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Come Mazinga e Pac-Man ci hanno fatto diventare raver



In questo saggio (pubblicato nel volume Anni Ottanta, curato da E. Laurenzi e F. Violante, di recente edito da manifestolibri), Emiliano Ilardi analizza le trasformazioni avvenute tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta attraverso i mutamenti delle sonorità, dei riti e delle mode musicali. A fare da sfondo a queste nuove identità fatte di rave, tappeti sonore e bassline sono soprattutto le periferie post-industriali di alcune grandi metropoli europee e americane (Manchester, Londra e Detroit su tutte). Lì può essere misurata la crisi delle identità, del senso e del tempo legati alle tradizionali culture di classe e del lavoro.


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«I videogiochi non influenzano i bambini. Voglio dire, se Pac-Man avesse influenzato la nostra generazione staremmo tutti saltando in sale scure, masticando pillole magiche e ascoltando musica elettronica ripetitiva». Questa affermazione, pronunciata nel 1989 da Kristian Wilson, manager della Nintendo (ma l’attribuzione, in realtà, è incerta), ha funzionato per tutti gli anni Novanta del secolo scorso come una sorta di meme ante litteram in cui si è identificata la prima generazione di ravers. Una generazione che, soprattutto in Italia, si è percepita come completamente diversa dalle precedenti non solo perché ascoltava e ballava musica techno (e non il rock o la disco), utilizzava droghe sintetiche (e non erba o eroina) e si riuniva per far festa in mega-discoteche e fabbriche abbandonate (e non nei concerti); ma anche (e soprattutto) perché si sentiva figlia degli anni Ottanta: di Pac-Man (uscito proprio nel 1980) e delle sale giochi, del sintetizzatore utilizzato per le sigle dei cartoni animati giapponesi e della Italo-Disco, della metropoli e delle sue periferie post-industriali. Non è un caso che a Roma, nella seconda metà degli anni Novanta, accanto ai rave legali e illegali, sono diventate un successo inaspettato le serate danzerecce del Torretta Style con i dj Luzy L e Corry X che, accanto alle hit sinth pop degli anni Ottanta, proponevano le sigle dei cartoni animati, dei programmi televisivi e dei videogame più emblematici del decennio. E non è un caso che tutti i più importanti dj degli anni Novanta renderanno tributo ai videogiochi della loro infanzia remixandone i jingle più famosi e convertendoli in successi mondiali (Tetris, Pac-Man, Pong, Mario Bros, Bubble Bubble ecc.). Nessuna continuità quindi con le culture musicali precedenti (se non forse un forte debito riconosciuto nei confronti del Punk e del Rap): l’essere cresciuti negli anni Ottanta ha reso quei bambini e quegli adolescenti completamente diversi perché diversi erano i media e i contenuti che consumavano.

Solo studiando cosa avviene tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta si può capire perché una intera generazione all’improvviso, a partire dal 1989, abbandona suoni, riti e mode del passato per abbracciare una nuova sonorità totalmente macchinica e inumana (o postumana), che rifiuta il tempo cronologico del loisir imposto dal mercato e dall’industria culturale (una traccia techno non è una canzone, esattamente come un rave non è un concerto visto che entrambi potenzialmente possono durare all’infinito) e il linguaggio verbale come portatore di senso (nella techno non ci sono testi). Gli anni delle assemblee, dei dibattiti, delle lunghe riflessioni (soprattutto politiche) della generazione precedente sono finiti; adesso al centro c’è un corpo che vuole BPM, tappeti sonori, e bassline e non parole; anche perché si deve godere il presente e non gli interessa progettare il futuro. E non è un caso che saranno proprio le periferie post-industriali e depoliticizzate di alcune grandi metropoli europee e americane (Manchester, Londra e Detroit su tutte) a fare da sfondo a questi corpi.

La Detroit degli anni Ottanta in cui crescono i pionieri della musica techno Derrick May, Kevin Saundersen, Juan Atkins, Jeff Mills, Richie Hawtin è caratterizzata da un centro svuotato dalla crisi dell’industria pesante, palazzi abbandonati e fatiscenti, costruzione di sobborghi periferici socialmente ed etnicamente omogenei, collasso di qualsiasi relazione sociale basata sulla comunità. «In nessun altro luogo al mondo si riesce a percepire il trend del nuovo ciclo industriale come qui a Detroit. In questo senso è la città più moderna che esista, la città del domani. Non c’è passato, non c’è storia. Non ci sono tradizioni non ci sono manufatti creati nel tempo libero o che riflettono in profondità gli umori della gente» (Attimonelli 2018, p. 170). È in questo vuoto assoluto di senso, prodotto dalla crisi del lavoro salariato industriale, che marginalità etniche, sociali e di classe individuano nella musica l’unico strumento di identità e di espressione, l’unica alternativa alla condanna del lavoro salariato in fabbrica o dell’appartenenza a qualche gang criminale. Ed è in questo vuoto, inoltre, che è possibile sperimentare in assoluta libertà, dove il concetto punk del Do It Yourself può essere portato alle estreme conseguenze. Qui è molto facile scrollarsi di dosso purismi, rigidità di generi, pentagrammi, schemi predefiniti. Si può perfino ricominciare da capo. La musica si spazializza e costruisce uno spazio alternativo, il luogo in cui immaginare il presente-futuro della metropoli e nuove forme di socialità urbana autonome da Stato e Mercato. E la musica acid e techno degli anni successivi sarà soprattutto una rivoluzione spaziale in cui il tempo, scandito dagli infiniti BPM della cassa, si annulla e diventa una mera funzione dei nuovi spazi, anticipando la ormai classica teoria del «tempo senza tempo» di Castells (2002) riferita alla network society: le nuove spazialità fluide del nomadismo notturno, dei club, dei rave, delle fabbriche abbandonate, delle street parade ecc. Vivere nel vuoto sociale delle periferie urbane degli anni Ottanta, senza storia né memoria, il fatto di non avere nulla da perdere, l’assenza di speranza di mobilità sociale, la mancanza di qualsiasi preparazione musicale e quindi di schemi prestabiliti permettono a proletari e sottoproletari di Manchester e ai gay, italoamericani e afroamericani di New York, Chicago e Detroit di avere un rapporto totalmente libero sia verso il patrimonio musicale del passato, sia verso ogni tipo di suono o rumore che proviene dalla metropoli e i suoi media, sia verso l’innovazione tecnologica.

Tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, insomma, si produce da una parte, una rivoluzione spaziale, dall’altra, una rivoluzione del panorama sonoro soprattutto per chi era bambino e adolescente. Mentre i loro padri ancora ascoltano musica rock, i bambini di quel periodo rovinano, a forza di farli girare nei mangiadischi, i 45 giri delle sigle di Mazinga, Goldrake o Gundam e si stordiscono con le loro basi ritmiche ripetitive, un uso massiccio di sintetizzatori e vocoder, e una bassline già molto potente e pompata. Quei bambini che la mattina vanno a scuola armati degli schiacciapensieri della Polistil e degli orologi digitali Casio multiuso con calcolatrici e videogiochi incorporati che non smettono mai di fare beep; e il pomeriggio, dopo aver visto i cartoni animati e la giornaliera puntata di Deejay Television dove la Italo-Disco e il sinth pop inglese la fanno da padroni, giocano con tutta una nuova serie di giocattoli che emettono suoni elettronici (strumenti musicali, bambole, robot o giochi di abilità come il Simon) o con le nuove console di videogame (Atari, Intellivision fino ad arrivare al Commodore 64 il primo Pc casalingo di successo, ma utilizzato quasi esclusivamente per i videogiochi) che iniziano a diffondersi nelle case proprio all’inizio degli anni Ottanta.

Questo nuovo panorama sonoro elettronico e protodigitale, quindi, non deriva tanto dall’industria musicale del periodo, quanto piuttosto da una tecnologizzazione degli oggetti di consumo e del tempo libero della generazione nata negli anni Settanta che non si ritrova più con gli amici al campetto per tirare calci a un pallone, ma gioca a calcio dentro casa… con la console dei videogame; oppure passa i pomeriggi al chiuso, nelle sale giochi che a partire dagli anni Ottanta spuntano come funghi in tutti i quartieri, soprattutto periferici, delle grandi città. Le colonne sonore dei primi videogiochi, create da veri e propri pionieri della musica elettronica come Rob Hubbard, cominciano già ad assumere in questo periodo la forma di tracce di musica techno (si pensi ad esempio alla mitica Commando del 1985): ripetitive, senza un inizio o una fine identificabili, totalmente elettroniche. Ripensandoci a posteriori, una sala giochi dei primi anni Ottanta può essere tranquillamente accostata a quello che sarà poi un tipico club di musica techno: immersione totale in un ambiente chiuso e oscuro, con la nebbia artificiale dei fumi delle sigarette, caratterizzato da una mescolanza di bagliori di tutti i tipi e da una molteplicità di suoni elettronici avvolgenti, ripetitivi e sparati a tutto volume. Non solo: gli arcade delle sale giochi obbligano il giocatore a un movimento continuo e robotico di tutte le parti del corpo, contengono una risposta corporea a uno stato semi-ipnotico dovuto proprio all’interazione col gioco. Divertirsi con i videogame degli anni Ottanta, insomma, è un po’ come ballare. Ed è proprio a questi movimenti videoludici che, in parte, si devono essere ispirati i neri del Bronx che, proprio in quel periodo e magari appena usciti da una Amusement Arcade, si esibiscono in strada ballando la breakdance su basi potentemente elettroniche e con movimenti secchi, ipnotici, surreali e robotici che li fa assomigliare a un branco di di Pac Man che, trovando lo schermo troppo stretto, decide di uscire dal gioco per riversarsi nelle strade del ghetto.

È solo, quindi, dopo un allenamento decennale ai nuovi suoni elettronici, quando l’etere si è impregnato totalmente di queste sonorità, che la musica elettronica può staccarsi dal supporto visuale o materiale (sia esso un giocattolo, un videogioco o un cartone animato) e diventare un genere autonomo, la techno music. Solo quando, alla fine degli anni Ottanta, si verifica questa saturazione, il sensorio delle nuove generazioni è in grado di impadronirsi totalmente dei suoni elettronici, giocarci, manipolarli e farli diventare la base dell’ultima vera e propria cultura giovanile di massa di fine millennio: la cultura rave. La musica techno, quindi, rappresenta il completo assorbimento dei meccanismi percettivi dei suoni elettronici da parte della generazione degli anni Ottanta e prefigura l’avvento delle nuove generazioni digitali. Tanto che si potrebbe affermare che noi occidentali siamo precipitati nel digitale prima con le orecchie (udito) e solo in un secondo momento con gli occhi (vista).



Bibliografia

C. Attimonelli, Techno. Ritmi Afrofuturisti, Meltemi, Roma 2018.

M. Castells, La nascita della società in rete, Università Bocconi, Milano 2002.

E. Ilardi E., Ian Curtis is not dead. Dalla Factory Records ai rave nelle factories, in A. Amendola – L. Barone, a cura, Our vision touched the sky. Fenomenologia dei Joy Division, Rogas, Roma 2021.

E. Ilardi – T. Lucci, Dal Joystick allo Scratch: come i videogiochi hanno rivoluzionato la musica elettronica, in G. Boccia Artieri – A. Ceccherelli, a cura, Videomondi, Liguori, Napoli 2008.

S. Reynolds, Energy Flash. Viaggio nella cultura rave, Arcana, Roma 2010.



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Emiliano Ilardi insegna Media Studies e Digital Storytelling e Sociologia della comunicazione e dell’immaginario presso l’Università di Cagliari dove è anche coordinatore del Corso di laurea in Innovazione sociale e comunicazione. Svolge da anni attività di ricerca nei campi della sociologia dell’immaginario (soprattutto letterario, audiovisivo e musicale), della sociologia urbana, della comunicazione e valorizzazione dei beni culturali e della didattica sperimentale attraverso l’uso di tecnologie digitali. Tra le sue più recenti pubblicazioni in volume: Figure del controllo. Jane Austen, Sherlock Holmes e Dracula nell’immaginario transmediale del XXI secolo (scritto con A. Ceccherelli, Meltemi 2021), Giovani e immaginari. Rappresentazioni e pratiche (scritto con V. Cuzzocrea e A. Lovari, Meltemi 2022).

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