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Controdizionario del conflitto (IX)

di Stefano Ammirato, Gianmarco Cantafio, Alessandro Gaudio, Gennaro Montuoro



È al carattere che la militanza assume in questo delicatissimo periodo storico che guardano tutte le voci del Controdizionario approntato da «Malanova». Il cantiere aperto di ricerca su nuove ipotesi politiche e orizzonti praticabili è giunto alla nona uscita su «Machina» e include le voci Riders, Riproduzione, Robotica e Salute, incentrate sulle questioni intrecciate di lavoro, reddito e servizi. Sono state scritte in fasi differenti ma poi aggiornate, provando a coniugare lo sguardo sull’attualità con un orizzonte di analisi più ampio. Anche queste, come le precedenti, non devono in nessun caso essere lette come lemmi e vanno ad arricchire il nostro controdizionario, ossia un dizionario che mette in discussione la sua stessa forma.


* * *


Riders

Il 15 settembre 2020 è stato sottoscritto un contratto collettivo di lavoro, da alcuni definito pirata, tra l’Assodelivery e l’Organizzazione Sindacale Ugl, per regolare il lavoro dei riders.

Il primo tentativo di inquadrare legalmente il lavoro dei riders è stato compiuto nel capo V-bis aggiunto al D. Lgs 81/2015 «Tutela del lavoro tramite piattaforme digitali» che inizia a formalizzare questo tipo di rapporto di lavoro tramite App. Secondo le prescrizioni legislative, i contratti devono essere in forma scritta e, in mancanza di contratti collettivi, i lavoratori «non possono essere retribuiti in base alle consegne effettuate; ai medesimi deve essere garantito un compenso orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini». Si sancisce anche la necessità di un’indennità integrativa non inferiore al 10% per il lavoro svolto di notte, durante le festività o in condizioni meteorologiche sfavorevoli.

La firma di questo contratto di lavoro ha messo sul piede di guerra i sindacati confederaliche affermano:


Un atteggiamento inaccettabile e incomprensibile di Assodelivery ha portato alla sottoscrizione di un contratto per i riders con la Ugl, pur in presenza di una interlocuzione ed un tavolo sindacale aperto a luglio presso il Ministero del lavoro ed aggiornato a settembre. Scegliere un interlocutore di comodo è un errore che pregiudica un percorso negoziale che, a prescindere dalle reciproche posizioni, avrebbe potuto portare a maggiori garanzie per i riders con l’obiettivo di consolidare l’occupazione, la qualità del lavoro e il rafforzamento del quadro dei diritti e delle tutele. L’operazione Ugl-Assodelivery è una finta operazione di miglioramento delle condizioni di lavoro dei rider. Se questa è la forma utilizzata ancora meno accettabile è il merito dell’intesa. In sfregio alla legge e al comune sentire ci troviamo di fronte a un testo che riconduce al cottimo l’attività di queste lavoratrici e lavoratori, anche riguardo alla fornitura dei dispositivi di protezione individuale. Lo scambio del contratto sottoscritto tra Assodelivery e Ugl è che questi lavoratori rimangano autonomi ossia collaboratori occasionali e partite iva senza nessuna possibilità di avere una occupazione stabile: in altri termini, si tratta di un’operazione che prevede un basso salario in cambio di maggiore precarietà! Ciò consentirà alle varie Glovo, Just Eat, Uber Eat di continuare a disporre di una manodopera potenzialmente infinita, facilmente sostituibile, e scaricando sui lavoratori il proprio vantaggio fiscale e contributivo. A questi lavoratori non verranno retribuite malattia, tredicesima, ferie e la maternità; potranno essere licenziati e quando avranno raggiunto il tetto retributivo massimo per le collaborazioni occasionali (5000 euro annui) potranno riconsegnare i loro nuovi dispositivi di lavoro generosamente concessi in virtù di questo accordo.


Lo stesso Ministero del Lavoro ha escluso che l’Ugl e Assodelivery, vista la loro rappresentatività sul piano nazionale, possano derogare al Dlgs 81/2015 sopra riportato, soprattutto nel determinare una retribuzione che tenga conto del numero di consegne (cottimo) e non di un minimo orario come previsto dalla legge.

Appena insediatosi come ministro, nel giugno del 2018, Luigi Di Maio aveva annunciato che le possibili strade per garantire diritti e tutele ai riders erano due: inserire norme ad hoc nel decreto «Dignità», le cui bozze prevedevano che i riders fossero inquadrati come lavoratori subordinati o avviare un tavolo con le aziende del settore con l’obiettivo di arrivare a un contratto collettivo nazionale. Le negoziazioni promosse dal Ministero tra aziende di food delivery, associazioni dei riders e parti sociali non portarono, però, ai risultati desiderati, cosicché, con il cambio di governo e di ministro, nell’autunno dello scorso anno si decise di intraprendere la seconda delle strade. Il 3 settembre 2019 con il Decreto-legge n. 101, pubblicato su Gazzetta Ufficiale del 4 settembre 2019, n. 207, recante «Disposizioni urgenti per la tutela del lavoro e per la risoluzione di crisi aziendali», convertito con modifiche dalla Legge n. 128 del 2 novembre 2019, il legislatore interviene direttamente sul settore del food delivery via app (P. Dammacco, CCNL Assodelivery-UGL: un quadro di sintesi, disponibile all’indirizzo http://www.bollettinoadapt.it/ccnl-assodelivery-ugl-un-quadro-di-sintesi).

In effetti, la Legge 128/2019 non fa che rimaneggiare il D. Lgs. 81/2015 aggiungendo il capoV-bis «Tutela del lavoro tramite piattaforme digitali» − già richiamato − e aggiungendo all’art. 2 la dicitura: «Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali».

Arriviamo al focus del contratto nazionale sottoscritto mentre la contrattazione delle parti al tavolo ministeriale era formalmente aperta. La prima parte del contratto, richiamandosi a tutta la nuova legislazione in materia, definisce le soggettività in gioco. Piattaforme sono «le aziende che mettono a disposizione i programmi e le procedure informatiche che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, sono strumentali alle attività di consegna di beni; Riders, i lavoratori autonomi che decidono di svolgere attività di consegna di beni per conto altrui, sulla base di un contratto con una o più Piattaforme».

Ai riders non è richiesta l’esclusività di rapporto di lavoro; qualora ne avessero il tempo, potrebbero lavorare per più piattaforme anche concorrenti. Possono decidere quando e come connettersi all’applicazione e decidere se accettare o meno la consegna. D’altro canto, anche la piattaforma ha la discrezionalità di non inviare nulla al rider connesso. Spesso quest’ultima opzione è utilizzata per punire gli addetti meno «simpatici» premiando gli stacanovisti grazie allo sviluppo di appositi sistemi di ranking per classificare gli operatori secondo gradi di affidabilità ed efficienza.

All’art. 3 il contratto nazionale fa un passo indietro, ritornando a segnalare la natura autonoma del rapporto di lavoro quando la legislazione l’aveva iscritta nell’ambito del lavoro subordinato e, per tale motivo, esclude la maturazione a favore del Rider di compensi straordinari, mensilità aggiuntive, ferie, indennità di fine rapporto o altri istituti riconducibili al rapporto di lavoro subordinato.

«Nell’ambito del rapporto è escluso l’assoggettamento del Rider al potere gerarchico e disciplinare dalla Piattaforma, in quanto risulta assente qualsivoglia vincolo di subordinazione» (Art. 7).

Maggiore interesse suscita l’art. 10 che riguarda i compensi. Mentre la legislazione nazionale, equiparando il lavoro dei riders al lavoro subordinato, prescrive un salario minimo svincolato dalle reali prestazioni, il contratto nazionale siglato da Assodelivery e Ugl ritorna all’antico proponendo che «il Rider riceverà compensi in base alle consegne effettuate, ferma la possibilità per le Parti di determinare compensi in base a parametri ulteriori».

L’art. 11 continua così: «le parti concordano che al Rider sia riconosciuto un compenso minimo per una o più consegne, determinato sulla base del tempo stimato per l’effettuazione delle stesse. Tale compenso è equivalente a euro 10,00 (dieci/00) lordi l’ora. Nel caso in cui il tempo stimato dalla Piattaforma per le consegne risultasse inferiore ad un’ora l’importo dovuto verrà riparametrato proporzionalmente ai minuti stimati per le consegne effettuate».

Dieci euro e per giunta lordi. Potrebbe accadere che, seduto su una bella panchina in compagnia di bicicletta o motorino, ti arrivi solo una comanda e ci metta 10 minuti per consegnarla: per quell’ora ti toccheranno ben 1,60 euro lordi!

Però, in particolari condizioni, ti becchi un «cospicuo» aumento. Per il lavoro svolto di notte, per quello svolto durante le festività e/o in condizioni meteorologiche sfavorevoli, l’indennità integrativa sarà pari al 10% in caso di presenza di una sola circostanza, il 15% in caso di concomitanza di due circostanze e il 20% in caso di concomitanza di tutte e tre le circostanze. Cioè, se in un’ora fai una sola consegna di 10 minuti ma è notte, piove ed è un giorno festivo, percepirai ben 1,92 euro lordi: grasso che cola! Se poi sei costante e riesci a fare 2000 consegne annue (5 al giorno per 365 giorni), ti tocca un ulteriore incentivo una tantum di 600 euro, ma per la tua sicurezza questo bonus non può superare i 1.500 euro.

Un po’ meglio va per i rappresentanti sindacali dell’Ugl. Innanzi tutto il contratto prevede che il rider potrà rilasciare delega finalizzata alla trattenuta del contributo associativo sindacale a favore dell’Organizzazione Sindacale firmataria del contratto. Inoltre, Assodelivery riconoscerà ai 5 componenti di nomina sindacale, che saranno individuati per la Commissione Nazionale, un corrispettivo giornaliero di 70 euro a componente per ogni giornata di attività, nonché il rimborso delle spese di spostamento per coloro che interverranno da fuori del comune di propria residenza.

A ciò si aggiunga che per i «lavoratori Rider che assumeranno il ruolo di dirigenti sindacali, designati dall’Organizzazione Sindacale sottoscrittrice del presente Contratto, Assodelivery riconoscerà un numero massimo complessivo annuo di 1500 ore, da calcolarsi in maniera forfettaria in euro 12,00 (dodici/00), per l’esercizio del ruolo e delle prerogative sindacali» (art. 29).

Nel pensiero delle parti questo nuovo contratto collettivo dovrà avere una validità di tre anni salvo proroghe successive. Si attende ovviamente il risultato delle denunce dei sindacati confederali e l’azione del Ministero che ha già dichiarato fuori legge le prescrizioni riguardanti il compenso a cottimo contenuto nel contratto. Alla fine però, visto che nel frattempo i riders continuano a percorrere le nostre città, almeno siamo consapevoli di quali siano le condizioni salariali di questa componente del mondo del lavoro, sempre più flessibile e precaria.

Certo, il lavorio sindacale potrà in futuro far guadagnare a questi lavoratori condizioni migliori, ma rimane intatto il problema teorico e sfocata la fotografia della realtà. Siamo di fronte quasi sempre a società di capitali, le cui società madri sono quotate in borsa con fatturati miliardari, capaci di agire come intermediari tra il ristoratore e i clienti tramite un efficiente quanto banale servizio in rete di ordinazione e consegna pasti.

Si è già detto che «le applicazioni − cuore pulsante dell’economia di piattaforma − sono presentate come una mediazione quasi asettica ed efficiente, ma hanno dimostrato di essere una fonte di sfruttamento e disciplinamento sulle migliaia di giovani che li utilizzano come mezzo di occupazione. Essi hanno inoltre un impatto significativo sui processi di gentrificazione e speculazione immobiliare, sull’aumento dei problemi strutturali di transito e sull’uso di beni e luoghi pubblici» (Perché non un’economia di piattaforma popolare?, «Malanova», consultabile all’indirizzo http://www.malanova.info/2020/05/23/perche-non-uneconomia-di-piattaforma-popolare).

Queste nuove frontiere del lavoro sembrano insopprimibili perché legate a doppio filo all’uso capitalistico della tecnologia. Ad ogni modo, ci si chiede: se l’app fosse direttamente nelle mani dei lavoratori? Se questi, invece di accontentarsi di 10 euro lordi all’ora, pensassero alla creazione di piattaforme cooperative pubbliche e popolari che spezzino la messa a valore dell’intelligenza collettiva e il ricatto occupazionale? Forse avremmo qualche ricco capitalista in meno e qualche rider soddisfatto in più.



Riproduzione

L’attuale fase pandemica ha riaperto − semmai si fossero chiuse − le profonde cicatrici lasciate dalla crisi economica del 2008 facendo riaffiorare la strutturale debolezza di una società che, costruita sulle leggi del capitale, ha anteposto per sua stessa natura il profitto di pochi al benessere dei molti, il valore di scambio a quello d’uso. Questa emergenza ha avuto il merito di far riemergere la questione della riproduzione − centrale nel dibattito femminista − e spesso dimenticata o descritta solo come antitesi del lavoro produttivo. Il lavoro produttivo dispiega la sua essenza all’esterno − fuori di casa, nelle città o in fabbrica − mentre quello riproduttivo si svolge all’interno, dentro le abitazioni, lontano dalle strade, come una sorta di ombra del lavoro produttivo. Ma oggi, rinchiusi in casa e negli ospedali, vediamo emergere (in realtà mai sopito) con forza il ruolo del lavoro riproduttivo come leva necessaria a far ripartire il capitale.

Ma in piena fase pandemica possiamo immaginare di decostruire la narrazione unica del modello capitalista per costruire una nuova economia su basi sociali ed ecologiche; una nuova società capace di escludere dal proprio orizzonte l’economia dei profitti? Questa «nuova» crisi sta aprendo contraddizioni e possibilità il cui esito naturalmente non è per nulla scontato. Occorrerebbe rovesciare il paradigma produttivista di fondo per evitare che non siano i soliti soggetti deboli a pagarne il prezzo più caro. Per fare questo deve essere chiaro un concetto: nessuno deve rimanere indietro e nessuno deve tornare indietro perché non è la normalità del «prima» quella a cui guardare: va immediatamente ripensato il senso intrinseco del lavoro e, al contempo, va garantito subito il diritto al reddito.

Con tutta evidenza la normalità di cui parlano il governo e pezzi del sindacato è quella di chi scambia lavoro per salari da fame e privi di ammortizzatori sociali, è quella dei lavoratori occasionali, stagionali e delle tante «invisibili» che svolgono il lavoro di riproduzione all’interno delle nostre case, di chi lavora in nero sottopagato e sfruttato in agricoltura e in genere è quella normalità di tantissimi milioni di precari che sopravvivono, letteralmente giorno dopo giorno, barcamenandosi tra bollette, affitti e mutui. Non è questa la normalità che vogliamo e non sarà la speranza di una uscita imminente dall’incubo della quarantena a garantirci una giusta dignità sociale ed economica perché − come sappiamo bene − non si tratta di una crisi iniziata con il virus perché viene da molto più lontano.

Resta quindi imprescindibile rivendicare a gran voce una misura reddituale immediata e universale, per tutti, a prescindere da genere, settore produttivo e tipo di contratto. Una forma di reddito universale non «lavorista», svincolato dal lavoro. Questo occorre rivendicarlo ora, nella contingenza attuale dell’emergenza, ma dovrà giocoforza rimanere un pezzo dell’orizzonte politico su cui misurare la prassi di una soggettività che, nonostante l’urgenza sociale, stenta ancora a palesarsi per divenire forza conflittuale.



Robotica

Anche in Italia la diffusione della robotica nei vari settori produttivi si fa sempre più estesa. È infatti lo stesso Censis che nel suo 53° rapporto dedica un intero capitolo a questo processo: «negli ultimi cinque anni oltre la metà delle imprese italiane ha investito in alcuni dei fattori abilitanti necessari per applicare le innovazioni ai processi produttivi, quali una connessione internet in grado di assorbire grandi volumi di dati scambiati in tempo reale, insieme a una infrastruttura anche basata sul cloud e al conseguente sforzo verso una maggiore sicurezza informatica».

Il nesso tra tecnologie avanzate e grandi investimenti è strettissimo: i settori nei quali maggiormente si registrano imprese che hanno effettuato investimenti importanti nell’innovazione digitale e conseguentemente nella robotica sono quelle tecnologicamente più avanzate: automotive, energia, biotech e servizi finanziari.

In Italia, la produzione industriale diventa sempre più automatizzata e la presenza massiva dell’automazione robotica nel ciclo produttivo è confermata dal rapporto robot/addetti nell’industria manifatturiera. Nel solo 2018 nel nostro Paese sono stati installati 200 robot ogni 10.000 addetti nell’industria, il doppio rispetto alla media mondiale e alle medie nazionali di Paesi come la Francia e la Spagna. Siamo invece in ritardo rispetto ad altre nazioni leaders della produzione industriale, come Germania (338) e Giappone (327), e rispetto a economie con una manifattura altamente tecnologica come Singapore (831) e la Corea del Sud (774).

Anche le analisi scientifiche seguono questa tendenza, con oltre 10 mila pubblicazioni sull’argomento: l’Italia è sesta al mondo nella ricerca robotica davanti a Francia, Canada, Corea del Sud e Spagna, con buona pace per chi, ancora oggi, è convinto della neutralità delle scienze applicate e della ricerca.

L’importanza di questo settore per le aziende produttrici italiane la si può dedurre dai dati sul commercio con l’estero: secondo il succitato rapporto Censis, la quota italiana relativa alle esportazioni mondiali di macchinari e apparecchiature meccaniche è pari al 6,1%, per un controvalore di 81,7 miliardi di euro e un saldo attivo pari a circa 50,6 miliardi di euro. Nel comparto industriale la filiera della robotica italiana conta ben 104 mila imprese, che sono cresciute del 10% negli ultimi cinque anni.

Dai robot domestici a quelli spaziali, crescono le tecnologie applicate all’industria, alla ricerca e alla sanità, ma anche quelle relative alle pratiche quotidiane. Nel 4° rapporto sull’innovazione made in Italy curato dalla Fondazione Symbola e da Enel, con tecniche da storytelling ci spiegano come robot e automi entrino nella vita quotidiana e come la loro presenza sia sempre più importante in varie attività: dalla pulizia della casa a quelle ludiche, ma anche nei servizi sanitari e di assistenza.

È l’«ambientalista» Ermete Realacci, presidente di Symbola, a dirci che «Se si guarda l’Italia con occhi diversi si scoprono cose che altri umani non sanno leggere», aggiungendo «È così anche per la robotica che già oggi contribuisce a importanti filiere del Made in Italy come l’agroalimentare, la moda, il legno-arredo, la meccanica. Ed è attraversata dalle sfide del futuro, a cominciare dalla necessità di affrontare la crisi climatica, coniugando empatia e tecnologia. […] l’Italia è in grado di vincere qualsiasi sfida, grazie alla sua capacità di far sintesi tra funzionalità, bellezza, umanesimo, figlia di una cultura che nelle sfide tecnologiche più avanzate non dimentica la ricerca di un’economia e una società più a misura d’uomo, come affermiamo nel Manifesto di Assisi».

Ma ritorniamo per un attimo al rapporto del Censis e proviamo a incrociare un po’ di dati sulla produzione, il lavoro e il reddito. Quello che viene fuori – è lo stesso Censis che sostanzialmente lo afferma – è il «bluff dell’occupazione che non produce reddito e crescita».

Tralasciando i nefasti esiti che nei prossimi mesi produrrà la crisi da Covid-19, tra il 2007 e il 2018 l’occupazione è aumentata di 321.000 unità, con una variazione positiva dell’1,4%. La tendenza è rimasta invariata anche nei primi sei mesi del 2019 quando si è registrato un incremento di mezzo punto percentuale rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Questo dato però nasconde alcuni elementi di criticità.

Se i dati vengono letti attraverso la lente delle ore lavorate, l’esito è decisamente diverso: il Censis stima una riduzione di 867.000 occupati a tempo pieno e un aumento di quasi 1,2 milioni di occupati part-time. Nel periodo 2007-18 quest’ultima tipologia di lavoro è cresciuta del 38% e oggi, ogni cinque lavoratori, uno è impegnato sul lavoro per metà del tempo. Ancora più drammatico è il dato relativo al part-time detto involontario. Il numero di occupati che è obbligato senza alternativa a lavorare a mezzo tempo ha superato la soglia dei 2,7 milioni, passando tra il 2007 e il 2018 dal 38,3% del totale dei lavoratori part-time al 64,1%. L’incremento in termini assoluti è stato superiore al milione e mezzo.

Dunque, il lavoro, se visto come volume di risorse dedicate alla produzione di valore e se misurato con le unità di lavoro a tempo pieno, è diminuito nell’arco degli undici anni considerati. L’input di lavoro si riduce di 959.000 unità e parallelamente il volume di ore effettivamente lavorate diminuisce di oltre 2,3 miliardi. La dinamica produttiva basata sul mantra più occupati e meno lavoro condiziona la disponibilità di reddito: l’impatto negativo sulle retribuzioni del lavoro dipendente è pari al 3,8% che in soldoni significa oltre 1.000 euro in meno.

Nel solo 2018, escludendo i lavoratori agricoli, sono circa 2 milioni i dipendenti del comparto privato che possono contare soltanto su 79 giornate retribuite all’anno. Questa tendenza si sta estendendo anche nel settore pubblico con 142.000 dipendenti che versano in analoghe condizioni. Sono invece 2.113.000 i lavoratori − ad eccezione agricoli e domestici − che hanno bisogno di più di un rapporto di lavoro per poter raggiungere un livello reddituale dignitoso, ma che per molti resta sempre e comunque di sopravvivenza: 913.000 ricevono una retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi per almeno un rapporto di lavoro di quelli in essere; circa un terzo di chi è sotto i 9 euro ha un’età compresa tra 15 e 29 anni (circa un milione di lavoratori). La concentrazione maggiore riguarda gli operai che costituiscono il 79% del totale. In sostanza, 8 operai su 10 in Italia ricevono un salario inferiore a quello stabilito per legge.

Confrontando adesso i dati relativi allo sviluppo dell’automazione con il dato occupazionale e reddituale, si può iniziare a tracciare la tendenza, ormai sufficientemente consolidata, dell’accumulazione flessibile del Capitale, nella quale il nesso tra produzione e occupazione appare incrinato: a una diminuzione della produzione corrisponde automaticamente una drastica riduzione del dato occupazionale, ma questa dinamica, all’inverso, non è più vera. Le capacità tecnologiche e informatiche, infatti, consentono incrementi importanti della produzione ai quali però non corrispondono altrettanti incrementi occupazionali, proprio in virtù degli alti livelli di produttività introdotti dalle nuove tecnologie.

L’automazione, la robotica e le tecnologie informatiche più in generale rappresentano soltanto innovazioni di processo che modificano senz’altro il ciclo di produzione, ma poco o nulla il prodotto finale e la logica che lo determina: un’automobile resta sempre un’automobile seppur tecnologicamente più avanzata rispetto a quella di un ventennio fa, rispondendo alla medesima logica di qualsiasi altro prodotto di consumo. L’innovazione sta solo nell’abbattere i costi.

Le vie verso nuovi mercati, quindi, diventano sempre più strette e gli sbocchi su di essi non vengono certamente creati dalle nuove tecnologie, anzi: senza voler scomodare Marx e i Grundrisse, occorre sempre tenere bene a mente che nella storia del capitalismo il progresso tecnologico ha sempre «liberato» lavoro e, come processo intrinseco, ha sempre causato disoccupazione. Il sistema capitalistico prova a compensare il dato di disoccupazione (non per spirito umanistico ma solo per necessità di autotutela) creando nuovi prodotti e nuovi mercati, nuova domanda e nuova produzione. Questo ciclo però ha iniziato a incepparsi in quanto l’automazione non amplia di molto la gamma di produzione, ma «semplicemente» la ristruttura e la modifica tramite un incremento sempre più elevato di flessibilità. Tutto questo non crea occupazione: in tutta evidenza, la distrugge.

La disoccupazione non è più un fenomeno esclusivamente congiunturale. Esso diventa strutturale e, di conseguenza, il salario viene progressivamente sganciato dalla produttività per il semplice fatto che quest’ultima dipende in massima parte non più dall’apporto lavorativo, ma dal tipo di macchinario esistente e utilizzato nella filiera produttiva. Se oggi, nonostante l’onda lunga della crisi del 2008, i dati sulla produzione risultano in costante crescita è perché − a parità di lavoro e di tempo − basta premere un tasto per inviare un input elettronico alla macchina e questo a discapito dell’utilizzo di forza-lavoro. È evidente allora come il lavoro e il salario a esso connesso stiano progressivamente assumendo i connotati di elementi esterni al meccanismo di accumulazione. Se questa tendenza è ormai strutturale, la rivendicazione del posto di lavoro e della piena occupazione diviene una lotta di retroguardia il cui esito assume toni drammatici sia in termini di sconfitta e frustrazione che di costruzione di una soggettività confliggente.



Salute

I dati pubblicati dal Ministero della salute contenuti nelle griglie di valutazione dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) − sigla che indica le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale (Ssn) è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento del ticket, con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale – collocano la Calabria permanentemente all’ultimo posto tra le regioni italiane. L’ultimo rilevamento, riferito ai dati 2018 ma aggiornato a novembre 2020, assegna alla Calabria un punteggio di 162, poco superiore alla soglia rossa delle regioni cosiddette «inadempienti», ponendola all’ultimo posto, insieme ad altre regioni meridionali. Tutto ciò nonostante il commissariamento regionale della sanità si sia protratto per diversi anni senza porre rimedio a queste eterne inefficienze.

Quando gli interventi di «risanamento» sono esclusivamente di natura economica e mirano al solo recupero dei disavanzi di bilancio il risultato non può che essere questo. Soldi a pioggia ai privati e carenza nel servizio fornito ai cittadini. Si privatizzano, come al solito, i profitti e si socializzano le perdite e gli effetti del malgoverno.

Osservando i dati disponibili sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze (anno 2020) si capisce come il commissariamento sia stato comunque inefficace anche sotto il profilo economico: in Calabria, nel 2019, la spesa sanitaria è stata pari a 3,5 miliardi di euro. Si tratta di un valore uguale a quello del 2009, anno in cui la Calabria ha siglato il Piano di Rientro (PdR) con l’esplicita assunzione di impegni volti proprio al contenimento dei costi.

Ma questi piani di rientro non tengono conto quasi mai dei meccanismi di mercato nel settore sanitario: negli ultimi dieci anni c’è stata un’impennata nelle aperture di studi privati di medici specializzati che lavorano in Lombardia, Veneto, Toscana e Lazio. Dopo aver guadagnato clienti a causa delle liste d’attesa lunghissime dei pochi ospedali disponibili, si fanno pagare cifre ingenti, anche 200 euro per una singola visita (sulla quale, fra l’altro, pagano le tasse alla regione di riferimento) spingendo il paziente, nei casi più gravi, a farsi operare negli ospedali dove lavorano. Questo sistema comporta il rimborso della prestazione alle altre regioni facendo aumentare così i debiti. Solo nel 2018 la Calabria ha dovuto versare per questa ragione 319 milioni di euro.

Gli interventi dei commissari ad acta alla sanità erano mirati alla riorganizzazione delle reti assistenziali con ulteriori tagli ai servizi sanitari e favorendo al contempo un modello di sanità privata; tutto questo nonostante le evidenti carenze del sistema sanitario regionale, come evidenziato, ad esempio, da un recente studio condotto dall’università di Göteborg sulla qualità della sanità in Europa, che colloca la Calabria all’ultimo posto tra le 172 regioni europee.

La sanità calabrese, è inutile ribadirlo, è tra le più care e inefficienti d’Europa perché depredata da interessi privati: migliaia le morti (evitabili) che si sono verificate in questa situazione deficitaria e molte altre arriveranno finché questa logica continuerà a prevalere. I cittadini calabresi hanno minore aspettativa di vita rispetto al resto d’Italia e d’Europa perché sono penalizzati da situazioni ambientali e sociali di grave rischio, una povertà diffusa e una sanità data in pasto al malaffare e alla clientela corporativa. In Calabria gli anni di vita in buona salute sono in media 52,9 contro i 67,7 del Trentino-Alto Adige.

Non ci ha mai convinto la logica del commissariamento che, di fatto, priva un’intera regione dei poteri decisionali e deresponsabilizza il ceto politico, riducendo, nella fattispecie, il settore sanitario a un mero compartimento tecnico; come se l’eterna crisi del sistema sanitario in Calabria fosse solo una questione di bilanci da sistemare e non invece una scelta di indirizzo politico e sociale da parte di chi ci governa.

La salute e la sanità sono sottoposte a ripetuti attacchi e a tagli di spesa che producono e favoriscono diseguaglianze nella tutela e nell’accesso alle cure. Contemporaneamente viene incentivato l’ingresso di gruppi privati, con un obiettivo chiaro: fare profitto sulla salute dei cittadini. Come in tutta Europa, anche in Italia assistiamo a un sistematico definanziamento del Servizio sanitario nazionale: piccoli ospedali e servizi territoriali vengono chiusi o depotenziati; la moltiplicazione di visite ed esami, favorita dal pagamento a prestazione, produce liste d’attesa che rendono difficile ottenere in tempi accettabili le cure necessarie e non garantiscono l’accesso a migliaia di persone; le condizioni di lavoro di chi opera in ambito sanitario peggiorano.

L’attuale proliferazione di coperture sanitarie assicurative private o mutualistiche − purtroppo inserite anche nei contratti collettivi di lavoro − indebolisce ulteriormente il sistema, creando un servizio a due velocità: quello pubblico è «al ribasso» e destinato ai meno abbienti (o a chi non ha una sufficiente tutela contrattuale) e uno privatizzato e differenziato per chi se lo può pagare (o a seconda dei diversi benefit previsti dal proprio ruolo lavorativo). Un Servizio Sanitario Nazionale pubblico, come dimostrano tutti gli studi comparativi internazionali, sarebbe invece meno caro e tutelerebbe tutta la popolazione.

Ma anche i dati sulla qualità dei servizi delle pubbliche amministrazioni prodotti del famigerato Cnel non smentiscono la tendenza, confermando, ancora una volta, che il sistema sanitario calabrese è il peggiore che ci sia in Europa.

A chi, allora, conviene privatizzare e commercializzare la salute? Sicuramente all’industria farmaceutica e ai produttori di apparecchiature sanitarie, ai grandi gruppi di cliniche, ambulatori e case di riposo private e alle compagnie assicurative che fanno profitti con i nostri soldi tramite il meccanismo dei ticket, della compartecipazione alla spesa, delle rette e dei premi.

Ma a cosa serve un servizio sanitario nazionale se il sistema nel suo complesso non presta la dovuta attenzione alla prevenzione e al diritto a una vita sana? Perché nei tanti piani di rientro e nei bilanci regionali si fa fatica a individuare qualche voce che contempli la prevenzione e il diritto al benessere?

Occorrerebbe rimettere al centro della programmazione i determinanti socio-sanitari, cioè tutti quei fattori, ordinati gerarchicamente, che stabiliscono l’incidenza di una specifica malattia su un individuo. Ad esempio, prima troviamo il contesto politico e socio-economico generale (la società capitalista in cui viviamo), poi i determinanti strutturali del singolo individuo (classe sociale, razza, genere, ecc.), e infine l’accesso alle risorse e gli stili di vita individuali. Avere un quadro analitico chiaro relativo ai determinanti socio-sanitari permetterebbe una programmazione puntuale delle risorse finanziarie e una pianificazione degli interventi strutturali, evitando così di cadere nella tentazione campanilistica o da tifoso da stadio dell’apertura di questo o quell’altro ospedale chiuso.

A tal riguardo un recente studio pubblicato in Francia dall’Agenzia nazionale di sanità evidenzia che oltre quindicimila casi di cancro ogni anno sono direttamente attribuibili alla classe sociale di appartenenza del malato. Le classi popolari sono maggiormente vittime di cancro alle vie respiratorie e all’apparato digestivo. Tra le cause principali si annoverano l’inquinamento atmosferico e le malattie professionali. A queste si aggiunge la questione del lavoro: luoghi insalubri, ritmi stressanti e usuranti sono gli elementi che più incidono sulle patologie. Infine, viene evidenziata la correlazione tra salute e luogo in cui si abita: chi vive in prossimità di strade trafficate o luoghi inquinati è esposto a un rischio maggiore. Secondo una recente ricerca della British Columbia, pubblicata sulla rivista Environmental Health, vivere nelle vicinanze di strade principali o autostrade espone i cittadini a una maggiore incidenza alla demenza, al Parkinson, all’Alzheimer e alla sclerosi multipla. I ricercatori, inoltre, hanno scoperto che vivere vicino a spazi verdi, come i parchi, ha effetti protettivi contro lo sviluppo di questi disturbi neurologici. Appare del tutto inutile evidenziare quale fascia sociale oggi sia più esposta a smog e clacson e quale invece abbia la possibilità di vivere in quartieri riservati, senza traffico e pieni di spazi verdi. I nessi tra questioni socio-economiche e ambientali e il diritto alla salute sono sempre più evidenti, anche laddove non esistano studi sistematici tra lo sviluppo di alcune malattie e i determinanti socio-ambientali e sanitari.

Ma un altro aspetto che spesso viene sottaciuto è quello della povertà sanitaria. In Italia, secondo una ricerca del Censis, nel 2016 sono 11 milioni le persone che hanno dovuto rinviare o rinunciare a prestazioni sanitarie a causa delle difficoltà economiche, 2 milioni in più rispetto al 2012. Sempre più famiglie si rivolgono agli enti assistenziali per le medicine di cui hanno bisogno e la loro percentuale è salita dell’8,3% nel 2016 rispetto all’anno precedente. Più i soldi mancano, dunque, meno si fanno visite mediche, e, anche qualora si facciano, spesso non ci sono le condizioni strutturali per curarsi.

Nel Rapporto Donare per curare: povertà sanitaria e donazione farmaci, promosso dalla Fondazione Banco Farmaceutico, si può leggere come in 3 anni la richiesta di farmaci sia salita del 16%. Gli utenti complessivi sono cresciuti nel 2016 del 37,4% con i 1.663 enti sostenuti dal Banco Farmaceutico che hanno aiutato oltre 557 mila persone, il 12% dei poveri italiani. Gli aumenti maggiori si evidenziano al Nord Ovest (+90%) e al Centro (+84%). La crescita più significativa è tra gli stranieri (+46,7%), i maschi (+49%) e le persone sopra i 65 anni di età (+43,6%).

I dati appaiono abbastanza trasversali tra il Nord e il Sud del Paese, con un Nord colpito maggiormente dalla crisi e dai processi di impoverimento e «decetomedizzazione» (o proletarizzazione, se vogliamo) nonostante i livelli Lea pongano le strutture sanitarie settentrionali ai primissimi posti in termini di prestazioni e qualità. Ad ogni modo, sono sempre e comunque le fasce sociali deboli o indebolite a essere colpite dalla malasanità e dai processi di privatizzazione nel settore. In alcuni contesti sociali inizia a preoccupare la mancanza dell’accesso al medico di base: circa 500 mila persone non hanno una regolare iscrizione al Servizio sanitario nazionale. Sono perlopiù italiani privi di domicilio o che vivono in case occupate, figli di immigrati irregolari che magari frequentano le nostre scuole, lavoratori (spesso anche comunitari) con permesso di soggiorno scaduto. Una situazione che il cosiddetto decreto Lupi ha inumanamente esasperato solo per la becera volontà di contrastare le occupazioni a scopo abitativo, mettendo la residenza al centro di tutte le procedure burocratiche.

Per le cure urgenti quindi rimane solo il pronto soccorso: una sorta di take-away della salute a cui ci si rivolge nell’85% dei casi per ricevere cure «non essenziali». Ma anche qui il Servizio sanitario, nel tentativo di ridurre le spese, ha eretto una giungla normativa e burocratica, esasperata dal federalismo sanitario, creando differenze abissali fra regione e regione. Si è stimato che il costo di un intervento medio in pronto soccorso si aggira sui 250 euro, con punte di 400 euro e un minimo di 150 euro. Una cifra che fa paura se moltiplicata per i grandi numeri che oggi registrano le aziende ospedaliere. Tutto questo perché la logica dell’accentramento geografico delle strutture sanitarie, il taglio lineare alle spese sanitarie e le privatizzazioni spingono una massa enorme di poveri, senzatetto e fasce impoverite a ricorrere a quest’ultima spiaggia.

Un’adeguata politica sanitaria che ridia dignità al malato, garantisca un accesso alle cure e soprattutto che metta al centro una politica sanitaria basata sul benessere e la prevenzione, non può far a meno di alcuni passaggi fondamentali tra i quali:


· centralità della prevenzione e della promozione della salute in tutti gli aspetti della vita e del lavoro;

· prestazioni sanitarie efficaci e accessibili a tutti, senza vincoli di cittadinanza;

· finanziamento del settore sanitario basato sulla fiscalità generale;

· incompatibilità della sanità con le logiche del mercato e della privatizzazione;

· ruolo attivo delle persone nei propri percorsi di cura e nella definizione delle politiche di salute.


Una sanità, insomma, che non si limiti a erogare passivamente servizi e prestazioni, ma che sia attiva nel comprendere i bisogni di salute della popolazione e nel garantire programmi condivisi di prevenzione e promozione della salute. È indispensabile che la presa in carico della persona sia multiprofessionale e multidisciplinare, integrando sistema sanitario e socio-assistenziale e che si riparta dalla formazione dei professionisti, per sviluppare contenuti e competenze per un approccio globale alla persona. La localizzazione delle strutture sanitarie deve essere il frutto di questa metodologia di programmazione e non legata soltanto alle pratiche campanilistiche e clientelari.


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Stefano Ammirato, Gianmarco Cantafio, Alessandro Gaudio, Gennaro Montuoro fanno parte della redazione di «Malanova», progetto militante che si pone l’obiettivo di costruire una rete di informazione e approfondimento a partire dai territori del Sud.


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