava di notte ogni due o tre ore per rigirarla facendo luce con la piletta e mentre la rigirava parlava sottovoce alla lepre. La mattina della domenica tirava fuori i pezzi li sgocciolava li asciugava li infarinava. In un’altra pentola faceva il soffritto con olio burro cipolle e carote e poi faceva rosolare i pezzi finché prendevano colore e allora ci aggiungeva la marinata della notte con le sue verdure e le interiora tritate tranne il fegato. Faceva cuocere col coperchio curando in continuazione la legna del fuoco perché doveva andare piano ma di continuo. Dopo due ore ci aggiungeva il fegato tritato e la lepre era pronta. Intanto io e il Sivori facevamo la polenta col treppiedi su un altro fuoco.
*Da: Sergio Bianchi, La gamba del Felice, Sellerio 2005, DeriveApprodi 2014.
Pollo all’aceto*
Con Jean Carrive sono stata a un party in cui circolava una petizione, pubblicata su «Transition», in difesa di Charlie Chaplin. Era firmata dallo stato maggiore surrealista. Mi aspettavo qualcosa di eccitante, ma lo Champagne li rese ben presto simili a dei ragazzini durante un intervallo a scuola che vaneggiano sull’amore e parlano di sesso senza conoscerlo. Nel riaccompagnarmi a casa Jean, che era in vena di chiacchiere, mi chiese che cosa ne pensassi della vicenda. In realtà mi ero annoiata e così, senza starci a pensare troppo, gli risposi che gli uomini si fanno succhiare lebâton à physique per illudersi di esercitare un qualche potere sulla donna e, conclusi: Se mi conviene non ho nulla in contrario a farglielo credere. Tacque... [1]
Tagliate un pollo da un chilo e mezzo circa, già pulito, in otto parti. Conditele con sale pepe e noce moscata. Sistematele in una teglia da forno nella quale avrete fatto sciogliere 100 grammi di burro. Fatele dorare leggermente, quindi passatele al forno, caldo, coperte, per almeno venticinque minuti. Riponetele al caldo. Nella teglia fate appassire quattro o cinque scalogni tritati fini con un pugnetto di erba cipollina, uniteci un quarto di litro di aceto bianco – dev’essere trasparente e incolore, avere un gusto decisamente acido e un aroma che ricorda il vino da cui proviene – e un bicchierino di Sherry wine. Deglassate e fate ritirare il fondo della metà. Fuori dal fuoco incorporateci altri 30 grammi di burro e versate la salsa sui pezzi di pollo.
[1] Si tratta di Hands offlove, il tract in difesa di Chaplin accusato dalla sua ex moglie, al momento del divorzio, di pretese oscene in campo sessuale, in particolare, di averla obbligata alla fellatio. Bâton à physique è un gioco di parole che rimanda all’Ubu roi di Jarry.
* Anonimo, La cucina impudica. Ricette segrete di una donna di mondo rivelate a chi intenda diventarlo, DeriveApprodi 2002.
I coglioni del toro*
Una volta al mese il Valentino ci procurava la roba che per noi era diventata il rito più importante. Non ci avvisava mai nei giorni prima e ci lasciava sempre in sospeso a aspettare settimana dopo settimana. Capivamo che la roba era arrivata solo quando su nell’accampamento sentivamo la sua moto arrivare sgasando in modo diverso dal solito. Quello era il segnale che aveva portato i coglioni del toro. Li teneva sempre in un sacchetto di plastica trasparente attaccato al manubrio della moto e quelle volte sul sellino di dietro c’era sempre fissata con gli elastici una scatola di cartone con dentro le bottiglie di vino bianco perché i coglioni del toro si accompagnavano sempre e solo con il vino bianco. I coglioni del toro erano grossi come pigne. Erano come dei fagioloni bianchi pieni di venuzze rosse.
I coglioni del toro li cucinava solo il Valentino. Li faceva su un sasso largo e piatto che scaldava per ore sopra il fuoco finché diventava rovente. I coglioni del toro si mangiavano il sabato sera a mezzanotte in punto. A mezzanotte meno un quarto il Valentino cominciava a preparare un intingolo di olio aglio e prezzemolo tritato fine fine succo di limone sale e pepe. Tagliava con il suo serramanico i coglioni a fette larghe mezzo centimetro e le scottava sul sasso rovente. Li rigirava un paio di volte poi metteva le fette in un grande piatto largo con sopra l’intingolo. Si mangiavano caldissimi con il vino bianco messo a rinfrescare nel ruscello. I coglioni del toro si mangiavano in assoluto silenzio intorno al fuoco piano piano un pezzettino per volta.
*Da: Sergio Bianchi, La gamba del Felice, Sellerio 2005, DeriveApprodi 2014.
Insalata di arance di Valencia*
Abbiamo sequestrato un carico di rifornimenti che stava per essere venduto al mercato nero, prima di consegnarlo non ho resistito alla tentazione ed ho rubato, da una cassa, mezza dozzina di arance. Dal loro profumo sono affiorati molti ricordi valenziani. Le vacanze sulla costa dell’Azhar, i primi appuntamenti con i ragazzi nei giardinetti dalle parti dell’università, i caffè sulla Turia, le fallas di cartapesta della festa di San José che bruciano nella notte – a mio padre piacevano moltissimo, gli ricordavano una festa russa della sua infanzia e faceva di tutto per esserci. I Goya della cattedrale, i pic-nic a Manises, per comprare ceramiche e, più tardi, perduta ogni innocenza, le prime imboscate e i primi spari nella notte. Un tempo le arance di Valencia ci venivano spedite a Bilbao da un parente di mia madre. Sono un contorno perfetto per le pernici, più adatte di quelle di Murcia, come si sosteneva in famiglia. Per preparare questa insalata sbucciate con cura quattro grandi arance, liberatele dalla pellicina bianca, affettatele sottili, sistematele su un piatto di portata, poi distribuiteci sopra un pugno di olive nere snocciolate, un mezzo peperone verde affettato. In una tazza mescolate il succo di mezza arancia con quello di mezzo pompelmo, quattro cucchiai di olio d’oliva, sale e pepe quanto basta. Versate questo composto sulle arance e cospargete il tutto con qualche pilucco di menta. Nei paesi della Murcia si usa come condimento la stessa marinata delle pernici passata al setaccio. Noi non avevamo pernici, ma la scatoletta di carne argentina della razione non c’era mai sembrata più buona.
La costa dell’Azhar è la costa degli aranci in fiore a sud della città. Le fallas sono grandi costruzioni di stoffa e figure di cartone [ninots] che s’innalzano nelle strade e poi si bruciano a mezzanotte del giorno di San Giuseppe, la notte de la Crema. Un tempo, festeggiavano i riti di fertilità della primavera e avevano il loro altare sulla Plaza del Mercado.
* Anonimo, La cuoca di Buenaventura Durruti. La cucina spagnola al tempo della «guerra civile». Ricette e ricordi, DeriveApprodi 2002.
Torta greca*
Nel mantovano si chiama greca, ma in realtà era un dolce della tradizione ebraica ferrarese, cambiò il nome sotto il fascismo, è il tipico dolce da prima colazione della provincia italiana, facile da fare e da conservare, carico di promesse.
Ricetta
In una terrina lavorate a pomata con una spatola 200 grammi di burro, aggiungeteci 150 grammi di zucchero fine, 150 grammi di farina setacciata, un cucchiaio di miele, cinque tuorli, un pizzico di sale, mezzo tronchetto di cannella sbriciolata. Mescolate con cura, integrateci 50 grammi di mandorle spellate e 50 grammi di amaretti sbriciolati. Amalgamate il tutto e, sempre con una spatola, integrateci i cinque albumi montati a neve ferma con una bustina di lievito per dolci. Sistemate l’impasto in una tortiera a bordi mobili e, a forno caldo, cuocetelo per almeno quaranta minuti. Potete sostituire gli amaretti con mezza tavoletta di cioccolato fondente grattugiata.
* Da: Gianni-Emilio Simonetti, Fuoco amico. Il food-design e l’avventura del cibo tra sapore e saperi, DeriveApprodi 2010.
Black Velvet*
Il cocktail è un’acquavite modificata e ghiacciata. Per definizione esige, sempre, due componenti:
un’acquavite (sono acqueviti i prodotti della distillazione diretta dei vini, dei frutti, dei cereali ecc.), che ne rappresenta la base, la parte preponderante;
qualcosa che l’acquavite modifica (uno o più vini, o liquori, o amari ecc.). L’acquavite – rappresentando per definizione la base, la parte preponderante – deve sempre, senza eccezione alcuna, costituire almeno il 50% di un cocktail. Più alcoolico, meno analcoolico di così, c’è l’alcool puro. Queste bagattelle ed altre ancora, sono scritte, ordinate, codificate, ad arginare la rusticana approssimazione dei barmen, in quel mio libro fortunato, I Cocktails.
Qui faccio penitenza. «D’essere ammonito lo buono n’è lieto, ma ciascheduno pessimo molestissimamente sostiene correttore», scriveva nel ’200 Bartolomeo da San Concordio. Il Mario nazionale, il Soldati, ha ammonito: nel librone manca il black velvet. Faccio ammenda: il black velvet è eccellente.
Me lo ha preparato Mario, semplice semplicissimo, ed eccellente ripeto.
Black velvet – (per persona) Riempire un bicchiere grande, cilindrico, con metà Guinness’s stout e metà champagne extra dry 0, meglio ancora, brut. La birra e lo champagne siano ben freddi. Servire subito.
Questo drink è stato una delle sorprese migliori della mia vita. Dapprima m’ero rifiutato: birra – il Guinness’s stout è una scurissima birra d’Irlanda; la potrete sostituire qui, da noi, con una Dreher fresca e nostranella (ma allora, ad essere pignoli come me, cambia nome, non più black velvet, ma Street velvet) – e champagne, m’era sembrato abominevole connubio: ho ricordato l’antica ingiuria del mio Cecco Angiolieri, «fracida bevagna». Un attimo, perché l’assaggio, il primo assaggio, subito mi ha esaltato. O l’incredibile, il fausto matrimonio.
L’ho scritto, sono pignolo: il Black velvet e lo Street velvet non sono cocktails. Vi basterà per convincervi, rivedere la definizione di cocktail; sono long drinks (il cocktail oltre tutto è uno short drink e come ogni short drink va servito in piccola quantità in bicchieri piccoli, con giudizio).
La mia omissione, o peggio la mia ignoranza, è per questo scusabile? No proprio, nel librone avrei voluto raccogliere tutti i drinks che mi «gustavano», non solo i cocktails. (Beh, sono in vena di confessioni: fossi stato onesto avrei messo a titolo I Drinks e non I Cocktails, ma poi a chi le avrei vendute le bagattelle, le cose belle, le mie novelle, a chi le avrei vendute, a chi le avrei vendute?).
Un vero cocktail, allora, con la birra? Tentate il «naso di cane», il Dog’s nose (ma premetto, non aspettate da me il trasporto, l’esaltazione, lo slancio che ho dedicato al black velvet).
Dog’s nose - (per persona) Introdurre in un bicchiere da cocktail un cubetto di ghiaccio, versarvi dell’ottimo dry gin, sino a riempirlo quasi, e farlo ben raffreddare. Togliere il cubetto di ghiaccio e completare il bicchiere con birra fredda. Servire subito.
* Da: Luigi Veronelli, Alla ricerca dei cibi perduti. Guida di gusto e di lettere all’arte del saper mangiare, DeriveApprodi 2004.
Perché? (A Luigi Veronelli)*
Quando si parla del bere tutto comincia con un perché. Ma è una domanda molesta. La domanda di chi ignora una delle caratteristiche dell’ebbrezza, di ricucire, esaltandola, la tragica ferita tra l’essere in sé e la coscienza di sé. L’ebbrezza è sempre stata la porta stretta che immette nella storia dello spazio interiore degli individui, il frutto di una pratica sociale che ha le sue regole e i suoi collettivi. Che ha le sue contraddizioni. Bere toglie la sete, ma che cosa si deve bere in un’epoca che ti obbliga a mettere la tinozza dell’acqua fuori dalla porta di casa per permettere alla morte, come dicono i contadini dell’oltre Volga, di lavare la sua falce? Un corpo assetato dai desideri è freddo, Yeau ardenteriscalda, allontana l’umidità della vita non vissuta, lo scoprirono a suo tempo gli apotecari e i monaci che fino al XVI secolo ebbero il monopolio della distillazione de\Yeau-de-vie. Si racconta che i primi ad approfittarne furono i vinaigriers, comprendevano le virtù dell’agrore e i vantaggi oscuri delle consumazioni festive dei prodotti della distillazione.
L’ebbrezza si ravvisa facilmente nel parossismo, nei comportamenti dell’ostinato che si batte contro se stesso, si riconosce nel troppo, nella vertigine che lo misura, nell’eccesso del negativo. Si riconosce in quelli che amano giocare a saltare nel buio, convinti di essere al sicuro grazie ad una corda salvatrice legata intorno alla vita. Il troppo è pericoloso, fa inciampare, ma il troppo poco uccide. L’ubriaco suscita compassione, l’ebbrezza, invece, è sospetta, la si accusa di voracità, di sofferenze notturne, che Samuel Coleridge, poeta e comunista, addolciva mescolando l’alcol con il laudano, le si imputano rabbie tossiche. «Ebbro di rabbia» o di «sangue» sono espressioni da campo di battaglia, servono a diffamare, a disegnare l’ebbro come uno che si è perduto agli occhi degli uomini e delle stelle, una vittima dell’euforia.
Il bene si sopporta, perché ci hanno abituato ad esso, il piacere intossica, perché ce l’hanno proibito. Le religioni, che lo infangano, sono da sempre l’oppio della ragione, le nemiche artefatte di ogni ebbrezza, perché è uno dei varchi dell’esperienza cenestesica, che i libri di medicina definiscono come la sensazione della propria vita organica di cui si ha coscienza solo quando la si altera. Alterandola, tutti i sensi concorrono a banalizzare le illusioni della metafisica, a spuntare i suoi aculei. I sacerdoti del bene definiscono questa coscienza dell’identità personale come un modo di essere ciechi o sordi, un altro modo osceno di dire ebbri, d’insultare il vivente. Qui, in gioco, ci sono le sorti di una battaglia millenaria, in principio futile, poi drammatica, quella tra il corpo e l’anima e l’insopportabile pretesa di chi scorge in questo dualismo un conflitto tra due entità distinte. Eppure, l’effetto delle sostanze spiritose è, in ultima istanza, di fronteggiare questa pericolosa deriva culturale. L’ebbrezza, infatti, si configura come ciò che restituisce alla vita vissuta le avventure dello «spirito», incorporandole in un esistente sociale e materiale, il solo che possiede un avvenire. È ben altro ciò su cui piangere, è piuttosto il fatto di vivere in un’epoca nella quale, per reagire ai suoi inganni, occorre ricorrere alle aggressioni biochimiche del sistema nervoso con l’uso dell’etanolo. Ecco perché alla lotta di classe non sono mai piaciuti i sobri domani, le seti passate, le estasi divine. La Teresa di Giovanni Lorenzo Bernini è ebbra di desideri, la chiesa l’ha fatta salire sugli altari del tempio di Maria della Vittoria, in Roma, per confondere la colpa con la patologia, la vera felicità con la falsa guarigione. Platone, quando pensava all’anima (psyché), pensava alla matematica e agli ideali del sapere, di essere assoluto. Poi le pretese del sacro presero il sopravvento, il corpo divenne organismo. Non è solo una questione terminologica, nella lingua tedesca il corpo vivente è il Leib, un’espressione che ricorda il magistero della vita vissuta e l’amore. Un corpo che l’ebbrezza, spesso, fa ardere, perché la sete, forse, è la malattia, certamente è una speranza, essa ci guida tra i bruciori dell’alcol, l’asfissia dei lattici smemoranti d’Oriente, le voragini delle sostanze psicotrope. Tutto pur di sfuggire al ben fatto, in nome del piacere e in spregio al divino. Del resto, l’ebbrezza è il negativo dell’alcolismo, questo è una patologia, quella una pratica del corpo. Uno porta alla distruzione, l’altra è uno stile che esprime lo spirito del tempo o, come diceva a bassa voce Émile Durkheim, l’atmosfera sociale e politica che regna in quel determinato momento. Ecco perché il bevitore eccessivo è eccessivo solo per la medicina e l’ipocrisia, bere è un atto sociale, vedere gli elefanti rosa un fatto culturale acquisito, che contribuisce a domesticare i desideri che non sa volgere in delirio. Non è curioso che questo vari secondo le culture? Lo aveva diligentemente notato Géza Róheim, che svezzava i suoi studenti portandoli nei bordelli. In ogni modo, la maniera di bere rivela gli aspetti ontologici del disagio di vivere, prima ancora di quelli patologici, lo ha accertato l’antropologia, che attribuiscono ai sogni e ai deliri collettivi una forte ragione comunicativa, così, a dannazione del bere, ebbrezza e sentimenti religiosi si riscontrano in quasi tutte le culture, rivelano il bisogno di «dire», anche se i poteri costituiti cospirano a confondere, tra i due, il veleno dall’antidoto. Eppure, c’è un’istanza corporale anche nelle allucinazioni religiose, che si descrivono sempre in termini di ebbrezza, visto che dio si versa nell’anima come un vino squisito, un foglio di via per l’aldilà. Oggi, tuttavia, è lo spettacolo che sanziona senza appello la verità nell’ebbrezza, invitando a ridere di chi beve, elaborando un’estetica grottesca del corpo e negando all’altro ogni esplorazione dell’alterità. Per farlo, non esita a spingere i suoi savants a dichiarazioni omeopatiche, senza curarsi né del ridicolo, né di mentire, che l’alcol preso a piccole dosi fa bene, protegge dall’infarto, favorisce la digestione. Lo diceva anche Louis Pasteur, per difendere la moderazione dal fatalismo del vino bevuto dagli operai come se fosse un alimento. C’è una glossa di Hans Holbein all’elogio della follia di Erasmo, la si può vedere nel Museo di Basilea, celebra il ghiottone che si ubriaca, lo fa per distinguere gli orchi dai maiali che lo bevono a stomaco vuoto, di mattina, alzando il calice al cielo. Oggi è impossibile, la ghiottoneria è sanzionata da una cultura lipofobica, che punisce il grasso, come ieri lo zucchero, e difende i suoi veleni, quelli delle ciminiere e quelli in fondo alla bottiglia.
Perché, dunque? Perché c’è la morte davanti a noi. Non bisognerebbe bere per festeggiare una vittoria, è la sola cosa che resta ai vinti! Essi, attraverso l’ebbrezza, mettono insieme le macerie, celebrano la derisione delle cose, minano l’apatia dei poteri, fronteggiano con stile ciò che c’è in fondo alla notte. Abbiamo una grande stima per chi lo sostiene. Si chiama Francois Villon. Di nostro ci aggiungiamo solo questo, in un’epoca che addomestica le proprie vittime all’abbeveratoio della merce, la malinconia delle ore tra cane e lupo si attenua con l’alcol, l’estrema delle nostre abitudini. (…) L’uomo è ciò che beve. Nella sua condizione di onnivoro c'è anche questo paradosso del contagio, che George J. Frazer fa discendere dalla magia che infetta il pensiero. Il vino è energia, è piacere festivo, è pretesto mistico. Prima che questa società fosse chiamata dei consumi, il vino era un alimento e la sua storia corre parallela a quella del proletariato urbano. Immerso nella disperazione, vittima di chi deteneva i mezzi di produzione, sognava di trovarci delle calorie a buon mercato. Il suo consumo era drammatizzato, ancora oggi lo stereotipo del proletario riverso sui tavoli delle osterie è ben vivo nell’immaginario sociale. La qualità di ciò che ingurgitava andava di pari passo con il suo reddito e il prestigio sociale. Il vino era una materia viva, assimilabile al sangue, riscaldava i sensi ed era proibito alle donne. Le donne! Se si assimila il vino al buon sangue è naturale considerare il loro, quello che perdono dalla ferita impudica, cattivo. Per secoli l’ingresso alle cantine fu interdetto alle mestruate. La rivoluzione femminile, così, passa anche attraverso i calici. La connerie degli uomini, in questo caso, va à rebours, le donne oggi possono bere, ma parlando di vino si preferisce glissare sempre di più sul mistero materico della fermentazione. Lo spettacolo li vuole primeur, nouveau, jeune, in francese. Si moltiplicano gli acrostici per definirlo, solo gli sciocchi consumano quello anonimo, se ha un nome cala l’ansietà del bevitore, la trasparenza lo rende meno pericoloso. La trasparenza dell’informazione, come se questa potesse mai esserlo. Quando si è affermato il bere al femminile il vino ha smesso di essere un alimento ed è diventato un piacere. L’edonismo, adesso, parla di grandi vini. Il grande, poi, ha operato il miracolo di farli diventare cultura. Se è cultura, si colleziona, le biblioteche annoiano, le enoteche, invece, affilano la bizzaria e moltiplicano i linguaggi. Rispettare il vino è un atto simbolico e, come si sa dalla sociologia, questi atti possiedono una storia culturale. La nuova aristocrazia ha fondato una nuova civiltà, quella del bere. S’ingigantiscono le favole, vino e «diete mediterranee» abbattono le malattie vasco-circolatorie, fanno lo sgambetto alle trombosi. Nell’ombra, intanto, lo spettacolo continua a portare avanti i suoi giochi, dentro la filiera dell’agro-alimentare nasce il mito del suo valore d’uso futuro, diviene prodotto di speculazione. A Roma lo vendono nelle gioiellerie. Prosit!
* Gianni-Emilio Simonetti, La sostanza del desiderio. Cibo, piaceri e cerimonie, DeriveApprodi 2005.
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