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Controdizionario del conflitto (VI)

di Stefano Ammirato, Gianmarco Cantafio, Alessandro Gaudio, Gennaro Montuoro




A partire dal Sud, dalle sue contraddizioni e potenzialità, questo «controdizionario» della redazione di Malanova, vero e proprio cantiere aperto di ricerca su nuove ipotesi politiche e orizzonti praticabili, è giunto alla sua sesta uscita su «Machina». Le voci che qui presentiamo, Incompatibilità, Infrastrutture, Intelligenza artificiale, Lavoro e Macchine, scritte tutte in fasi differenti, provano a coniugare lo sguardo sull’attualità con un orizzonte di analisi più ampio. Anche queste, come le precedenti, non devono in nessun caso essere lette come lemmi e vanno ad arricchire il nostro controdizionario, ossia un dizionario che mette in discussione se stesso.


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Incompatibilità

Il processo tecnologico abbatte progressivamente la domanda di lavoro manuale (e non solo), erodendo progressivamente la domanda aggregata a causa dell’abbassamento del reddito pro-capite (cfr. J. Rifkin, The zero marginal cost society: The internet of things, the collaborative commons, and the eclipse of capitalism, St. Martin’s Press, New York 2014). In questo scenario di inesorabile contrazione della forza lavoro, sostituita da intelligenza artificiale, automazione robotica e gestione digitale, nonché dalla specializzazione nella produzione immateriale che esclude di fatto i soggetti con un basso livello di istruzione (cfr. M. Spence, The impact of globalization on income and employment: The downside of integrating markets, «Foreign Aff.», n. 90, 2011, p. 28.), il problema riguardante la tenuta sociale è non solo urgente, ma improcrastinabile. Quello che attende il mondo nel post-pandemia è un’accelerazione di questi fattori. Sul versante dell’analisi da molte aree si sta cominciando a capire la vastità del problema e quanto fosco e cupo sia l’immediato futuro. Sul versante delle proposte ci si divide tra rivendicazioni e proposte autogestionarie, entrambe non scevre da contraddizioni.

Negli anni che vanno dal 1990 a oggi si sono avvicendati visioni, ragionamenti, percorsi, pratiche e processi tra i più disparati e coloriti per immaginare un «qualcos’altro»: ma cos’era questo altro? Era qualcosa che si sosteneva fondamentalmente sul concetto di alternatività, un «essere alternativo» più che essere altro. Gli esiti di queste sperimentazioni hanno dato luogo, nei casi migliori, a enclave di autogestione e autoreddito, spesso sostenute da una «controcultura alternativa». Esse si sono spesso poste in conflitto con alcuni meccanismi del sistema, ma non col sistema in quanto tale; semplici processi legati al proibizionismo o pratiche tese ad aggirare la fiscalità pubblica, nulla di profondamente incompatibile con le leggi di riproduzione del capitale.

Sorge spontaneo chiedersi cosa sia l’incompatibilità e cosa sia il conflitto. Sono due termini complementari se immaginiamo l’esistenza di un sistema che non accetti nulla che non possa assorbire o meglio sussumere. L’azione che si oppone alla sussunzione è definibile come indisponibilità a essere parte integrata in un sistema. Questo pone l’accento sul concetto di alternativa, non come altro assoluto rispetto al sistema dato, ma come modo altro per appartenervi; concetto un po’ diafano e untuoso, sul quale non si contano gli scivoloni di interi pezzi di movimento a livello globale, i quali hanno abbracciato un modo alternativo di stare nel ciclo di riproduzione capitalista.

Incompatibilità e conflitto divengono quindi necessariamente complementari nel momento in cui non si cerca una forma diversa di appartenenza al meccanismo di produzione e riproduzione della società dei consumi, ma si cerca di sottrarvisi, schivando il processo di sussunzione. Solo rispettando questa condizione praticare l’incompatibilità è conflitto in atto. Il conflitto dovrebbe essere inteso in termini di opposizione fra sistemi: non v’è conflittualità se non si prefigura un sistema opposto, incompatibile a quello dominante. Non ci si può attardare su proposte di aggiustamenti all’esistente e intraprendere, invece, un percorso che sia incompatibile con le logiche sulle quali si struttura la società nella quale siamo immersi. L’altro mercato, la controinformazione, l’alternatività sono elementi che devono compiere un reale distacco e costituirsi in termini di incompatibilità assoluta, per essere ciò che affermano di essere.

Resta da chiedersi perché il mutualismo debba essere considerato conflitto in atto. Le politiche ultraliberiste hanno di fatto rotto il meccanismo di ridistribuzione della ricchezza, ottenuto attraverso quella forte conflittualità che aveva costretto le socialdemocrazie del secolo passato a garantire un minimo di decenza esistenziale. Oggi il sistema ha polarizzato la ricchezza su specifiche linee di accumulazione e il poco che resta in circolazione deve essere conteso dalla rimanenza del corpo sociale. Più che competizione è un conflitto senza quartiere che implementa il processo di atomizzazione sociale: insomma, una guerra tra poveri.

Si potrebbe affermare che il mutualismo sia conflittuale in quanto tenta di introdurre un contro-processo aggregativo che si oppone alla disgregazione in atto, ma senza un percorso riconoscibile di disarticolazione del sistema, si rischia di cadere nella mera solidarietà. È questo un moto spontaneo innescato da un sentimento che si traduce spesso in un impegno volontaristico che, seppur lodevole a livello umano, si presta a essere sussunto dal modello capitalista, trasformandosi in un business multimilionario. Quindi il mutualismo non è solidarietà dettata dall’anima bella di schilleriana memoria, se così fosse non potrebbe essere conflitto in atto.

Un contro-sistema mutualistico dovrebbe invece riuscire a erodere agibilità pratica al sistema dominante, ribaltandone i paradigmi fondativi, non foss’altro che per dimostrarne l’inconsistenza. Il raggiungimento di una linea di incompatibilità (cfr. G. Cantafio, Breve discorso sul reddito, «Umanità Nova», disponibile all’indirizzo https://umanitanova.org/?p=6036) passa dal conflitto, che non è da intendere dentro la mera cornice dello scontro, ma risiede nella necessità di mettere in discussione il nostro presente fin dalle fondamenta. Quello che si richiede non è sfidare il sistema, ma scavargli sotto le fondamenta e farlo implodere nella sua stessa insignificanza. In quest’ottica le differenze tra rivendicazioni e processi di incompatibilità diventano abissali: le rivendicazioni si indirizzano verso un soggetto che può decidere di fare delle concessioni, l’incompatibilità non riconosce a quel soggetto più nessun ruolo, a partire dalle relazioni sociali.

Negli ultimi anni si è spesso dibattuto su varie tematiche legate ai diritti e alle relative riappropriazioni: dal diritto alla casa, all’insegnamento, alla sanità finendo al diritto al reddito, potenziando i ranghi di chi valutava positivamente il reddito di cittadinanza, il reddito universale o quello sociale. Al di là del reale significato e delle confusioni con altri strumenti economici o di welfare (vedi il basic income), quello che è interessante notare è come si sia progressivamente prodotta una mutazione nelle rivendicazioni: rivendicare una redditualità diretta (monetaria) ha aperto nuove visioni nell’immaginario collettivo, rendendo compatibili con l’esistenza nell’era dei consumi meccanismi come il precariato. Infatti, se si immagina di poter rimpinguare il gap salariale con un minimo garantito, allora si è ben disposti a percepire paghe ridotte o a pagare un canone locativo lievemente più alto o a subire in maniera passiva la privatizzazione e l’aziendalizzazione dei pubblici servizi. Si rende socialmente accettabile un passaggio epocale: il sostegno indiretto alla produzione dei servizi dalle casse statali alle casse delle aziende passando dalle tasche del cittadino medio. Questa non è però che la parte emersa del problema: il cambio di prospettiva del reddito diretto come diritto ha di fatto distorto le prospettive di chi ora rivendica denaro e non diritti o, peggio ancora, denaro come strumento di acquisizione di diritti.

Il reddito è oggetto di dibattiti complessi, ma la sua centralità è sempre stata vista come «positiva», come oggetto di conquista, mai come problematica da decostruire. L’esigenza del reddito è centrale, se e solo se c’è l’implicita accettazione che questo sia l’unico strumento per esistere al mondo come soggettività immersa in una società. Molte delle esperienze e delle discussioni degli ultimi anni non hanno creato le doverose istanze di incompatibilità con il sistema mercato meditato dallo Stato; ci si ritrova a dibattere su come riappropriarsi di reddito o liberare spazi per un libero ottenimento dello stesso, svincolato da leggi e regole, nella speranza che questo basti ad avviare un processo di reale emancipazione dai dettami del sistema socio-economico che ci determina. In realtà, però, si liberano risorse e si creano dei micro ammortizzatori sociali attraverso l’economia informale, che nel complesso sgrava lo Stato, e il sistema in generale, da alcuni obblighi e oneri. In questo complesso flusso di dibattiti e analisi è spesso sfuggito il concetto stesso di reddito e cosa invece potrebbe configurarsi come suo sostituto, in modo da riappropriarsi dei mezzi per la produzione di reddito indiretto, cioè beni e servizi non indirizzati alla produzione di denaro: recuperare il valore d’uso per dissacrare il valore di scambio. Mentre un’economia di puro scambio o di baratto può essere descritta in termini marxiani come M-D-M, ossia come produzione finalizzata a ottenere delle merci e quindi volta al raggiungimento di valori d’uso, un’economia capitalistica è descritta come D-M-D’, D’>D. Ciò significa che il fine della produzione è ottenere una quantità di capitale maggiore rispetto a quella di partenza attraverso la produzione. Diventa necessaria la distinzione tra prodotti e merci: queste ultime devono subire una metamorfosi in moneta perché, oltre che essere prodotte, devono anche essere vendute (cfr. S. Lucarelli – A. Fumagalli, Il circuito monetario, Milano 2007, disponibile all’indirizzo https://www.academia.edu/5164253/Teorie_Economiche_Alternative_Bocconi_2007_2011_Il_circuito_monetario_con_Andrea_Fumagalli_).

Quello che colpisce è che nella rincorsa del reddito spesso si sottovaluta la direzione verso la quale si avvia la rivendicazione, si perde di vista il fatto che ciò che si chiede è la crescita economica nella sua più genuina formula neo-classica, ossia la generalizzata crescita del reddito pro capite. Che a chiedere ciò sia la classe media, in un tentativo di recupero del suo potere di spesa e quindi dei suoi storici privilegi, non sorprende; le contraddizioni esplodono quando queste istanze divengono le parole d’ordine di un intero movimento che chiede semplicemente accesso al reddito, cioè potere d’acquisto. Si ammantano di connotati rivoluzionari alcune pratiche tendenti a scavare nicchie nel mercato globale, che non emancipano dalla necessità del reddito diretto ma, anzi, ne fanno il fine ultimo, costruendovi attorno una serie di rapporti che, su scala ridotta, mimano la complessità della produzione di massa. Orfane di un preciso percorso politico di reale incompatibilità, tante sperimentazioni concedono molto più di quel che ottengono, mentre lo sforzo di realizzare un profitto depotenzia e dirotta le energie dal movimento alla produzione.

Se da un lato il reddito serve per poter accedere a beni e servizi, nel momento in cui questi si riesce ad autoprodurli o autogestirli il fabbisogno di moneta comincia a decrescere, fino ai limiti fisiologici imposti dal sistema economico e sociale nel quale si è immersi. Si intende mettere a sistema la tecnologia disponibile per sopperire alle tariffe dei servizi, le conoscenze per sopperire alla scarsità di servizi collettivi (ad esempio ambulatori popolari e istruzione autogestita). In una parola, mutualismo che diviene conflittuale in quanto pratica che tiene fuori la concezione stessa di un sistema di riferimento che preordina bisogni e risorse.

È abbastanza chiaro che organizzare una microfiliera produttiva è assai più semplice che autoprodurre progressivamente quello di cui si ha bisogno, il portato socio-politico del percorso è però decisamente più ambizioso. Da un lato, abbiamo un percorso che si aggrega su istanze meramente reddituali, quindi su di uno specifico interesse; dall’altro, si ha una partecipazione che coinvolge su interessi molteplici e libera una serie di potenzialità insite nel mutualismo e nei processi di condivisione. Utopia, certo, ma altrove discorsi del genere hanno permesso di impostare dei percorsi di autodeterminazione di interi quartieri o villaggi: è chiaro che debbano essere fatte le giuste proporzioni, però preferire percorsi meno complessi non sta fornendo, in termini di conflitto, i risultati sperati.

C’è stato un processo di impoverimento delle pratiche e soprattutto del loro contenuto teorico, per cui l’organizzazione è vista perlopiù come un ostacolo alla libertà di espressione degli individui, con le conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi. In questo scenario è veramente difficile tracciare la direzione da percorrere: qui sono le pratiche a determinare inclusione, pratiche però che non nascano dall’agire tanto per agire, che non siano autocelebrazione dell’incapacità di creare immaginari, bensì naturale prosecuzione di una sintesi collettiva. Dalla crisi che si sta approssimando e dalla miseria che ne consegue non se ne esce da soli e non se ne esce continuando a percorrere le direttrici obbligate del sistema socio-economico ultraliberista; se ne può uscire solo riconquistando inclusione e ricomposizione sociale.

Infrastrutture

È un dato che l’economia di mercato punti al profitto; è altrettanto noto che a guidare gli investimenti siano le condizioni nelle quali questi avvengono. Appare abbastanza chiaro che anche gli investimenti territoriali non sfuggono a questa logica, quindi lo sviluppo di un territorio è legato più alla rapidità del recupero dell’investimento che alla programmazione economica di lungo periodo. Assumendo questo ragionamento come principio, è possibile leggere e analizzare gli investimenti infrastrutturali e le acquisizioni di reti e servizi degli ultimi anni sotto una prospettiva differente rispetto alla narrazione dello sviluppo fin qui diffusa.

Molte delle aziende coinvolte nelle grandi operazioni di riconfigurazione territoriale sono, sì, a capitale pubblico, ma assumono la forma giuridica privatistica delle Spa che devono per statuto obbedire a determinate regole di gestione, tra le quali spicca la distribuzione dei dividendi agli azionisti legati ai profitti e alla crescita aziendale.

Per quanto concerne le infrastrutture trasportistiche, vi sono delle evidenze che chiariscono il modo in cui si orientano gli investimenti. Non possono non essere notate le differenze economiche in termini di collocazione geografica: la Calabria, rispetto al resto d’Italia, presenta sostanziali differenze, le stesse riscontrabili, ad esempio, tra il versante tirrenico e quello ionico-adriatico. Ad ogni modo, da Napoli in giù i trasporti sembrano non avere molta importanza a esclusione del gommato: l’unico grande investimento infrastrutturale degli ultimi 50 anni è stata la Salerno-Reggio Calabria, mentre per le linee ferrate si è operato solo in chiave manutentiva.

Questo perché i flussi di traffico passeggeri e merci non sono omogenei e si concentrano maggiormente in alcune aree, tra Nord-Ovest e Nord-Est, o tra Nord e Centro (Milano-Venezia-Trieste, Milano-Roma, Venezia-Roma, Roma-Napoli): tutto ciò che sta fuori da questi corridoi ad alta densità di traffico è considerato periferia con scarse prospettive di crescita e sostanziale incapacità di sviluppo nel medio periodo.

Se osserviamo i nostri territori del Sud, fuori dai corridoi più remunerativi, ci ritroviamo con linee ferrate a un binario e non elettrificate, strade malandate e trasporto pubblico in dismissione. Capiamo per quale motivo la ferrovia che collega Reggio Calabria a Taranto sia un reperto museale più che un’infrastruttura e perché nessuno vuole investirci un centesimo. Eppure queste sarebbero le «grandi opere» necessarie, un progetto complesso di interventi di aggiornamento e ammodernamento delle infrastrutture e dei collegamenti. Non abbiamo bisogno di Tav fra Reggio e Taranto; ci sarebbe bisogno solo di un vettore efficiente e costante che in un tempo ragionevole consenta un trasporto confortevole. I circa 470 km di ferrovia potrebbero essere coperti in meno di 3 ore con un comunissimo elettrotreno, un intercity (la locomotiva tipo E-401 viaggia a 200 km/h) senza ricorrere a pendolini o frecce dai costi stellari e senza stravolgere l’attuale percorso della linea, semplicemente investendo nell’elettrificazione e nell’adeguamento. Ma anche qui, nelle linee a minore affluenza, ci sono ambiti di serie A e ambiti di serie B. In effetti, i progetti in via di definizione o in attesa di partire riguardano l’elettrificazione delle tratte Lamezia-Catanzaro Lido e Crotone-Catanzaro, il resto è evidentemente assai meno remunerativo. Evidentemente, quando si parla di rilancio dei territori, si intendono quelli già serviti da resort e villaggi turistici o soggetti a turistificazione massiva. Come solevano dire i nostri avi, «soldi chiamano soldi». Si usano gli strumenti della pianificazione territoriale per accelerare lo sviluppo di quelle aree in cui è già presente una discreta crescita economica.

Immaginare collegamenti stabili e intermodali per connettere non soltanto i centri abitati della costa, ma soprattutto l’entroterra con la costa, è impossibile. Il che amplia il paradosso e rende claudicanti e incerti i tentativi fin qui intrapresi. Fornire trasporti e vie di comunicazione accessibili e percorribili con vari mezzi in tempi ragionevoli è di per sé il miglior investimento per attrarre turisti di ogni genere. Ma soprattutto per cominciare a pareggiare le distanze tra l’entroterra e la costa, distanze che si fanno siderali se si pensa che in tre ore si può andare da Reggio Calabria a Salerno o da Reggio a Catanzaro Lido.

Le politiche di riqualificazione territoriale e di ammodernamento delle infrastrutture, nel momento in cui seguono solo ed esclusivamente le logiche di mercato, finiscono per acuire le differenze fra le varie aree geografiche. Il taglio dei treni pendolari, la dismissione delle piccole stazioni, l’affidamento sempre più massiccio di intere tratte a mezzi gommati privati, sono avvisaglie di come si stia orientando la pianificazione «strategica» dei nostri territori. La mobilità, che è uno dei fattori sui quali si costruisce l’autonomia locale, viene ad assumere invece il ruolo di strumento che discrimina chi è degno di sviluppare le proprie potenzialità e chi no.

Intelligenza artificiale

L’espressione «Intelligenza Artificiale» (IA) fu coniata da John McCarthy, uno dei pionieri dell’informatica, nel 1956 durante il Dartmouth Summer Research Project, un convegno dedicato allo studio di un dispositivo artificiale in grado di simulare l’intelligenza umana. Una definizione più recente e completa del termine è quella data dall’European Commission’s High-Level Expert Group: L’Intelligenza Artificiale si riferisce a sistemi che esibiscono un comportamento intelligente dall’analisi dell’ambiente che li circonda, facendo azioni per raggiungere obiettivi ben precisi con un certo grado di autonomia.

Tante sono le ricerche e le applicazioni dell’IA, ma qui si fa riferimento solo alle «macchine che apprendono», cioè alla sperimentazione dell’IA applicata alla costruzione di macchine «pensanti» capaci di simulare, anche se ancora parzialmente, il cervello umano. Questa peculiarità fa sì che un numero sempre crescente di mansioni possano essere svolte da macchine.

Una svolta nell’ambito della statistica, della sociologia, dell’informatica, ma anche nel settore dell’Intelligenza Artificiale, è arrivata grazie ai Big Data, l’immane raccolta di dati facilmente acquisibili, conservabili e analizzabili, attraverso cui «allenare» l’apprendimento macchinico. Per capire dove siamo arrivati basti pensare al recente esperimento condotto con le reti neurali che simula il funzionamento del cervello, provando a far scrivere da un’intelligenza artificiale la fine della saga di Game of Thrones. Zack Thoutt, ingegnere informatico, esperto di intelligenza artificiale e grande appassionato del Trono di Spade, ha dato in pasto a una rete neurale le pagine già scritte da George R.R. Martin chiedendole di ultimare la storia. A parte alcuni errori grammaticali, il sistema è ancora lontano dalla perfezione, il testo prodotto dall’Intelligenza Artificiale era fruibile, sensato e molto simile alla cifra stilistica dello scrittore in carne e ossa.

Si pensi tutto ciò che impatto ha, e ancor più quale potrà avere in futuro, sul lavoro. Sempre più spesso in tanti settori manifatturieri il lavoro operaio è sostituito da quello dei robot. Questo soprattutto perché, una volta fatta la spesa, il robot non mangia, non si stanca, non va al bagno e soprattutto non si lamenta. I cicli produttivi possono durare 24 ore senza soste e nessuno chiederà supplementi per i giorni festivi, per i turni di notte o per le ferie. Se, in un sistema razionale, questo comporterebbe la fine dei lavori usuranti per l’umanità, nel nostro sistema questo significa solo aumento della produttività e del profitto per pochi e maggiore disoccupazione per tanti.

Cosa accadrebbe se fossimo noi i proprietari dei mezzi di produzione? Cosa accadrebbe se la rivoluzione tecnologica (la cosiddetta industria 4.0) venisse utilizzata per il bene comune e non per la produzione individuale di extraprofitti?

Lavoro

Leggendo i dati statistici dell’Istat riguardanti il mondo del lavoro italiano, riusciamo a farci un’idea di ciò che è successo nei primi mesi del 2020.

Rispetto al mese di febbraio 2020, a marzo l’occupazione è in lieve calo e la diminuzione marcata della disoccupazione si associa alla forte crescita dell’inattività. La diminuzione dell’occupazione registrata a marzo (-0,1% pari a -27 mila) coinvolge sia le donne (-0,2%, pari a -18 mila), sia gli uomini (-0,1%, pari a -9 mila), portando il tasso di occupazione al 58,8% (-0,1 punti). Anche la forte diminuzione delle persone in cerca di lavoro (-11,1%, pari a -267 mila unità) coinvolge sia le donne (-8,6%, pari a -98 mila unità), sia gli uomini (-13,4%, pari a -169 mila). Il tasso di disoccupazione scende all’8,4% (-0,9 punti) e, tra i giovani, al 28,0% (-1,2 punti). A marzo, la consistente crescita del numero di inattivi (+2,3%, pari a +301 mila unità) – tre volte più elevata tra gli uomini (+3,9%, pari a +191 mila) rispetto alle donne (+1,3%, pari a +110 mila) – porta il tasso di inattività al 35,7% (+0,8 punti).

Confrontando il trimestre gennaio-marzo 2020 con quello precedente (ottobre-dicembre 2019), l’occupazione risulta in evidente calo (-0,4%, pari a -94 mila unità) per entrambe le componenti di genere. Nello stesso trimestre calano anche le persone in cerca di occupazione (-5,4% pari a -133 mila) e aumentano gli inattivi tra i 15 e i 64 anni (+1,5%, pari a +192 mila unità). Rispetto a marzo 2019, l’occupazione fa registrare un calo sia nel livello (-0,5%, pari a -121 mila unità), sia nel tasso (-0,2 punti). Nell’arco dei dodici mesi, alla diminuzione degli occupati si accompagna il calo dei disoccupati (-21,1%, pari a -571 mila unità) e l’aumento degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (+4,4%, pari a +581 mila). Di fatto la fetta di popolazione attiva − 15/64 anni − è suddivisa in 23.234.000 di occupati (59,53%) mentre risultano disoccupate 2.132.000 persone e 13.661.000 (40,47%) quelle inoccupate.

I titoli delle principali testate economiche sottolineano la diminuzione della disoccupazione rispetto ai mesi precedenti: solo nei sottotitoli troviamo l’aumento dell’inattività e della cassa integrazione. Se consideriamo che tra gli occupati sono inclusi anche i percettori di cassa integrazione e altri sussidi e se sommiamo la popolazione under 15 e over 64, possiamo certamente dire che nel nostro Paese sono più le persone che non hanno un lavoro retribuito rispetto a quelle che ne hanno uno stabile. Il dato si fa ancora più esplicito se togliamo dal computo i precari. Infatti, nella categoria degli occupati, seguendo la nota metodologica Istat, sono comprese le persone di 15 anni e più che, nella settimana di riferimento,

1) hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura;

2) hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente.

Che la composizione di classe tecnica e politica non passi per un semplice dato quantitativo è questione nota e non potrà essere una semplice statistica a guidarne la ricomposizione. Occorre però riposizionare il nostro focus su qualità e centralità del soggetto di classe che oggi in tutta evidenza non è il «lavoratore» inteso come categoria astratta. Per fare questo sarebbe opportuno che sindacati e movimenti iniziassero a prendere atto che la soggettività e la composizione di classe sono relazioni materiali che non si possono basare su figure mitizzate. La soluzione non passa dalla rivendicazione della piena occupazione o da un reddito universale che − essendo «condizionato» − stenta a trovare una collocazione nel sistema dato. C’è bisogno di un ripensamento radicale di alcune pratiche che, basate su una vertenzialità fine a se stessa, lasciano macerie e frustrazioni: la vertenza deve essere funzionale alla lotta. Spesso avviene il contrario.


Macchine

Secondo il World Economic Forum nei prossimi cinque anni oltre la metà di tutte le attività lavorative saranno eseguite da macchine. Molti lavori, come li conosciamo, cesseranno di esistere. Studi su studi, inclusi quelli del World Economic Forum, avvertono dell’impatto dell’automazione sui lavoratori. «Dai tempi in cui i Luddisti hanno distrutto i telai nella Gran Bretagna preindustriale alle nostre attuali preoccupazioni riguardo all’intelligenza artificiale, abbiamo a lungo considerato le macchine una minaccia esistenziale ai nostri mezzi di sussistenza. Eppure le economie – specialmente nei paesi sviluppati – sono sopravvissute» (A. Bruce-Lockhart, Davos 2020: Here’s what you need to know about the future of work, 16 gennaio 2020, disponibile all’indirizzo https://www.weforum.org/agenda/2020/01/davos-2020-future-work-jobs-skills-what-to-know).

La soluzione del Forum è quello di sperare nel futuro, sperare che alla perdita di posti di lavoro «tradizionali» subentri la crescita di posti di lavoro di nuova tipologia che avranno bisogno di una maggiore specializzazione visto che crescerà la domanda di matematica, informatica e analisi dei dati. I lavoratori saranno sempre più giovani e specializzati (il Forum non considera l’invecchiamento della popolazione in Occidente?) alla ricerca di ambienti lavorativi più decentralizzati, attraverso il lavoro agile, e maggiore autonomia contrattuale. Ma, mentre le imprese private cresceranno sia economicamente che dimensionalmente, chi pagherà questa necessità di specializzazione delle nuove leve? Sempre la scuola pubblica o saranno gli stessi privati a finanziare le nuove Università capital-friendly?

Anche in questo il Forum dimentica la crisi delle nostre Accademie con sempre meno iscritti e con tasse sempre più alte. Probabilmente, ci penseranno i prestiti agli studenti, così da aprire anche in Europa, essendo pratica consueta nel mondo anglosassone, questa nuova branca di sfruttamento finanziario delle nuove generazioni. E, soprattutto, dove finiranno tutti coloro che non avranno la possibilità economica o le capacità intellettuali di conseguire livelli sempre più alti di specializzazione?

Risposte non ce ne danno, ma speranze sì: le economie – specialmente nei paesi sviluppati – sono sopravvissute alle macchine a vapore, sopravvivranno in qualche modo anche all’intelligenza artificiale. Non si può programmare nulla dunque, non ci resta che sperare nelle sorti progressive dell’umanità.



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Stefano Ammirato, Gianmarco Cantafio, Alessandro Gaudio, Gennaro Montuoro fanno parte della redazione di «Malanova», progetto militante che si pone l’obiettivo di costruire una rete di informazione e approfondimento a partire dai territori del Sud.



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