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Che cos’è il diritto alla città durante e dopo la catastrofe pandemica?

Quattro tesi su cui riflettere



1. Cosa significa parlare di «diritto alla città» dopo quasi un anno e mezzo di pandemia? Che cos’è il «diritto alla città» dopo questa «catastrofe»? Mi riferisco in modo particolare alla «catastrofe» di doversi isolare e confinare per non permettere la diffusione del virus. Le città, le piazze e tutti i luoghi pubblici si dovevano svuotare o comunque era necessario limitare drasticamente la presenza umana, affinché non si diffondesse il malore del virus. Per la prima volta, l’incontro umano e la vita collettiva negli spazi urbani sono stati nemici della nostra salute.

Tale svuotamento dello spazio urbano credo che possa essere definito come un «fatto sociale totale» o il «fatto sociale totale» per eccellenza di questo inizio di secolo ventunesimo. Un «fatto sociale totale», sostiene Marcel Mauss, è un fenomeno umano capace di determinare un insieme di avvenimenti coinvolgendo la maggior parte dei meccanismi di funzionamento di una comunità umana. Per Mauss il «fatto sociale totale» per eccellenza era il dono, in quanto tale gesto era capace di dare un significato culturale comune e saldare assieme pratiche e cornici di senso delle popolazioni indigene studiate dall’antropologo; tutte pratiche e cornici di senso relativi ad aspetti economici, politici, espressivi, religiosi e mitopoietici. Un altro celebre antropologo come Ernesto De Martino ci ha insegnato che l’assenza di queste cornici di senso porta allo smarrimento sociale e culturale di una comunità – un fenomeno che egli stesso ha definito «crisi della presenza». Il «fatto sociale totale» permette, quindi, di leggere e interpretare globalmente una data società umana. Ad esempio, Abdelmalek Sayad è stato il primo studioso a riprendere l’idea maussiana per riflettere sul fenomeno delle migrazioni. Ritornando all’oggi, ogni nostra pratica di vita e ogni nostra cornice di senso è stata investita da un nuovo «fatto sociale totale», ovvero il doversi misurare con tutte le conseguenze sociali della pandemia, che possono essere riassunte nella costrizione di eliminare o ridurre drasticamente il contatto umano, quindi nell’impossibilità di proseguire la convivenza umana nello spazio pubblico.


2. A tale proposito, Lefebvre sostiene che lo «spazio urbano» è sempre anche uno «spazio sociale» nella misura in cui, in primo luogo, è il teatro della genesi e sviluppo delle relazioni tra esseri umani. Senza spazio l’essere umano non ha un luogo di agibilità e di espressione dove concretizzare ciò che pensa. E, in secondo luogo, è anche il prodotto, il risultato e il frutto di un’azione ambivalente e antagonista delle pratiche di socializzazione: da un lato, lo «spazio sociale» è il prodotto delle strutture di dominio capitalista, dall’altro, è il prodotto – al contrario – dei gruppi sociali che lo vivono e lo attraversano, ma che non ne determinano la sua organizzazione ultima di potere. Nel rilevare l’esistenza delle asimmetrie socio-politiche dal punto di vista dell’analisi spaziale, Lefebvre dà anche una definizione, e quando si chiede «che cos’è la città?» dà questa risposta: «la città è la proiezione della società sul territorio». Che cosa significa? Significa che nell’urbanistica e nell’architettura ritroviamo la concretizzazione visibile delle disuguaglianze di classe, di razza e di genere che sono presenti nella nostra società. La dimensione spaziale della città non fa altro che proiettare nei luoghi della vita quotidiana, una determinata organizzazione sociale di un gruppo umano. A questo, poi, si aggiunge la pandemia in cui ci ritroviamo, da molti definita anche «sindemia» per evidenziare le numerose contraddizioni e crisi che precipitano assieme in questa fase storica globale. Quindi, se nello spazio urbano ritroviamo una proiezione territoriale degli assetti di potere, come è stato influenzato dai cambiamenti del «fatto sociale totale» della pandemia?

Innanzitutto, la pandemia ha inasprito le asimmetrie di potere già esistenti, così come ha aumentato le disuguaglianze a partire dai regimi eccezionali di restrizione che sono stati applicati. Lo «spazio sociale» è stato svuotato e desertificato per evitare la diffusione del virus: è un dato di fatto. A questo si è aggiunto l’obbligo del distanziamento fisico e la maggiore presenza delle forze dell’ordine che devono garantire la repressione delle violazioni delle nuove leggi inaugurate da marzo 2020. In questo contesto, il rapporto tra cittadino e istituzioni statali necessariamente si lacera se non è presente una dimensione chiara di «cura collettiva», del «prendersi cura» in maniera solidale riguardo a tutte le sfere e i contesti di vita di ognuno. E purtroppo questo non è avvenuto e continua a non avvenire: ad esempio, riguardo alla questione urbana in Italia e di come è stata affrontata dal governo Draghi, Agostino Petrillo ha lucidamente commentato le conseguenze del nuovo PNRR. [1] Pare che vi sia l’interesse di «ritornare come prima» della pandemia senza riconoscere che quella normalità precedente era comunque un grande problema: una questione di classe, di razza e di genere, come ha evidenziato David Harvey. [2]

In secondo luogo, se il cittadino percepisce che le istituzioni statali sono presenti esclusivamente nelle misure repressive dello spazio pubblico (la police di cui parla Jacques Rancière ne Il disaccordo), e – contemporaneamente – le disuguaglianze sociali già presenti prima della pandemia si inaspriscono a causa dell’assenza di un intervento politico all’altezza, non c’è alcuna via d’uscita. Di fatto, il Conte II, prima, e Draghi, oggi, non sono in grado di far fronte alle conseguenze della pandemia, in quanto non sono in grado di far fronte alle autentiche contraddizioni del sistema neoliberista in cui viviamo. È necessario un cambio di rotta nella gestione del servizio sanitario pubblico, sono necessarie misure economiche più eque che riducano l’ampia forchetta delle disuguaglianze sociali, e dovrebbero esistere delle politiche ideate all’interno di un progetto di società e di Paese, il quale autenticamente non si dimentica di nessuno. Al contrario, con il Conte II abbiamo visto «un colpo al cerchio e uno alla botte» sul piano delle misure sociali, che non è stato sufficiente, e ora con Draghi abbiamo quasi tutto lo spettro parlamentare che è al governo con l’ex-presidente della Banca Centrale Europea.

Per fermare il contagio del virus è stato necessario svuotare lo spazio pubblico, ma questo svuotamento e le norme repressive che ci hanno costretto a confinarci in casa non sono state accompagnate da altrettante disposizioni legislative che rendessero la vita un po’ più degna di essere vissuta per tutti e tutte. Il distanziamento fisico e lo svuotamento dello spazio urbano, durante la prima fase di marzo 2020, è stato un male necessario per fermare i contagi, che non ha ritrovato adeguate forme di cura solidale per tutta la collettività, e in particolar modo per i più oppressi e vulnerabili. La lotta di classe dall’alto – per dirla con Luciano Gallino – è continuata in altre forme in questa pandemia e tutto è precipitato più violentemente.


3. Ci sono altri tre cortocircuiti su cui riflettere. Il primo: i bisogni necessari sono entrati in rotta di collisione con il regime dei consumi. Lo stare in casa ci ha costretti a rivedere in parte gli stili di vita, tuttavia questo cambiamento ha riprogrammato le catene del consumo, che sono sempre anche catene dello sfruttamento, e nuove forme di valorizzazione capitalistica hanno portato ampi settori della logistica sviluppatisi attraverso le piattaforme digitali a fatturati stellari. Gli appelli alla responsabilità morale per la sicurezza sanitaria contro l’impulso ai consumi e alla rivalorizzazione dei rapporti umani familiari si sono sciolti come neve al sole, perché non hanno compreso la capacità del capitalismo di creare e ricreare nuovi mercati e nuovi consumi dettati da nuovi bisogni indotti, a partire da una nuova forma di vita (il confinamento e la quarantena). Inoltre, l’individualismo e la frammentazione delle relazioni non si cura certo «cogliendo l’occasione» della pandemia per decostruire l’alienazione dei rapporti umani intrafamiliari, anzi, anche qui abbiamo visto un inasprirsi dei casi di violenza domestica e, nel proprio spazio di casa, è entrato violentemente il potere di comando che si subisce sul posto di lavoro. Certamente, per alcuni settori il lavoro da casa può essere un vantaggio per il lavoratore, tuttavia ci sono molti studi che hanno evidenziato l’arretramento provocato dal lavoro online sul piano dei diritti sociali. Anche su questo tema, non c’è stata alcuna riflessione da parte del potere governativo. Sarebbe necessario mettere a fuoco le conseguenze sociali della sovrapposizione tra l’ambiente di lavoro e la propria casa. Si deve stare a casa, e la città e lo spazio urbano sono diventati, appunto, contenitori di servizi o luoghi al servizio della circolazione delle sole merci. Questa, a mio parere, è la distopia individualista di aziende come Amazon: il cittadino-cliente non si muove da casa mai e con un click ha tutto a portata di mano. Lo spazio urbano, quindi, è solo transito e non più luogo di vita collettivo.

Il secondo cortocircuito, più salutare per la cura della collettività, riguarda l’aumento di pratiche mutualistiche e di iniziative dal basso, in contro-tendenza rispetto all’imperativo di stare a casa. L’intelligenza è stata quella di lavorare nelle soglie e negli interstizi lasciati liberi dalle nuove norme restrittive, senza rassegnarsi all’impossibilità del contatto umano. In questo caso, possiamo parlare di come il «diritto alla città» ritrovi senso durante e dopo il fatto sociale totale pandemico. Chiaramente questo ha comportato il rischio del contagio, ma ha prevalso l’avanzamento di un progetto sociale veicolato attraverso le forme mutualistiche. Questo incremento di azioni collettive in relazione alla chiusura dello spazio pubblico penso che possa essere letto come una risposta politica concreta all’insoddisfazione emersa dalla gestione governativa della pandemia, o meglio, all’ennesima ricetta che propone un’uscita dalla pandemia in linea con l’ideologia neoliberista. Queste reti di cura del mutuo appoggio ricordano molto il lavoro sociale del movimento operaio a cavallo tra Ottocento e Novecento: il sindacalismo sociale e rivoluzionario, oltre gli steccati tra aree anarchiche e comuniste, univa alla lotta per i diritti sociali e per un welfare adeguato anche reti di sostegno collettive che risolvessero in maniera più equa e solidale quegli obiettivi che avrebbe dovuto risolvere, invece, un’autentica comunità politica che non fosse solo «il comitato d’affari della borghesia». Penso agli studi sul movimento operaio di Jacques Rancière e Pino Ferraris o ai romanzi di Valerio Evangelisti sulle origini del socialismo francese, italiano e statunitense. È da qui che, sicuramente, dobbiamo ripartire per costruire percorsi politici di emancipazione e liberazione, per il «diritto alla città» e contro il neoliberismo; e, in modo particolare, contro quella vulgata individualista che ha creato una sua spietata egemonia culturale nella nostra società. Il mutualismo è certamente quel programma politico di base che ci può permettere di praticare un’anticipazione di quella nuova società per cui lottiamo. È anche il mezzo attraverso il quale possiamo iniziare a ribaltare le logiche individualiste e di profitto. Senza «profetizzare» troppo su scenari politici futuri, è doveroso evidenziare quei germogli di nuova società, quei «semi sotto la neve» che crescono nei momenti difficili. Tuttavia, non nascondo che da queste reti del mutualismo possano nascere nuove forme di «democrazia insorgente» per dirla con Miguel Abensour che convergono nel «diritto alla città» di lefebvriana memoria, ovvero nuove forme di politicizzazione e organizzazione collettiva che ci permettano di concepire la politica come reale cambiamento della nostra vita quotidiana. La sfida sul lungo periodo è anche quella di ridare al significato di «politica» il suo autentico valore: il cambiamento dei rapporti di forza, la trasformazione e il miglioramento delle condizioni della nostra vita quotidiana. Se ci pensiamo come soggetti politici, dobbiamo pensarci anche come agenti di trasformazione e il neoliberismo fondamentalmente ha neutralizzato l’agire politico presentandosi come unica forma di vita. Il neoliberismo ci dice che «un fuori» da esso stesso non esiste, quindi la politica non è più trasformazione ma strumento di conservazione e amministrazione degli assetti di potere dati. La politica è diventata amministrazione, governance, e quel «realismo capitalista» denunciato da Mark Fisher sembra un nemico invincibile. Il mutualismo che si sta sviluppando da un anno a questa parte credo che sfidi queste logiche, dando nuovo significato alle pratiche di «diritto alla città». Chiaramente vi sono grossi limiti strutturali: ad esempio, il più evidente è l’impossibilità di vivere e attraversare le piazze e lo spazio pubblico nelle maniere in cui lo abbiamo sempre fatto, tuttavia siamo tutti rimasti molto colpiti dai movimenti sociali in Colombia, che contro il governo Duque hanno dichiarato «Quando il popolo scende in piazza durante una pandemia, vuol dire che il governo è più pericoloso del virus», decidendo di rischiare il contagio, perché i soprusi sul piano politico erano molto più intollerabili delle conseguenze del virus.

Il terzo cortocircuito riguarda l’attuale crisi economica provocata dalla pandemia, la quale ci mette di fronte a una crisi con un più ampio raggio di contraddizioni. Infatti, questa seconda crisi intrattiene un rapporto con la natura e l’equilibrio ecologico degli ecosistemi. «È la prima crisi ecologica dell’Antropocene», ha detto Adam Tooze. [3] Ad esempio, per la prima volta in una crisi economica, ci siamo chiesti se era giusto o no uscire di casa per «ritornare a lavorare». Nella crisi del 2008 o in altre crisi economiche nella storia umana, non ci si è mai interrogati su questo: se c’era domanda di lavoro, a fronte della terribile disoccupazione, non ci si faceva troppe questioni. Con questo vorrei dire che il capitalismo ha sempre incontrato dei limiti socio-ecologici, non è un sistema statico ma sempre in cambiamento; tuttavia, supera solo astrattamente e formalmente questi limiti, portando a crisi ancora più intense e devastanti. Ora, per la prima volta, siamo in un punto della civilizzazione umana in cui si inizia a compromettere l’ecosistema nel suo complesso e la vita stessa di ogni essere vivente. Il rispetto (o no) di questo limite definisce e definirà la sopravvivenza stessa di tutti gli esseri viventi, per questo ritengo che qualsiasi riflessione sulla pandemia e sulla crisi economica nata in seno ad essa non possa prescindere da una riflessione eco-socialista e eco-marxista.


4. Infine, per continuare a spazializzare la nostra analisi, vorrei evidenziare come l’iper-sviluppo del capitalismo non voglia fare i conti con i limiti imposti all’urbanizzazione, nemmeno di fronte a una simile pandemia. Dal 2007, per la prima volta nella storia della umanità, la maggior parte della popolazione mondiale vive in aree urbane:[4] più del 55% secondo gli ultimi dati disponibili, quasi il doppio rispetto al 1950. Questo significa un grosso squilibrio tra città e campagna, tra l’obesità dell’urbanizzazione e la progressiva costrizione all’anoressia dell’ambiente naturale: com’è noto la previsione di Lefebvre di un’esplosione della società urbana planetaria si è realizzata. Di fronte a questa crisi ambientale (l’urbano deve sempre fare i conti con la questione dell’ambiente in cui è inserito e che trasforma e degrada), da un lato non si sta facendo ancora una seria riflessione a livello di politiche globali, come se le epidemie provocate dalla congestione urbana si risolvessero solo con le vaccinazioni; dall’altro, da un anno a questa parte, nei mass-media italiani si sente solo il mantra degli «archi-star» (tra i quali Boeri e Fucksas) che ripropongono il cosiddetto «ritorno al mondo rurale e alla campagna», come se fuggire dagli agglomerati urbani sia una soluzione praticabile su larga scala. Chi può permettersi questo «ritorno alla campagna»? Ovviamente, le persone più abbienti che possono affrontare i costi di questo trasferimento: dal costo dei trasporti privati (sappiamo ad esempio come le zone rurali italiane siano mal collegate tramite la rete di trasporto pubblico) fino all’affitto o all’acquisto di immobili. Le persone meno abbienti, invece, continueranno a vivere la campagna come zona periferica e marginale, dove magari si vive meglio delle zone urbane (e forse si paga anche un affitto più contenuto), ma comunque in quelle zone urbane ci si dovrà sempre recare per lavoro e per soddisfare altre necessità. Inoltre, il «ritorno alla campagna» può essere un processo che va di pari passo con esperienze virtuose di lavoro online: una condizione particolare che è possibile perché la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale è esasperata nella produzione capitalistica. Siamo di fronte comunque a uno squilibrio di opportunità. Per il momento l’unico «ritorno alla campagna» praticabile e virtuoso è l’esperienza di vita che è in atto nella «fattoria senza padroni» a Mondeggi, nella campagna fiorentina, tuttavia è un progetto che rimette al centro la campagna in maniera autonoma, non in funzione del centro urbano riperpetuando gli squilibri esistenti tra i due poli.

Un falso e equivoco dibattito sul «ritorno alla campagna» va demistificato rivedendo il modello di sviluppo spaziale che ha portato l’urbano ad una crisi multipla, in cui lo spazio è sotto il fuoco incrociato dei contagi del virus, della crisi economica e delle conseguenti speculazioni immobiliari, e – infine – di un equilibrio ecologico che non regge più l’impronta umana dettata dal sistema capitalista. Il futuro del «diritto alla città», durante e dopo la pandemia, è parte di questa incapacità di pensare una società post-capitalista che abbandoni il paradigma neoliberista.



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