Patrice Levasseur, Voyage au temp mort, 1996
Serrande abbassate, silenzio fra calli deserte, sguardi persi a mezz’aria. Sono le immagini che in questi giorni di semi-lockdown ci giungono dalla città lagunare. Immagini che stridono con quelle cui eravamo abituati fino a un attimo fa: ai volti arrossati di turisti dalla pelle diafana, alle lunghe code, all’estrema densità di corpi stretti in uno spazio troppo angusto. Eppure, sotto la patina dell’overtourism che la colmava, Venezia era già una città svuotata dai suoi abitanti, svenata da decenni di inesorabile spopolamento. Un processo che per la prima volta viene raccontato e spiegato nella sua complessità da un libro di Clara Zanardi, antropologa, recentemente edito da Unicopli, La bonifica umana. Venezia dall’esodo al turismo, di cui di seguito si propone un breve estratto.
«A Venezia è inutile invocare la storia: ogni sforzo di immaginazione è vano perché il presente si annulla da solo, quasi non esistesse, tanto il passato è onnipresente, dilagante, denso, come molle limo nel quale si sprofonda». Sono le parole con cui Braudel, il grande storico, descriveva la difficoltà di confrontarsi con la smisurata densità simbolica delle vicende veneziane. Talmente tanto, infatti, è stato detto e narrato sulla Serenissima, che l’orizzonte dell’analisi e del racconto sembrano ormai saturi. Tuttavia, se solo ci si sforza di guardare alla contemporaneità di Venezia, alla sua carne viva e alle sue pulsanti contraddizioni, ci si accorge di quanto in realtà ancora si stenti a individuare una qualche visione di sintesi dei processi evolutivi che l’hanno interessata, trasformandola nella realtà che noi oggi conosciamo. È perciò da tale lacuna che nasce questa ricerca, mossa da un interrogativo che, per quanto semplice, rimaneva senza risposta: come è potuto accadere ciò che è accaduto? Ovvero come ha potuto Venezia, che negli anni Cinquanta era una città sovraffollata, popolare e con una economia diversificata, trasformarsi nell’arco di soli pochi decenni in una caricatura turistica? Come è possibile che una civiltà anfibia millenaria si percepisca oggi gravemente in pericolo e sia costretta a lottare anche solo per salvaguardare nicchie di sopravvivenza?
Attraversandola così com’era fino a pochi mesi fa, la risposta sembra scontata: se Venezia muore, ciò accade per soffocamento, a causa di un turismo di massa sempre più invasivo. Tuttavia, è una soluzione troppo semplice per essere vera. Il turismo non esaurisce infatti né la storia, né probabilmente il futuro della città, come la recente pandemia ha brutalmente messo in evidenza. Piuttosto, esso costituisce l’ultima fase di un movimento trasformativo secolare, sul quale ha esercitato una formidabile azione catalizzante, accelerando una serie di fattori e processi già presenti nella struttura urbana e nella sua configurazione socio-politica. Per comprendere il volto attuale della città è quindi necessario scavare in un passato più remoto di quello in cui la sua turistificazione è avvenuta, alla ricerca delle tendenze di lungo periodo che ne hanno progressivamente destrutturato la poli-funzionalità e l’eterogeneità economica. Un processo reso possibile dalla negazione della peculiare natura anfibia del luogo e dalla sua ri-funzionalizzazione secondo direttrici esclusive di uso: in una prima fase come area residenziale di lusso e prestigiosa sede di rappresentanza, in tempi più recenti come destinazione turistica.
Al centro di questa storia si trova il drammatico spopolamento della città d’acqua, comunemente indicato con il termine «esodo», che ha avuto il proprio acme negli anni Cinquanta, determinando in pochi decenni il trasferimento di oltre i due terzi dei veneziani in terraferma. In un tempo molto breve, la città storica si è infatti ritrovata con poco più di 50.000 abitanti e una fisionomia sociale ed economica interamente stravolta. Ciò non è accaduto però in un unico, grande evento, ma si è dipanato attraverso una pluralità di esodi, susseguitisi nel corso di circa ottant’anni. Una complessità che spesso si è preferito appiattire, limitandosi a spiegare il fenomeno come l’esito di una serie di scelte individuali, di chi era alla ricerca di un migliore tenore di vita o di una condizione più moderna di esistenza, quale quella che la terraferma sembrava offrire, presentandosi come più «normale». Si tratta però di un’interpretazione parziale, che tende a occultare tutti quei fattori strutturali di matrice economica, politica e sociale che hanno incentivato il processo. Se la ricerca di uno stile di vita più moderno può aver realmente condizionato gli individui nella decisione di emigrare, infatti, essa si inscrive pur sempre all’interno di un determinato contesto ambientale, fatto di disposizioni normative, condizioni di mercato, convenienze economiche, situazioni abitative, un certo livello di qualità dei servizi urbani.
Quella dell’esodo è quindi una storia complessa, ma fondamentale per comprendere la città contemporanea. Proprio ora, nella stasi del consueto business provocata dal coronavirus, di fronte alle calli surrealmente vuote e alle serrande abbassate, più urgente che mai si è imposto il bisogno di comprendere come Venezia abbia potuto spopolarsi in modo così massiccio e in tempi così rapidi. Scioltosi come nelle inquadrature di Visconti il belletto dei suoi milioni di utenti di passaggio, la città è stata infatti finalmente costretta a confrontarsi con se stessa, con quello che di sé è rimasto, con la sua nuda vita. E ciò che più d’ogni cosa ha colpito e lasciato sgomenti è stato proprio il senso di vuoto, esito ultimo e drammatico di quella «bonifica umana» che nel 1935 Vittorio Cini – uno dei principali artefici dei destini cittadini – aveva proposto come soluzione innovativa e radicale al problema sociale che ai suoi occhi affliggeva la Laguna. È perciò di tale «bonifica» che il libro si occupa, sia attraverso l’analisi storica, che lasciando ampio spazio alla voce dei veneziani. Essi rimangono infatti troppo spesso ai margini della narrazione, in un certo senso espropriati della possibilità di rappresentare ciò che sono e vivono e di plasmare un’immagine autonoma del luogo che abitano. E invece sono proprio loro che nell’ordito delle abitudini quotidiane, dei percorsi compiuti, dei bisogni soddisfatti o degli incontri inattesi ogni giorno danno forma al tessuto urbano, imprimendovi quel senso collettivo e plurale senza il quale esso si ridurrebbe a mero fondale scenico. Un’esplorazione del divenire di Venezia non può quindi prescindere dal dialogo con la comunità che vi risiede, dal suo prezioso scrigno di ricordi ed esperienze, dalle impressioni e dagli sguardi che la attraversano, dalle paure e dalle speranze con cui essa guarda al proprio futuro. Ne emerge una storia fatta di aneddoti e dettagli, di frammenti scontornati e relazioni umane, di movimenti repentini e stanche stasi, di ritmi pulsanti e volti commossi, anziché di date e cifre, corsi e ricorsi, cause ed effetti. Una storia non univoca, a tratti contraddittoria, quasi sempre incoerente, quale sola può essere quella tracciata a partire da un affresco a molte voci. Capace però al tempo stesso di restituirci un ritratto profondo e palpitante di questa città unica al mondo.
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