di Stefano Ammirato, Gianmarco Cantafio, Alessandro Gaudio, Gennaro Montuoro
Scrivere un controdizionario sulla militanza, dicevamo nella prima nostra pubblicazione su «Machina», non significa salire in cattedra e spiegare alcunché. Il senso di questo lavoro è assai più modesto. Come collettivo redazionale di «Malanova» ci interroghiamo costantemente sulla fase storica e sull’evoluzione di molte soggettività politiche, fino a porci alcune domande riguardo all’agire politico nella contemporaneità. Continuiamo a indagare le ragioni di fondo contenute nelle rivendicazioni sociali e politiche che albergano in ciò che resta del cosiddetto «movimento», tentando di inquadrare il problema nella fase storica attuale. Constatiamo come alcune pratiche mirino a procrastinare semplicemente ciò che è inevitabile o inesorabile. In questi tentativi di inchiestare il territorio attraverso una prospettiva che tenti di cogliere la complessità in atto, nelle sue ambivalenze e nelle inevitabili contraddizioni, ci siamo convinti del fatto che i territori non sono tutti uguali, ma ugualmente ambìti come terreno per mercificare ogni singola risorsa. Al Sud in particolar modo, dove i processi di valorizzazione del capitale passano spesso per forme primitive di esproprio, spossessamento e colonizzazione delle risorse territoriali.
Abbiamo quindi optato per un lavoro di disarticolazione e contronarrazione dell’agire il «conflitto», cercando quelli che, a nostro avviso, erano i capisaldi dell’idea stessa di conflittualità e analizzando tutto quello che rimbalzava nei circuiti militanti. Il focus è spesso il territorio calabrese, ma solo come punto privilegiato di osservazione. Ci siamo chiesti quale fosse il significato e il senso che oggi assumono concetti come militanza, conflitto, radicalità e incompatibilità, bilanciando le considerazioni all’interno di uno schema che avesse come unico orizzonte l’individuazione di ipotesi o di momenti di reale rottura con il sistema dominante, attraverso un’operazione di decostruzione narrativa, quali siano le reali traiettorie delle azioni intraprese. Abbiamo notato che, al di là di un frasario altisonante e delle rivendicazioni radicali, spesso le traiettorie hanno assunto un andamento involutivo.
Questo nostro terzo intervento su Machina, introduce ulteriori tre voci che, nell’avanzare in senso rigorosamente alfabetico, affronta ciò che si addensa intorno a Casa, Confindustria e Conflittualità. Le voci, quasi tutte redatte tra il 2020 e il 2021, non devono in nessun caso essere lette come dei lemmi e vanno ad arricchire il nostro controdizionario, ossia un dizionario che mette in discussione se stesso.
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Casa
Sarebbe quasi scontato dire che ogni sconvolgimento e ogni crisi portano a galla le più grosse contraddizioni del sistema che vanno a colpire: il problema è che, quando si porta all’attenzione questa ovvietà, si assiste a uno sguainar di spade e a un levarsi di scudi in difesa dell’azione politica che ha determinato le condizioni critiche o, nella peggiore delle ipotesi, al solito balbettio di chi non ha idea di cosa dire. Questo succede spesso non tanto per difendere un’idea o una visione politica ma, semplicemente, per coprire le pudenda di una classe politica incapace e completamente supina a esigenze diverse rispetto a quelle della collettività.
La crisi economica post-pandemica non solo non fa eccezione ma, vista la vastità della sua portata, si preannuncia come «la tempesta perfetta», ossia una combinazione di fattori fortuiti che aumentano l’uno la portata devastante dell’altro. Per capire quali sono questi fattori dobbiamo partire da alcuni elementi introdotti nel sistema normativo attuale, i quali generano una serie di contraddizioni macroscopiche nei nostri territori. Una di queste contraddizioni soggiace all’interno del dibattito istituzionale, nel quale impera una coscienza ecologico-ambientalista di cartapesta che strologa di consumo di suolo zero, facendo risaltare questo slogan nei documenti ufficiali, negli strumenti strategici della pianificazione urbana; in realtà, l’unico zero che abbia un senso è il livello di adempimento a quello slogan.
Il perché di questo atteggiamento ambiguo è presto detto: c’è bisogno di essere credibili mentre si gira col cappello in mano per svendere il territorio al peggior offerente. I processi che hanno trasformato gli enti locali in mendicanti si chiamano Patto di stabilità (1997 e successive modifiche), modifica della fiscalità comunale, Fiscal compact (2012), che ha poi portato all’introduzione dell’assurdità per eccellenza del Pareggio di bilancio in costituzione (2014); questi processi, soprattutto a livello locale, hanno provocato forti squilibri indebolendo la capacità di spesa degli enti locali e dei comuni.
Una delle prime conseguenze, causate soprattutto dalla modifica della fiscalità comunale, è stata una forte riduzione delle entrate: ciò, unito all’impossibilità di indebitarsi, ha consegnato i territori comunali al ricatto degli immobiliaristi, i famosi stakeholder che ogni programma di ridefinizione urbana tiene in debita considerazione. Vengono tenuti così tanto in considerazione che i programmi vengono redatti ascoltando le loro necessità di investimento. Ciò può accadere in quanto uno dei più consistenti introiti sui quali le anemiche casse dei comuni possono contare è fornito dagli oneri di urbanizzazione (primaria e secondaria) a seguito di piani di lottizzazione conseguenti all’approvazione di strumenti urbanistici «strategici». Peccato che l’unica strategia che riescono a mettere in piedi sia legata alla possibilità per gli enti locali di svendere il territorio alla speculazione immobiliare, derogando quanto basta per consentire una cubatura appetibile, capace di attivare la macchina del cemento; analogo discorso per le grandi opere e tutte quelle operazioni che utilizzano leve finanziarie e meccanismi speculativi a scapito delle comunità locali (A. Ziparo, Emergenze ambientali e territoriali: anche nel Mezzogiorno la svolta innovativa deve arrivare dal basso, consultabile all’indirizzo http://www.osservatoriodelsud.it/2018/02/18/emergenza-ambientali-territorialianche-nel-mezzogiorno-la-svolta-innovativa-deve-arrivare-dal-basso).
Un altro nodo, che è venuto al pettine in conseguenza dei mancati introiti, è costituito dagli investimenti nella salvaguardia del territorio e nel mantenimento dei servizi essenziali; tra questi spunta il diritto all’alloggio, con tutto il portato sociale che il servizio reca con sé. Soprattutto in una fase come quella che si sta aprendo, che sarà caratterizzata da una consistente riduzione della domanda in termini di consumi a causa della contrazione dei redditi, in particolare nelle fasce medie e medio basse del corpo sociale, la garanzia di un tetto per chi vive in affitto comincia a essere una grossa incognita (G. Cantafio, Chi pagherà lo scotto?, «Umanità Nova», consultabile all’indirizzo https://www.umanitanova.org/?p=12154).
Le toppe multicolori che il governo sta cercando di mettere a una coperta troppo corta non bastano a risolvere il problema e non fanno altro che procrastinare l’inevitabile esplosione delle contraddizioni accumulatesi negli ultimi lustri. Bloccare i decreti di sfratto esecutivo non può bastare e iniettare qualche spicciolo nel mercato degli immobili in affitto potrà servire a limitare le perdite per le grosse società immobiliari, ma non può essere una soluzione. Ecco quindi che inciampiamo in un paradosso, il primo di una lunga serie: da un lato, abbiamo un patrimonio immobiliare sia pubblico sia privato assolutamente vuoto, in disuso e semplicemente chiuso che supera ampiamente la domanda di alloggi attuale e supererebbe perfino la domanda che a breve giungerà: si parla di circa 7 milioni di immobili di varia natura vuoti (R. Battaglia, Stop al consumo di suolo: le case ci sono, non ne servono altre, consultabile all’indirizzo https://valori.it/stop-consumo-suolo-case-ci-sono). Dall’altro lato, abbiamo persone che non hanno un alloggio, comuni che non conoscono la reale consistenza del loro patrimonio, che non assegnano o che non mantengono, e lo Stato che elargisce qualche spicciolo per non far perdere la casa in affitto a un numero crescente di famiglie. In questo paradosso, di chi praticamente muore di sete con una bottiglia d’acqua in mano perché non ha idea di come aprirla, c’è tutto il portato di quelle contraddizioni cui la politica ci ha da tempo abituati, con in più l’alibi dei bilanci bloccati e della penuria di fondi.
In un momento in cui si potrebbe approfittare dello shock da pandemia per ripristinare i princìpi minimi e mettere in discussione il patto di stabilità, il pareggio di bilancio e il fiscal compact, si preferisce tornare a legarsi mani e piedi a quei meccanismi che aumenteranno l’efficacia e l’efficienza delle politiche liberiste per dare il colpo di grazia a quel poco di welfare che resta. Già diversi comuni hanno immaginato di mettere sul mercato buona parte del patrimonio degli alloggi popolari, nella speranza di fare cassa, con la prospettiva di avviare programmi di social housing gestiti da privati e sovvenzionati dal pubblico. Inutile dire che, vista la crisi del mercato immobiliare in arrivo, sarebbe un boccone ghiotto per i soliti noti, magari gli stessi che avevano fatto incetta di unità immobiliari per farne B&B nelle città universitarie o turistiche.
A fronte di un patrimonio immobiliare sterminato, che potrebbe essere rimesso in sesto con una spesa forse minore rispetto a quella attualmente destinata per sostenere il mercato degli affitti, si potrebbe mettere in sicurezza una grossa fetta di società che sta in bilico sul baratro della povertà. Inutile ricordare quanto il valore sociale di un alloggio sicuro, che non erode buona parte del reddito già scarso, possa significare all’interno di una prospettiva di precarizzazione dell’esistenza; essere un po’ meno ricattabili rispetto a offerte di lavoro impietose.
Il contraccolpo economico generato dal blocco forzato delle attività commerciali e produttive (lungi dall’essere orizzontale e colpire tutti allo stesso modo) scoperchierà un vaso di Pandora di proporzioni titaniche; l’atavica inefficacia dell’azione politica però, tutta appiattita su istanze di salvaguardia di interessi economici immediati, non riuscirà a cogliere l’occasione per scrollarsi di dosso i legacci delle politiche liberiste, perché quei precipui interessi derivano e traggono la loro forza di coercizione esattamente da quel corpus normativo che ha sancito nero su bianco la supremazia della ragion di mercato sulla sopravvivenza e la capacità di riproduzione della società.
Le contraddizioni, per quanto macroscopiche, saranno sempre offuscate da una cortina fumogena di finti problemi su questioni di lana caprina: è a questo che serve il teatrino della politica di intrattenimento e da avanspettacolo, un circo per distrarre e fabbricare consensi sempre più effimeri, creando nemici dal nulla. La pandemia sta in qualche modo indicando il vero nocciolo del problema, come un dito ossuto che indica la Luna: noi cosa stiamo realmente guardando?
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Confindustria
È dell’8 aprile 2020 la lettera aperta recante «Le proposte di Confindustria Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte e Veneto» nella quale, dietro i consueti toni concilianti, si mette in guardia il paese sulle possibili conseguenze catastrofiche del blocco delle attività industriali, inserendo la minaccia non troppo velata dell’impossibilità di pagare gli stipendi dei prossimi mesi.
Ma da quanto tempo sono chiuse certune attività industriali? Dopo alterne contrattazioni, la chiusura reale di parte delle attività produttive – quelle quindi non essenziali alla sussistenza della popolazione e all’emergenza sanitaria – si è avuta il 28 marzo 2020. Quindi, dopo soli undici giorni di chiusura, Confindustria tuona contro il provvedimento, con alcune proposte che dimostrano in cosa consista il reale interessamento per la salute degli operatori, per le loro famiglie e per la diffusione del virus. Nelle proposte si chiede di:
· mettere le imprese nelle condizioni di reperire tutti i dispositivi di protezione individuale e garantire il loro approvvigionamento mediante un agevole percorso di fornitura che passi da un flusso costante e prioritario nelle procedure doganali;
· velocizzare il percorso di autorizzazioni da parte dell’Iss per i dispositivi prodotti in deroga alle normative sanitarie, ma che dimostrino requisiti di protezione soddisfacenti;
· mettere in campo un pacchetto di misure di finanziamento a fondo perduto che supportino gli investimenti delle imprese nella sicurezza basato su alcune linee d’azione fondamentali: adozione di protocolli di sanificazione degli ambienti di lavoro; ripensamento degli spazi lavorativi per ridurre al minimo i contatti tra le persone; nuova mobilità da e per i luoghi di lavoro e all’interno dei siti produttivi; ricorso allo smart working (Il documento originale è consultabile all’indirizzo https://confindustria.lombardia.it/comunicazione/comunicati-stampa-e-dichiarazioni/agenda-per-la-riapertura-delle-imprese-e-la-difesa-dei-luoghi-di-lavoro-dal-covid-19/08-04-2020-documento-confindustrie-del-nord_def.pdf).
In soldoni, si chiede un corridoio preferenziale per le dotazioni di sicurezza – prima le aziende e poi la sanità evidentemente – e occhi chiusi sulla qualità del materiale. L’ultimo e più interessante punto è la richiesta esplicita che la collettività si faccia carico delle spese per la sicurezza sui luoghi di lavoro e della conversione in remoto del lavoro (smart working). Così, tutti gli obblighi di legge sulla sicurezza dei lavoratori li paga qualcun altro. Insomma, si chiede: fateci riaprire, dateci tutto quello che serve per dire che siamo in regola e pagateci la riconversione a smart working.
Quando Adam Hanieh sostiene che «il capitale coglie spesso i momenti di crisi come un’opportunità, per attuare un cambiamento radicale precedentemente bloccato o apparentemente impossibile» (A. Hanieh, Questa è una pandemia globale: trattiamola come tale, «Malanova», 9 aprile 2020, traduzione a cura della redazione, consultabile all’indirizzo https://www.malanova.info/2020/04/09/questa-e-una-pandemia-globale-trattiamola-come-tale/), ecco quindi che l’emergenza delle emergenze si trasforma in una ghiotta opportunità per spalmare sull’intera società l’inerzia del comparto industriale. La crisi economica non è ancora né arrivata né è possibile quantificarla ma, forti dell’esperienza del 2008, si sta già cominciando a farla pagare ai soggetti più deboli.
Dovrebbero risultare assai stonate certe affermazioni della Cna (Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa) del 22 marzo 2020, nelle quali si ricorda quello che è ormai un dato di fatto: «la complessità delle filiere, l’elevato livello di esternalizzazioni da parte di tutte le imprese, la profonda integrazione del sistema produttivo», tutti elementi che «rendono alquanto complicato definire le attività essenziali» (F. Bruno, Produzioni essenziali, accordo tra sindacati e Governo: cambia la lista dei codici Ateco, «Innovation Post», 25 marzo 2020, consultabile all’indirizzo https://www.innovationpost.it/2020/03/25/produzioni-essenziali-accordo-tra-sindacati-e-governo-cambia-la-lista-dei-codici-ateco/).
Si tratta dell’esplicita ammissione che l’attuale sistema di integrazione delle attività produttive, basato sul concetto di catene di valore e trade in task, ha in sé punti di estrema debolezza nell’affrontare situazioni critiche. Del resto, uno dei mantra che stanno cominciando a risuonare sui media nazionali è «dobbiamo convivere con questa situazione e abituarci che nel futuro possa ripetersi», quindi chi contribuisce ogni giorno ad alimentare i fattori di rischio (cfr. Cuang, Contagio sociale e Guerra di classe microbiologica in Cina, «Il pungolo rosso», 12 marzo 2020, consultabile all’indirizzo https://pungolorosso.wordpress.com/2020/03/12/contagio-sociale-guerra-di-classe-micro-biologica-in-cina/) scarica sistematicamente la responsabilità sulla parte più fragile, ma numericamente preponderante, della società.
Il comunicato della Cna continua ritenendo «irragionevole che la modifica dell’allegato sia avvenuta sotto la minaccia di uno sciopero e senza il coinvolgimento delle imprese il cui unico interesse, in questa fase di emergenza, è contribuire a combattere il virus» (Bruno, Produzioni essenziali, cit.).
Ci si chiede come sia possibile combattere il virus se, stando a quanto afferma il governo, l’isolamento è l’unico strumento preventivo per mitigare la pandemia. Dall’altro lato, si chiede alle persone di spostarsi e andare a lavorare in ambienti chiusi − e neanche troppo grandi, trattandosi nel caso della Cna di imprese artigiane − con dispositivi di protezione e procedure di profilassi ancora incerte. Com’è possibile affermare di voler combattere il virus facendo l’esatto opposto di quanto prescritto dal Governo? O le misure di isolamento sociale non servono a nulla o a queste si deve derogare per esigenze economiche. Dunque, quale salute sta più a cuore ai governi mondiali: quella sociale o quella economica?
Con questi interrogativi inevasi si potrebbe imbastire un’analisi profonda del sistema socio-economico che ci circonda e nel quale siamo immersi e dal quale dipendiamo. Forse spesso diamo per scontato che ciò che ci circonda non è un dato imperituro e immodificabile; l’accettazione della realtà del mondo come unica possibile è già di per sé qualcosa con la quale cominciare a entrare in conflitto. Porre sul piatto della bilancia la sicurezza economica come questione imprescindibile, capace di surclassare la sicurezza sanitaria e la sicurezza della collettività, dovrebbe suonare come qualcosa di anomalo. Qual è il rischio calcolato o quali sono le perdite accettabili per non arrestare la macchina produttiva? Cosa vi è di accettabile nel sacrificare delle vite, in nome del profitto? In questi mesi stiamo osservando su grande scala e a toni forti quello che è sempre avvenuto da quando si è adottato il modo di riproduzione sociale in senso capitalista. Purché la produzione continui e cresca, possiamo sacrificare il singolo operaio, il singolo reparto ma, se la situazione lo richiede, possiamo sacrificare il territorio, devastandolo con l'inquinamento (dall’Ilva alla Montedison di Marghera passando per Seveso, Crotone e la Marlane, i casi di impianti devastanti non si contano). La pandemia è figlia del pensiero della produzione innanzitutto, costi quel che costi. Abbiamo già barattato tutto per la produzione: proprio per questo, nessuno sembra troppo sconvolto quando non si può portare a spasso il cane, ma ci si ammassa nelle metropolitane per andare a produrre. Per questo “semplice” e basilare motivo le domande di cui sopra resteranno sospese ancora a lungo a mezz’aria. Non in quanto non vi sia una risposta plausibile, ma perché in molti non riescono a coglierne l’essenza perché si dovrebbe mettere in discussione la realtà per come siamo abituati a vederla e a concepirla.
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Conflittualità
Se il modello capitalista è l’unico possibile, allora c’è una sola possibilità, quella di renderlo «più umano» riformandolo laddove necessario, ma nulla di più. Persino i partiti che continueranno, con una certa mal dissimulata vergogna, la storia delle grandi organizzazioni socialcomuniste, cambieranno nome più volte (facendo progressivamente scomparire termini incresciosi − la C di comunista − e simboli ormai impresentabili − la falce e il martello − seguendo le orme del Democratic Party a stelle e strisce) e si uniformeranno alla litania collettiva, ponendo il libero mercato come unico campo d’azione, magari da «imbrigliare» con molta cautela attraverso qualche espediente legislativo. Persino la Cina «comunista» nel 2001 entrerà nel Wto, dando l’avvio a un capitalismo statale ibridato e autoritario che surclasserà lo storico modello occidentale-statunitense.
Nessuna possibilità di critica allora. La politica, una volta venute meno le ideologie massimaliste e l’equilibrio mondiale dei grandi blocchi, si è trasformata in vassallo della tecnica finanziaria e della schizofrenica volontà dei mercati. Non c’è nulla da rivoluzionare, c’è solo la necessità di gestire il flusso della storia attraverso le ricette globali del neoliberismo che ha provato, almeno in Europa, a coniugare la libertà speculativa dei mercati con la garanzia dei capitali investiti e con gli strumenti dell’austerity come il pareggio di bilancio. Tutto è aziendalizzato. Tutto schematizzato in un’immensa «partita doppia» di dare e avere. I conti devono tornare. Così dal bilancio europeo a quello nazionale, dai conti delle regioni a quelli degli enti locali, dalle università agli ospedali, tutto è gestito secondo i criteri di efficienza, efficacia ed economicità, maldestramente celati dietro parole altisonanti come «sostenibilità» e «competitività». Nell’Azienda Totale, dove si applicano le cure della libera impresa nel libero mercato, tutto è numero. Il bilancio sanitario è in rosso? Chiudiamo qualche ospedale, accorpiamo qualche reparto. Qualcuno morirà? È nella natura delle cose. Il bilancio dei comuni è in rosso? Decretiamo il dissesto, commissariamo, tagliamo i servizi pubblici, blocchiamo il turnover. Spesso però non ci si chiede il motivo per cui l’ente va in perdita o i bilanci segnano rosso fisso. La risposta diffusa rimanda a ruberie e corruzione: verità incontestabile anche se, laddove la longa manus delle consorterie del malaffare non arriva, i comuni e i servizi pubblici registrano comunque perdite e situazioni debitorie. Ciò trova una spiegazione nelle politiche neoliberiste che la Ue ha adottato e imposto agli stati membri. Alcuni addirittura in un eccesso di zelo, hanno fatto entrare lo spirito neoliberista nella propria Costituzione.
Fiscal compact, pareggio di bilancio e patto di stabilità hanno progressivamente impoverito le casse degli enti pubblici e massacrato i servizi, in nome della libera concorrenza e del rinnovamento delle amministrazioni. Una macelleria sociale portata avanti dalla logica del puro tecnicismo economico-finanziario.
Nel mondo normalizzato del dopo guerra fredda, segnato dall’idea di una postmodernità che nega la necessità di visioni utopiche, tacciate di ideologismo e annichilite da una narrazione romantica dell’agire politico, il conflitto di classe, agito da soggettività antagoniste, lascia il posto a una vertenzialità diffusa. Una pseudo-conflittualità basata su rivendicazioni spesso sterili e, anche se multiforme, priva di una reale soggettività autonoma, senza un programma e un approdo, liberamente fluttuante tra una lotta contro questo o quello, senza una visione capace di cogliere le profonde contraddizioni del sistema e collegare le varie stagioni di lotta all’interno di una visione organica. Bisogna sostenere tutti, anzi prima di tutto le aziende che dovranno tornare a produrre così da fornire nuovo lavoro. È un grosso problema ristabilire un rapporto tra operaio e capitalista se entrambi sembrano stare dalla stessa parte per resistere ai capricci dei mercati. È altrettanto difficile riconoscersi e identificarsi come soggetto sfruttato all’interno del sistema di riproduzione capitalista se passa l’esigenza di essere «imprenditori di se stessi», un modo politicamente corretto di definire la forza lavoro con partita iva trattata peggio degli operai a contratto. Siamo tutti sulla stessa barca, certo, ma c’è chi sta ai remi e chi prende il sole. Non importa se del comparto produttivo fanno parte quei soggetti che hanno continuato a guadagnare abbondantemente all’interno di ogni crisi. Non importa che alcuni spicchi di popolazione (l’1%) goda del 90% delle risorse e delle ricchezze mondiali. Siamo tutti sulla stessa barca.
I movimenti di protesta, più o meno spontanei e più o meno organizzati a tavolino (sardine e gilet arancioni appartengono al secondo gruppo) si scagliano contro l’oligarchia politica solo per rivendicare onestà e pulizia, pongono delle domande, segnalano sofferenze, quasi mai però organizzano le risposte; le aspettano invece dai governi, dalla classe dominante, da un ceto politico che, sperano, sia finalmente nuovo e rinnovato. Si tratta, quasi, di un tentativo di formare una domanda fittizia alla quale un soggetto politico possa fornire una risposta. La protesta non diventa altro-da-sé, non si trasforma in critica immanente dell’economia politica, in quanto ha perso la capacità di individuare il luogo delle contraddizioni, di stare dentro le ambivalenze del capitale per costruire rapporti di forza capaci di rompere lo schema produttivo e riproduttivo del capitalismo. Così accade per i movimenti di lotta su specifiche questioni, come ad esempio le crisi aziendali, la precarizzazione del lavoro, le riforme di settore; oppure su temi più generali, come la difesa dell’ambiente, l’antirazzismo o le questioni di genere. Queste forme di movimento possono prodursi spontaneamente o meno, intercettando una parte dei settori popolari sulla base di una protesta che riguarda un tema specifico (cfr. D. Giacchetti, Avanguardie, 6 luglio 2020, reperibile all’indirizzo https://commonware.org/formazione/avanguardie). Uno dei più recenti esempi è costituito dai gilet gialli in Francia o dalla recente sommossa antirazzista negli Stati Uniti. Anche il «movimento» italiano, in preda a una crisi depressiva acuta, si muove sul terreno delle piccole vertenzialità e sul gioco di un’effimera lotta all’egemonia tra aree politiche, riesumando esperienze e pratiche dal passato e incapaci di esplorare appieno le contraddizioni del moderno proletariato, nonché di individuare le nuove possibili linee di tendenza del modo di produzione capitalistico.
Queste visioni di cambiamento si fermano alla superficie, rivendicando semplicemente efficienza amministrativa, amministratori non corrotti e politici meno attaccati alla poltrona. Il tacito assenso al sistema esistente appare chiaro ed è francamente disarmante. Il proliferare di liste «pulite» e «oneste» a livello locale o di un movimento dalle «mani pulite» a livello nazionale, è emblematico di un modus operandi, quello degli outsider, che, con appositi eventi mediatici (i vaffa-day), danno il benservito ai vecchi burocrati. Tutto questo ha preso il posto dei vecchi e tradizionali partiti. È nata così la stagione delle liste civiche o dei «movimenti» che promettono di governare meglio e a favore delle esigenze dei più. Nessuna critica sistemica, nessuna nuova idea sociale (è sufficiente che si proclami «né di destra, né di sinistra»), nulla da rivoluzionare.
Anche a livello locale, molti movimenti, alcuni radicati altri meno, imboccano la via elettorale soprattutto perché vedono esaurirsi un ciclo di lotte durato decenni che non è riuscito a esprimersi con soggettività ampie e radicate. Si sono quindi fatte strada alcune pratiche di ripiego: «visto che il potere è sordo, prendiamo noi il potere», «invece di mediare con i corrotti, andiamo direttamente noi al potere». Un surrogato di contropotere che è figlio della frustrazione e non dell’eccedenza. Una rinuncia de facto al cambiamento di paradigma attraverso le forzature conflittuali: rinuncia giunta dopo la reiterazione di pratiche errate: grandi assembramenti per mostrare i muscoli all’interno del movimento antagonista in una smania egemonica da cani randagi e grandi cortei variopinti che hanno portato in piazza tutto e il contrario di tutto, in una moltitudine destrutturata che somiglia sempre più a una sommatoria di vertenze. Di stagione in stagione, tra autunni sempre più tiepidi e minestre riscaldate, la frustrazione ha insidiato le analisi fino al collasso finale e alla fuga verso le urne. Il tutto nella medesima triste convinzione che basti cambiare il pilota per far funzionare al meglio la macchina e indirizzarla verso i lidi sperati, senza approfondire il discorso sui meccanismi e le regole interne che costringono la macchina sugli stessi binari, a prescindere dal macchinista. Si apre la stagione delle «giunte di movimento» che spesso cedono sotto il peso di comuni che versano in uno stato comatoso e in dissesto o stritolati dalle gabbie neoliberiste del pareggio di bilancio.
In Calabria, c’è l’esempio, per molti aspetti significativo, del cosiddetto modello Riace. Tre mandati, quindi molti anni di governo spesi nel tentativo di lasciare un segno alternativo su alcuni aspetti cruciali: dai migranti al servizio idrico, dai rifiuti all’utilizzo della moneta locale, tutti tentativi che sembrano non aver lasciato traccia nella popolazione locale (o nella maggior parte di essa) che ha voltato le spalle al suo sindaco Mimmo Lucano e, nelle ultime elezioni, accordando totale fiducia allo schieramento antagonista innestato alla Lega di Salvini. Il risultato ha fatto scalpore anche a livello nazionale facendo ripiombare la cittadina reggina nell’anonimato amministrativo dei comuni vicini. Cosa non avrà funzionato? Perché Riace è stato un modello per tanta parte della cosiddetta sinistra italiana e internazionale, ma non lo è stato per i suoi cittadini che con tanta facilità hanno cambiato casacca? Non sarà forse che la narrazione della realtà ha esautorato la realtà stessa? Non sarà che l’immaginario paese felice dell’integrazione era più nei racconti che nella quotidiana realtà di paese? Forse perché è proprio il concetto di «integrazione» che andrebbe messo in discussione? Il virtuosismo sociale e l’autosostenibilità del «progetto Riace» nella realtà non sono mai esistiti ed è bastato chiudere i rubinetti dei finanziamenti per avere il voltafaccia dei cittadini riacesi. Anche volendo individuare, invece, un esempio più distante, passando dalla Magna Grecia alla madre patria, possiamo constatare come Tsipras, pur disponendo di pieni poteri, non sia riuscito ad avviare alcuna politica riformatrice e a invertire la rotta rispetto ai governi precedenti.
Non basta la conquista del potere, la vittoria delle elezioni, se non c’è una reale soggettività autenticamente autonoma capace di sovvertire il presente. Si ricordi che le più grandi conquiste del movimento operaio italiano nella seconda metà del Novecento arrivarono senza un partito di riferimento al governo del paese. Se questi assunti sono veri, sarebbe allora opportuno ricalibrare il lavoro, elaborare finalmente la sconfitta storica, guardare in faccia la realtà e provare a osare tornando a pronunciare parole impronunciabili: quelle che alludono alla necessità di una rottura radicale rispetto al sistema capitalistico e non soltanto a una sua riformabilità.
Oggi più che mai, dopo mesi di chiusura a causa di un virus generato da un sistema predatorio, con il dramma dei cambiamenti climatici, con la consapevolezza dell’iniqua distribuzione delle ricchezze, abbiamo la certezza che il capitalismo ha fallito su tutti i fronti. Non è stato in grado di produrre quel paradiso in terra che aveva promesso.
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