top of page

Covid19 e città

Tra spazi digitali e dimensione locale


Maurizio Cannavacciuolo, Senza titolo - Palazzo Martinengo, 2002, matita e smalto ad acqua su parete / dimensione ambiente, 2 stanze


Erano i primi di gennaio quando sono iniziate ad arrivare le notizie di un virus sconosciuto che stava mettendo in crisi una metropoli cinese costringendo le persone in casa. Alla fine di gennaio sapevamo che qualcosa di grosso stava succedendo dall’altra parte del mondo, qualcosa di difficilmente controllabile che ci ha preoccupato, ma non abbastanza. Presi dai nostri problemi e dalle nostre vite ci siamo informati, ma non adeguatamente, non abbiamo capito se non troppo tardi quello che stava succedendo e l’onda che ci avrebbe investito. Eppure era tutto lì, davanti ai nostri occhi. Ci siamo sentiti superiori, increduli, convinti di non poter essere travolti da nulla; che quelle strane voci e immagini provenienti da un mondo a noi lontano non potessero riguardarci fino in fondo. Ma ovviamente in un mondo iperconnesso e globalizzato in cui persone e merci si muovono con ritmi forsennati, è stata solo questione di tempo: quando l’onda è arrivata, le cose si sono dimostrate ben sopra le peggiori attese. Non eravamo pronti all’arrivo della pandemia e al modo in cui questo virus infinitivamente piccolo è riuscito a sconvolgere completamente il 2020 mettendo in discussione tutto: il modo in cui le nostre società sono organizzate, le nostre economie funzionano, le decisioni politiche vengono prese, ma mettendo in discussione anche noi come individui, i nostri corpi, le nostre relazioni sociali, le nostre routine, i nostri percorsi, il nostro lavoro, le nostre passioni. Si è cercato di resistere in tutti i modi all’evidenza che solamente l’adozione di misure straordinarie sarebbe stata in grado di fare la differenza. Lo stop, il lockdown, la chiusura dei confini, la rinuncia alla produttività e alla crescita economica sono arrivati come una mannaia. La decisione che l’unico modo di sopravvivere sarebbe stata fermare tutto è stata presa e comunicata ad un popolo di cittadini rinchiusi in casa, impauriti spersi e increduli. È stato uno shock fortissimo.

A partire da questa situazione e da questo straordinario contesto, in questo breve articolo viene proposto un ragionamento sulle trasformazioni che riguardano la relazione tra vita digitale e reale, e su come la dimensione digitale-globale e quella locale si siano influenzate a vicenda in una situazione di confinamento geografico. Temi che meritano un approfondimento e che diventeranno oggetto di ricerca nel prossimo futuro, perché è in questo ambito che si sta sviluppando una rivoluzione epocale che condizionerà il modo in cui le nostre vite saranno contestualizzate negli anni a venire tra locale e globale. Verrà fatto accenno quindi ad alcune delle principali evoluzioni legate alle innovazioni portate dal capitalismo delle piattaforme ed al modo in cui queste influenzano l’organizzazione del vivere urbano e parallelamente alla dimensione locale delle nostre vite ed in particolare agli spazi pubblici della città che negli ultimi mesi sono tornati ad essere luoghi di incontro delle comunità locali.

La creazione di una narrazione è una delle principali caratteristiche del genere umano e anche in questo caso ci siamo prodigati in modo vario a cercare di creare una storia nella storia che stavamo vivendo. Abbiamo cercato strategie di sopravvivenza, strutture capaci di mettere ordine nella confusione. Abbiamo guardato ai metodi usati in passato per far fronte alle epidemie che nel corso di secoli hanno flagellato l’umanità cercando esempio e conforto in qualcosa già successo, già superato. Abbiamo provato a usare tutte le categorie interpretative a nostra disposizione per cercare di fare ordine, di leggere ciò che stava succedendo in una chiave logica che ci permettesse di immaginarci un domani.

Non si può negare che in questi sette mesi molte analisi siano state fatte, molte informazioni raccolte. Abbiamo fornito grafici, tabelle su andamenti e trend dei più vari e questa conoscenza quantitativa ci ha rassicurato e spaventato a giorni alterni. Alcuni studiosi e intellettuali sono stati capaci di mettere insieme i pezzi di ciò che stava succedendo e di creare un’analisi comprensiva, eppure qualche pezzo resta sempre fuori. Continua a mancare qualcosa alla lettura e all’interpretazione dei mesi passati e questo qualcosa riguarda il modo in cui questa esperienza è stata vissuta da noi, individui e società. Perché questa esperienza ci ha colpiti nel profondo: anche se ora ci atteggiamo ad una pseudo normalità, non possiamo ignorare l’impatto che su di noi questi mesi hanno avuto e allo stesso modo non possiamo negare alcune trasformazioni che questi mesi hanno determinato. Come spesso succede nei momenti di crisi, molti nodi sono, infatti, venuti al pettine, molte porte si sono chiuse, altre si sono aperte, alcuni processi in essere si sono bloccati, altri hanno preso velocità, e stiamo talmente ancora dentro il processo che è difficile iniziare a tirare le somme e trovare linee interpretative solide abbastanza.

Un elemento che questo virus ha travolto e sconvolto è sicuramente il nostro rapporto tra la dimensione digitale e quella reale, globale e locale delle nostre vite. C’è, infatti, qualcosa del nostro senso del vivere urbano e della relazione tra urbano e digitale su cui varrebbe la pena soffermarsi a riflettere perché abbiamo vissuto un’esperienza che ci ha cambiati profondamente e di cui probabilmente sentiremo le conseguenze a lungo.

Mentre il numero dei morti e dei contagiati cresceva e le cartine geografiche di mezzo mondo si popolavano di nuovi punti rossi a indicare la presenza di nuovi focolai del virus, noi, rinchiusi nel privato delle nostre abitazioni, senza la possibilità di muoverci, abbiamo scoperto e sperimentato che un nuovo modo di esistere era comunque possibile. Le nuove tecnologie, nel bene e nel male, si sono dimostrate essere la nostra ancora di salvezza e abbiamo dovuto prendere atto che il mondo e il modo in cui ci viviamo, sono molto diversi dal passato grazie alla digitalizzazione.

Una delle principali differenze sta nella continua connettività e tracciabilità dell’individuo e nella crescente quantità di servizi e di esperienze accessibile attraverso il mondo digitale. Quando si parla di digitalizzazione però non si parla di uno strumento neutro, ma di un sistema/strumento che ha avuto effetti di disruption in tutti gli ambiti economici, sociali e politici ed ha messo in crisi interi settori industriali; ha modificato il modo in cui abbiamo accesso alla conoscenza, all’informazione e alla cultura ed è stato capace di sdoppiare il nostro mondo e di conseguenza la nostra identità. Un sistema democratico, perché in grado di arrivare a tutti, ma il cui funzionamento è gestito da un’oligarchia digitale, apparentemente decentralizzata, ma in realtà radicati in precisi contesti geografici/culturali che oggi rappresentano punti nodali di nuove geografie economiche/politiche globali. Un sistema che è alla base di una nuova forma di capitalismo, il cui funzionamento economico, basato sul valore dei dati, sta mettendo in crisi i confini e le regole più basilari nell’ambito dei rapporti di lavoro, della competizione economica e della regolazione dei mercati. Uno strumento/sistema che sta avendo un impatto fortissimo sulle nostre città e che da un po’ di anni ha iniziato a essere oggetto di studio. Negli ultimi anni abbiamo visto ad esempio come alcune piattaforme che operano nel settore dell’accoglienza turistica e in particolare degli affitti a breve termine siano state in grado di generare fenomeni trasformativi imponenti che, legati all’ormai onnipresente fenomeno della gentrification e alla turistificazione di massa, hanno snaturato e svuotato molti centri urbani rendendoli scena di una particolare proiezione del vivere urbano, generando un inedito fenomeno di falsificazione/marketing all’insegna dell’autenticità che ha colonizzato le realtà urbane svuotandole e modificandone il senso. Abbiamo potuto osservare come piattaforme specializzate nel delivery e nella logistica siano state in grado di modificare le nostre abitudini di consumo trasformando il nostro rapporto spaziale con quelle merci, quei prodotti, quei beni che prima dovevamo andare a cercare nello spazio urbano e che ora ci vengono consegnate direttamente a casa. Mentre prima si era costretti a muoverci verso le merci, oggi sono queste a muoversi verso di noi. Una trasformazione che ha avuto un forte impatto sul tessuto commerciale delle nostre città andando a colpire fortemente la dimensione locale del commercio e i piccoli negozi Abbiamo visto come il sistema di mobilità si sia arricchito negli ultimi anni di tutta una serie di servizi proposti da piattaforme in nome di una nuova idea di accessibilità ai mezzi e di condivisione, piuttosto che di possesso. Ed abbiamo visto come tale ricchezza e varietà di mezzi stia trasformando le abitudini alla mobilità di un crescente numero di cittadini. Le piattaforme digitali, facilitando l’interazione tra la domanda di chi cerca il servizio con l’offerta di chi lo propone, sono state quindi in grado di migliorare e semplificare molti aspetti del vivere urbano.

Ma ai lati positivi di queste evoluzioni si abbinano anche aspetti problematici tra i quali sicuramente l’impatto negativo che molte di queste piattaforme hanno contribuito a determinare nel mondo del lavoro. Un nuovo sottoproletariato di lavoratori precari che affida la possibilità di trovare fonti di retribuzione e/o d’integrazione al reddito ad algoritmi il cui funzionamento e le cui logiche sono tuttora poco accessibili, ma che dimostrano in modo sempre più chiaro di essere strumenti di guadagno di margine che sfruttano al massimo chi decide di affidare la propria economia alle piattaforme o per possibilità o per necessità. Soprattutto, quando si parla di digitalizzazione, si parla un sistema in evoluzione costante, con cui stiamo ancora imparando a convivere e che siamo faticosamente cercando di governare inventando regole adeguate a proteggerci. La complessità dei processi sociali ed economici rende oggi sempre più difficile disinnescare le logiche speculative che governano e condizionano le città e le politiche volte a sopperire le disuguaglianze che da ciò derivano, risultano essere quasi ovunque non sufficienti a equilibrare il sistema. Forse lo sono state parzialmente per alcuni periodi, ma oggi non sono capaci di governare la nuova ondata di fenomeni legati alla digitalizzazione e al capitalismo delle piattaforme che in modo completamente inedito ed estremamente veloce hanno iniziato a mostrare i loro effetti sulla città.

È vero che la digitalizzazione era un processo in essere che stava conquistando sempre più spazio nella nostra vita, ma è anche vero che la nostra vita digitale e quella reale hanno potuto sempre camminare parallelamente e compensarsi. Negli ultimi mesi, però questo processo ha preso un’altra velocità. Durante il lockdown, abbiamo vissuto in cattività, la nostra vita reale si è dovuta fermare, mentre l’altra, quella al pc, al cellulare, e sugli altri supporti tecnologici capaci di metterci in rete, ha galoppato velocissima e l’economia delle piattaforme per reagire alle nuove condizioni si è riorganizzata in modo rapido e inedito. Mentre la città si svuotava dei passaggi e delle pratiche dei suoi utilizzatori lasciando spazio al silenzio assordante di città di pietra apparentemente vuote, la loro dimensione digitale era in forte fermento. Per una gran parte della popolazione il lavoro, l’istruzione, il consumo di beni, l’accesso alla cultura, l’accesso all’informazione, lo svilupparsi delle relazioni sociali, si sono improvvisamente sposate nella dimensione digitale e lo spazio fisico ci è stato praticamente negato, ridotto all’osso della dimensione abitativa e poche centinaia di metri di spazio di azione.

La digitalizzazione, questo sistema/strumento potentissimo, capace di sdoppiare la realtà e di riprodurla, in questi mesi passati in cattività, ci ha dato la possibilità di vivere attraverso la nostra identità digitale le esperienze che nella realtà ci erano precluse. E ciò è stata una esperienza estremamente forte e per molti versi spiazzante.

Negli ultimi decenni ci è stato permesso di muoverci in modo estremamente facile ed accessibile. Viaggiare e conoscere nuovi contesti era diventato un fenomeno di massa, vivere tra due o più luoghi era diventato sempre più comune. Forti della possibilità di movimento e delle potenzialità dei sistemi di comunicazione, lavoro, relazioni amicali, familiari, sentimentali si sono sempre più dislocati nello spazio. La globalizzazione e la digitalizzazione ci hanno in qualche modo confusi e distratti dalla realtà della nostra spazialità e località. Vivevamo in un mondo accelerato in cui le distanze spaziali sembrava fossero state compresse al massimo. Grazie al COVID19 ed al confinamento che per due mesi abbiamo subito come conseguenza però la relazione che abbiamo con lo spazio è tornata presente con rinnovata forza. Il virus ci ha costretto in una condizione di cattività in cui abbiamo dovuto ri-ponderare il nostro rapporto con lo spazio: da cittadini del mondo siamo stati costretti a riconoscere a forza la nostra dimensione locale e tutte le differenze che essere in un luogo piuttosto che in un altro implica. Quello stesso spazio che nell’epoca pre-Covid era compresso più che mai, negli ultimi mesi si è esteso/srotolato/allungato/ridimensionato mettendoci davanti a una realtà molto diversa dall’immagine che ne avevamo. Malgrado fossimo costantemente connessi al resto del mondo attraverso internet, lo spazio abitativo, il quartiere, la città, la regione, la nazione in cui eravamo contestualizzati hanno improvvisamente preso una importanza enorme. Il nostro senso dello spazio ha ovviamente risentito di questo passaggio forzato dall’ipermobilità che caratterizzava le nostre vite alla completa segregazione fisica in una dimensione locale. E dopo due mesi passati a chiederci come fosse possibile muoverci, a quanti metri dall’abitazione fosse consentito arrivare e quali modalità di percorrenza fossero permesse, quando finalmente siamo stati autorizzati ad uscire ed abbiamo potuto ricominciare a percorrere lo spazio attorno a noi, lo abbiamo riscoperto con altre modalità e dandogli altro senso. E ad apparire particolarmente interessante è sicuramente stato lo spazio pubblico. Nell’immediato post-lockdown c’è stata una finestra temporale in cui gli spazi pubblici hanno ripreso una importanza che sembrava essergli sfuggita da tempo, in cui le piazze ed i giardini sono ritornati ad essere i luoghi per eccellenza della comunità, luoghi di incontro e di confronto privi da finalità commerciali che sarebbe sicuramente stato interessante indagare meglio.

A 7 mesi dall’inizio di tutta questa storia, a 4 mesi dall’inizio del lockdown e 2 mesi dalla nostra «riabilitazione» ad una vita quasi normale, con le economie che sembrano essere ripartite, le merci che hanno ripreso a circolare e le persone che hanno ripreso a muoversi, le nostre città non sono ancora tornate ad essere «normali» e non si può dire di essere ancora usciti da questa esperienza. Malgrado i dati rassicuranti sull’andamento dei contagi nel nostro paese, la pandemia continua a dilagare in mezzo mondo e noi continuiamo a vivere con una lista enorme di insicurezze su cosa aspettarci dai prossimi mesi e/o dal futuro più in generale.

Tra le cose che possiamo dire essere cambiate in questi mesi c’è sicuramente il nostro rapporto con lo spazio, sia con quello reale che con quello digitale. Per quanto possa essere vero che molti spazi oggi siano omologati, così come lo sono alcune pratiche che vi si svolgono, il modo in cui ad esse ci rapportiamo continua ad essere fortemente caratterizzato da conoscenze locali.

Sarebbe interessante uscire dalla retorica che finora ha colonizzato il dibattito e indagare più approfonditamente attraverso analisi quantitative, ma anche qualitative, il modo in cui le due dimensioni, quella digitale e quella locale si siano e si stiano influenzando a vicenda, non sostituendosi tra loro, ma rafforzandosi ed interagendo nella creazione di dinamiche sociali ed economiche innovative. Troppo spesso si da per scontato che le nuove tecnologie e tutto ciò che ne deriva influenzino e modifichino il modo in cui viviamo, ma ciò che appare oggi interessante è anche il processo inverso, ovvero come la dimensione della vita reale e quindi locale abbiano influenzato lo spazio digitale. Negli ultimi mesi abbiamo visto ad esempio come alcune piattaforme siano diventate luogo di dinamiche sociali, economiche, politiche estremamente legate ai singoli territori e come, proprio a partire da uno scambio locale alcune piattaforme si siano riorganizzate e siano state capaci di rispondere alle trasformazioni portate dall’emergenza.

bottom of page