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Militanza partigiana


Sergio Bianchi, Viva i partigiani, 2013


[Nota a cura di G.R.]


Sulla Resistenza è stata prodotta una letteratura sterminata: dapprima volta a una sua beatificazione, fondata sulla retorica della coscienza nazionale che si riscatta combattendo contro l’invasore, successivamente tesa all’opposto a liquidare, insieme a quel costrutto retorico, le ragioni stesse della scelta partigiana. In entrambi i casi i partigiani, divenuti icona astratta, cessavano di avere parola in quanto soggetti concreti. Prima ancora del 25 aprile 1945, dall’interno dell’esperienza resistenziale, Roberto Battaglia terminava di scrivere un libretto a caldo che – proprio perché sfuggiva a qualsiasi operazione di disincarnamento della militanza partigiana – non ha avuto particolare fortuna: Un uomo un partigiano(ripubblicato dal Mulino nel 2004).

Alla Resistenza Battaglia ha preso parte nelle formazioni di Giustizia e libertà, prima in Umbria e poi in Toscana. Ma il libro è molto più di un semplice diario o narrazione dei fatti: cerca di individuare i punti in cui la sua biografia si intreccia con altre biografie, si riconosce, si unisce in «una sostanziale affinità di intenti», diventa storia collettiva. Nello stralcio che qui proponiamo, in particolare, Battaglia sembra parlare a noi, prende parola nel nostro dibattito sulla militanza e la sua crisi. Rispondere alla domanda chi sono i partigiani, significa innanzitutto rispondere alla domanda chi sono i militanti. Le forme e gli stili della militanza cambiano nei differenti contesti, fasi, ambienti. E tuttavia, ci sono alcuni tratti di fondo comune. Uno, tanto per cominciare: quella della militanza è sempre una scelta di parte, in rottura con l’interesse generale. Perciò Battaglia ci invita a diffidare delle risposte puramente ideologiche, oppure di chi afferma che è stata semplicemente una decisione imposta dalle circostanze esterne. Ci invita, dunque, a non ragionare con il senno di poi, pensando che tutto ciò che è stato reale era anche razionale, che tutto ciò che è stato possibile era anche necessario, ovvero inevitabile. Che la scelta, la forma e lo stile della militanza, cioè, siano già inscritti nella condizione storicamente data. No: dentro il tumulto degli eventi, a decidere è innanzitutto la capacità soggettiva di direzionarli, piegarli o rovesciarli, comunque di non accettarli nella loro tendenza «naturale».

Così, mentre il vecchio mondo sembra crollare, il militante è mosso dall’«impulso di mettersi fuori legge», dall’«aspirazione a una sconfinata libertà da conquistarsi con le armi». E le leggi? – domanda preoccupata la buona coscienza democratica: «le leggi le faremo, ma giuste, da noi stessi». La legge consisteva, ad esempio, nel convocare i banchieri della zona per costringerli a mettere a disposizione i soldi necessari alla guerriglia, e di fronte ai loro volti impauriti incorniciati da eleganti abiti civili, poter affermare: «Io sono la legge – sì, la legge, o miei banchieri, così stupiti da non esser nemmeno capaci di sorridere cordialmente su quella dichiarazione». La legge di una libertà da scoprire contro la legge di un destino a cui rassegnarsi. Non è forse in questo che sta, in fondo, la pratica militante?


***


È l’ambiente stesso che sembra spiegare quel continuo stato d’insorgenza verso il tedesco, quasi che i suoi abitanti avessero approfittato d’un momento di caos per impugnare le armi. Ma se si vuol conoscere la verità su ciò, non c’è strada più semplice che quella d’interrogare qualche partigiano e domandare a lui stesso perché abbia scelto questa nuova e rischiosa condizione di vita. Le risposte, non troppo varie, si possono riassumere intorno ai seguenti motivi: «L’ho fatto per fuggire alla cattura dell’esercito repubblicano e del servizio del lavoro», o «Sono divenuto partigiano perché i tedeschi m’hanno bruciato la casa – oppure perché uno della mia famiglia è stato ucciso in una rappresaglia – o anche perché sono comunista o anarchico o di Giustizia e libertà». Qualcuno delegherà a un altro la responsabilità della sua decisione, dichiarando d’essere entrato in banda perché già c’era un suo parente o un suo amico; qualcuno spingerà la sua onestà fino a confessarvi che non aveva altra soluzione, essendo privo di ogni mezzo economico; qualche altro, più colto, vi dirà che quella vita l’ha attratto per il suo sapore insolito d’avventura. Nessuno o quasi nessuno affermerà, e ciò può interpretarsi come un naturale senso di riserbo o di spirito di misura posseduto dagli italiani, specie negli strati sociali più umili, che l’ha fatto «per amor di patria».

Qualunque peso si voglia dare a queste dichiarazioni, è interessante osservare che esse hanno quasi tutte un carattere, diciamo così, negativo, eccetto quelle di chi dice d’aver già professato, prima dell’8 settembre, una fede avversa al fascismo, d’avere appartenuto ossia a una minoranza quanto mai ristretta. Quegli operai, quei contadini o quegli studenti dichiarano d’aver preso le armi, perché sollecitati da circostanze esterne, per spirito di difesa o di necessità economica o di vendetta, di non essere, insomma, stati i primi a decidere liberamente per proprio conto, ma deve esservi stati spinti dagli stessi avvenimenti. Di fronte a questa constatazione sembra naturale dedurre che molte o quasi tutte quelle dichiarazioni sono veridiche solo in parte. Poiché, a chi così ci confida le sue ragioni, si può rispondere che è ben difficile ch’egli ci dimostri che proprio quello fosse l’unico modo di difendersi o di vivere: il contadino o anche lo studente possono essere ben difficilmente catturati nel loro ambiente naturale, il primo nei campi, l’altro nella città, tanti sono i modi di nascondersi o d’evadere alle ricerche, e anche l’operaio, che più d’ogni altro può invocare questo motivo, ha spesso modo di ritirarsi a vivere in campagna presso qualche famiglia di contadini, rientrando quindi nella loro stessa condizione.

L’istinto di difesa che è la ragione forse più valida per l’Italia centrale perde molto della sua importanza in un movimento di liberazione le cui origini non sono più da cercarsi nel settembre del ’43 ma sono in genere molto più tarde e nel quale quindi c’è stato tutto il tempo di salvarsi pacificamente per chi l’ha voluto.

Vivendo così a lungo in mezzo ai partigiani, io mi sono sempre di più convinto che in quella zona toscana, salvo qualche rara eccezione, nessuno è entrato nella guerriglia perché inevitabilmente spintovi dall’esterno; così ho potuto constatare che quel riserbo sui motivi di carattere nazionale, non era simulato ma corrispondeva a un’indiscutibile realtà del loro stato d’animo: l’idea patriottica arrivava soltanto, di regola, ai limiti del proprio paese o della propria regione e anche in tale senso era maturata più tardi, nella vita comune, non al primo stadio d’una adesione singola.

Non credo di colorire con la mia esperienza quella altrui, quando affermo che il motivo per me e per gli altri è stato sostanzialmente identico, anche se educati nelle più diverse condizioni sociali: l’impulso di mettersi fuori legge, per farla finita con un vecchio mondo che era crollato o stava crollando intorno a noi, e il desiderio, nel tempo stesso, di ricostruirne uno nuovo. Secondo le singole possibilità questa idea di ricostruzione era più o meno definita; per me assunse quasi subito alcuni precisi lineamenti politici, per altri, per la massa dei partigiani, si condensò invece in alcune vaghe aspirazioni a una nuova libertà o giustizia sociale, parole che per la prima volta trovavano una profonda eco nel cuore dell’italiano e lo spingevano al sacrificio.

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