Postfazione a Caccia alle streghe e capitale di Silvia Federici [1]
In questo testo che fa da postfazione all’ultimo volume di Silvia Federici per DeriveApprodi (2022), Gabriella Palermo si domanda «Qual è l’attualità della caccia alle streghe?» E sviluppa una riflessione che interroga direttamente la nuova razionalità capitalista nella crisi permanente del capitale.
* * *
Lo studio e l’analisi della caccia alle streghe attraversano tutta la produzione teorica e la riflessione politica di Silvia Federici. In questo nuovo testo, riprendendo alcuni dei temi chiave di Calibano e la strega [2] – l’origine del capitalismo nei processi di recinzione delle terre comuni e dei corpi delle donne, la separazione tra produzione e riproduzione e l’organizzazione del lavoro riproduttivo nella lunga transizione capitalistica – Federici ci offre, ancora una volta, un metodo di critica e lettura del presente che si interroga costantemente su origini e trasformazioni del capitale.
La caccia alle streghe è per Federici un fenomeno fondamentale per comprendere la nascita e l’affermarsi del capitalismo. Studiando il Medioevo e il feudalesimo come momento storico per nulla buio e di stasi, in cui si davano invece molteplici lotte contadine – come, ad esempio, la guerra delle remensas in Catalogna o il movimento dei patarini nella zona di eresia che collegava la valle del Po alla Francia e alla Germania – sostiene che il capitalismo nasce in risposta a queste lotte, per continuare lo sfruttamento delle masse con altri mezzi. E la caccia alle streghe si presenta come fenomeno di disciplinamento dei nuovi soggetti sociali nella transizione capitalistica.
Qual è l’attualità della caccia alle streghe? Ni una mujere menos, ni una muerta màs: con questo verso, scritto in una poesia contro l’aumentare dei femminicidi a Ciudad Juárez, in Messico, Susana Chávez, che di femminicidio in quella città ci è morta, ha dato il nome a un movimento di portata globale contro la violenza di genere che dall’America Latina sta riposizionando il mondo. Nelle maree – così sono definite le manifestazioni oceaniche di questo movimento femminista e transfemminista – spesso sono apparsi dei cartelli con su scritto «siamo le streghe che non siete riusciti a bruciare». Nella pratica dell’obiettivo di Reincantare il mondo [3], questo movimento, per il quale la produzione di Federici rappresenta un importante punto di riferimento, sta costruendo un femminismo di tipo nuovo che, mentre lotta contro una violenza strutturale e sistemica, immagina e costruisce spazi altri, in cui il lavoro riproduttivo possa essere socializzato e la cura possa essere un principio di costruzione di comunità, relazioni e alleanze, sottratte ai principi di messa a valore del capitale.
Ci sono tre temi chiave della produzione di Federici, ripresi in questo testo e letti attraverso nuove lenti con l’intento anche di parlare ai femminismi contemporanei, a cui l’autrice si rivolge alla fine del testo, per tracciarne limiti e potenzialità. Tre temi, dunque: le vecchie e nuove recinzioni enclosure; la rinnovata caccia alle streghe nelle nuove forme assunte dalla violenza di genere; l’immaginazione e la costruzione di nuovi mondi, nuove relazioni, nuovi commons.
Vecchie e nuove recinzioni
Chi erano le streghe? A partire da questa domanda, Federici legge le enclosure come un processo ampio che ha riguardato non soltanto le terre, ma anche i corpi delle donne accusate di stregoneria, i loro saperi e relazioni.
Ritracciare il processo di accumulazione originaria ci permette di osservare le vecchie e nuove recinzioni che operano nel presente: mentre in paesi come Africa, India o alcuni luoghi del Sud America le nuove recinzioni di un capitalismo estrattivo che agisce in egual misura su corpi e territori tornano a essere legate alla figura della strega, le conseguenze della separazione originaria sono visibili e riprodotte nelle aggressioni del capitale contro i tentativi di ricomposizione conflittuale.
La costruzione della figura della strega ha storicamente svolto molteplici funzioni: ha favorito l’espulsione dei contadini dalle terre comuni; è servita a frammentare la comunità in lotta, separando le donne dagli uomini, le donne conformi dalle streghe; soprattutto, è stata fondamentale per separare il lavoro produttivo da quello riproduttivo e introdurre una nuova divisione sessuale del lavoro. Una divisione e una separazione che hanno comportato anche l’introduzione di un sistema di controllo sul corpo e una nuova disciplina per la sessualità delle donne, che continua a riprodursi sino ai giorni nostri e che necessita di una continua vigilanza e difesa. Faccio qui riferimento nello specifico alle lotte per il controllo sul corpo, e quindi sulla riproduzione, che comprendono la difesa dell’aborto libero – regolarmente violato in Italia, cancellato negli Stati Uniti, sotto attacco o non ancora riconosciuto in molti altri paesi del mondo – la lotta contro la sterilizzazione forzata, le istanze per la costruzione di condizioni necessarie per la maternità; lotte che hanno anche a che fare con la rivendicazione di una sessualità libera, autodeterminata e consapevole che mette radicalmente in discussione la famiglia tradizionale e l’immaginario sessista dominante, che non fanno altro che rinvigorire la violenza patriarcale.
Per ciò che concerne i saperi, il sistema capitalista che ruota intorno al maschio bianco, occidentale ed eterosessuale ha recintato, separato e silenziato i saperi delle donne e di altri gruppi sociali in condizione di minorità, come le popolazioni nei territori poi divenuti colonie, perpetrando quel processo che Spivak ha chiamato violenza epistemica [4]. Nel caso delle donne, questi saperi, che riguardavano soprattutto la conoscenza e il rapporto con la vita e la natura – molte delle donne accusate di stregoneria erano infatti levatrici o medicotte – sono stati espropriati e destinati alla costruzione di una disciplina di appartenenza perlopiù maschile. La relazione tra genere e medicina è, in questo senso, un campo interessante in cui osservare le origini di una disciplina storicamente esercitata con violenza sulle donne, e in modo specifico sulle donne nere, la cui origine risale proprio alla caccia alle streghe – si pensi nel presente alla violenza ostetrica, all’uso della psicologia o della psicoanalisi come strumenti di disciplinamento e controllo di donne non conformi, sino al mancato riconoscimento e cura di malattie invisibili come vulvodinia, neuropatia del pudendo, fibromialgia. Ricostruire una genealogia della scienza medica ritornando all’accumulazione originaria, permetterebbe non soltanto di nominare la violenza che ne segna le origini ma soprattutto di produrre un sapere collettivo di parte che esprime il punto di vista delle lotte femministe sul terreno della riproduzione.
Infine, le recinzioni delle terre comuni e la separazione della produzione dalla riproduzione hanno dato origine a un’importante e drammatica frammentazione della comunità. Con la caccia alle streghe si impone il principio – arrivato quasi intatto fino ai nostri giorni – per cui la donna conforme è quella che resta all’interno dello spazio domestico. Sono così cambiate le basi della legittimazione sociale e soprattutto le forme della solidarietà tra donne. La parola gossip, che nel Medioevo significava «amica del cuore», in riferimento proprio alle relazioni femminili, diviene nell’arco di un secolo e mezzo «sinonimo di linguaggio vuoto, pettegolezzo, nel peggiore dei casi linguaggio maligno»: un processo di svalutazione delle pratiche e di frammentazione delle relazioni visibile ancora nella specifica declinazione di un femminismo neoliberale che promuove relazioni di potere esercitate da donne su altre donne. Rileggere oggi la caccia alle streghe ci aiuta dunque non soltanto a comprendere meglio le origini del capitalismo, ma anche a comprendere come le sedimentazioni sociali, economiche e politiche che hanno costruito si riproducano nel presente attraverso una sistemica attuazione della violenza di genere legata alle trasformazioni del capitale.
Una rinnovata caccia alle streghe
La violenza di genere è lo strumento di controllo e disciplinamento esercitato sulle vite e i corpi delle donne e delle soggettività Lgbtqia+ dal sistema capitalista e patriarcale. Si tratta di una violenza sistemica e strutturale (od originaria) che assume molteplici forme, dalla violenza economica a quella psicologica sino a quella fisica, che giunge fino alle forme estreme della privazione della vita stessa. Se durante la caccia alle streghe che accompagna l’accumulazione capitalista si è consumata una terribile violenza sui corpi delle donne accusate dei crimini più orrendi, torturate e poi bruciate in pubblico per imporre col terrore il nuovo modo di produzione e le nuove forme dello sfruttamento, la violenza di genere ha funzionato come dispositivo di disciplinamento in tutte le fasi della transizione capitalistica, fino ai nostri giorni. Tra XVIII e XIX secolo, una nuova razionalità capitalista che intende far fronte alla profonda crisi della riproduzione, dovuta al regime di sfruttamento assoluto della «grande industria», introduce una più netta divisione sessuale del lavoro: l’uomo in fabbrica, nello spazio (pubblico) della produzione, e la donna in casa nello spazio (privato) della riproduzione e del lavoro domestico. In questa fase, in cui si compie la grossa trasformazione del salario familiare con la costruzione di una famiglia nucleare attorno al passaggio della casalinga, il lavoro riproduttivo non salariato – che non consiste soltanto nella procreazione o nel fornire cibo e occuparsi della pulizia, ma anche nella cura psicologica, emotiva, sessuale – è regolato dal lavoratore salariato cui il capitale delega disciplina e controllo: è il «patriarcato del salario».
Sarà il grande ciclo di lotte femministe inaugurato all’inizio degli anni Settanta dalla campagna internazionale «Salario al lavoro domestico» (di cui Federici è tra le principali animatrici) e i successivi sviluppi della prassi militante di un «femminismo marxista della rottura» [5], a svelare la centralità capitalista del lavoro riproduttivo e la violenza della sua gratuità. La ristrutturazione dell’economia globale sopraggiunta con il neoliberismo avvia una nuova fase in cui le attività riproduttive sono organizzate come servizi che producono valore. Mentre persiste il lavoro domestico non retribuito e il processo di naturalizzazione, ovvero la connessione diretta tra l’utero e le attività di riproduzione, le caratteristiche del lavoro delle donne vengono messe a valore nel nuovo modo di produzione. Si assiste contemporaneamente allo smantellamento del welfare state. In questo senso, dalla metà degli anni Settanta a oggi, ciò che osserviamo è una ripetizione del processo di accumulazione originaria, che non è un momento dato una volta per tutte con l’avvento del capitalismo, ma al contrario si ripete ogni volta che il capitale ha bisogno di una ristrutturazione. All’indebitamento crescente dovuto al progressivo impoverimento di sempre più ampie frange sociali, si accompagna una ristrutturazione produttiva che vede da una parte il crescere di flessibilizzazione, delocalizzazione e precarizzazione del lavoro, dall’altra, nei Sud del mondo, la maquillizzazione della produzione e la privatizzazione delle terre in un processo di ricolonizzazione [6].
Oggi alla ristrutturazione capitalista si accompagna una nuova escalation della violenza di genere. Alla progressiva svalutazione del lavoro riproduttivo, con salari bassi e forme violente di sfruttamento, corrisponde una nuova disciplina del lavoro fondata su gerarchie di razza e di genere – le donne migranti subiscono infatti maggiori ricatti e abusi. Si tratta di contraddizioni emerse con maggiore evidenza durante la pandemia da Covid-19. Fenomeno sanitario, politico, economico e sociale, la pandemia ha infatti agito, e continua ad agire, da grande laboratorio di sperimentazione, soprattutto per ciò che concerne il lavoro riproduttivo nelle sue diverse forme, dal lavoro di cura al lavoro domestico [7]. La crisi pandemica ha funzionato da acceleratore di processi di individualizzazione, svalutazione e sfruttamento del lavoro, soprattutto di quello riproduttivo: l’auspicata «ripresa» è infatti legata a una sempre più profonda precarizzazione del lavoro.
Durante la pandemia, inoltre, la violenza fisica ha raggiunto cifre altissime, confermando come la maggior parte delle violenze si consumi all’interno dello spazio domestico per mano di uomini della rete familiare o dei conoscenti – oltre alla brutalità di quelle che continuano a consumarsi nello spazio pubblico. Secondo i dati raccolti dall’osservatorio nazionale di Non una di meno in Italia, soltanto nel 2021 si registrano 115 tra femminicidi, lesbicidi e «trans*cidi»[8]. A ciò si aggiunge una profonda violenza mediatica consumata sui corpi di queste donne, attraverso forme di vittimizzazione o di giustificazione, tolleranza e impunità, e persino di colpevolizzazione delle vittime. Questa nuova escalation dimostra una volta per tutte che a sviluppo e progresso del capitale non corrisponde il benessere sociale [9]; che alle trasformazioni del lavoro riproduttivo si accompagna sempre una riproduzione della violenza di genere, quale dispositivo strutturale del funzionamento del capitale; che la restaurazione dei processi di accumulazione avviene ogni qualvolta il capitale ha bisogno di rigenerarsi per adattarsi ai cambiamenti in corso. Infatti, tra le molteplici cause di una rinnovata caccia alle streghe, rientra di certo il fatto che il capitale sta tentando di aggredire e sussumere le lotte dei movimenti femministi e transfemministi contemporanei.
In Italia, esempi di tale violenza del capitale possono essere rintracciati nell’opposizione al Ddl Zan contro l’omotransfobia e più in generale nei processi di pink-washing del femminismo neoliberale che, a livello planetario, intende sussumere e normalizzare i linguaggi, le pratiche e i discorsi delle lotte femministe e queer.
Che fare?
Rompere l’isolamento, praticare altri mondi
Scrive Federici in uno dei saggi contenuti in Il punto zero della rivoluzione: «se vogliamo che il femminismo rappresenti una forza capace di trasformare la società e creare rapporti sociali egalitari, dobbiamo abbandonare la prospettiva sia dell’uguaglianza che della “differenza”, poiché entrambe non contestano l’organizzazione capitalista del lavoro con tutto il suo carico di sfruttamento, rapporti sociali razzisti e sessisti, la rapina continua della ricchezza che produciamo e l’immiserimento generale della società» [10]. Assumendo questo punto di vista e praticando la critica del quotidiano, soprattutto attraverso la pratica dello sciopero transfemminista dell’8 marzo – uno sciopero dal lavoro produttivo e riproduttivo, dai consumi, dal genere e dai generi – il movimento transazionale Non una di meno costruisce un femminismo che si tesse nella pratica. Una lezione, questa, che proviene dai movimenti femministi in America Latina, fondata sulla necessità di un femminismo di tipo nuovo che, a partire da un sistema di alleanze, combatta la violenza sistemica che fonda le relazioni di potere del capitale. Un femminismo che prende le mosse dalle condizioni materiali di vita e di sfruttamento, che sa – come bene evidenzia Verónica Gago – che «la dimensione di classe dei femminismi entra in gioco quando si parla di lavoro riproduttivo, che si tratti della violenza che sorregge l’appropriazione estrattivista di determinati corpi e territori o della pratica dello sciopero che non cancella o sostituisce il problema dello sfruttamento ma ne riformula l’organizzazione mettendo in discussione i mandati di genere e i privilegi razzisti che definiscono il triangolo indissolubile tra capitale, patriarcato e colonialismo» [11]. Le rivendicazioni sul piano del welfare, come quelle per il reddito di autodeterminazione, insieme alla pretesa di un salario minimo europeo, si inseriscono in un piano di strategie di riappropriazione per praticare istanze e obiettivi sul fronte del lavoro produttivo e riproduttivo, mentre si continuano a immaginare altri mondi e orizzonti di possibilità.
Durante la pandemia, mentre il lavoro riproduttivo veniva sottoposto a nuove trasformazioni utili alla rigenerazione delle relazioni di potere e sfruttamento del capitale, il movimento transfemminista ha riconosciuto, nella critica all’estrattivismo capitalista e al suo modello produttivo e di consumo «infetto» – così come reso evidente dai nuovi virus Sars dell’era contemporanea – un legame esistente tra la violenza agita sui corpi e quella perpetrata sui territori. A tale analisi e critica del fenomeno pandemico, i movimenti transfemministi hanno risposto mettendo in piedi reti solidali per la distribuzione di beni di prima necessità, per la costruzione di percorsi alternativi e autogestiti di fuoriuscita dalla violenza, per la difesa e la co-gestione dal basso della salute e della riproduzione.
Diverse e complesse sono le sfide che si pongono oggi dinanzi al movimento femminista e molto di certo va ancora immaginato, costruito e praticato. Nell’obiettivo però di reincantare il mondo, una traccia di pratiche, movimenti e spazi alternativi è già visibile. Sono pratiche che, mentre contestano le condizioni e l’isolamento dentro cui la riproduzione del capitale ci costringe, ne progettano e costruiscono un’altra che reimmagina la riproduzione, la socializza e la sottrae alla messa a valore del capitale; sono movimenti e scioperi in cui «si gioca la concezione del lavoro, del chi produce valore e di quali siano le forme di vita che meritano di avere assistenza, cura e reddito, nonché la questione del dove prendere le risorse per farlo» [12]; spazi in cui ricomporre ciò che, a partire dalla caccia alle streghe, è stato separato: le terre dei commons, l’alleanza dei corpi, i saperi partigiani femministi e transfemministi.
Note [1] Questo contributo è parte di una riflessione più ampia condivisa e costruita dal Movimento Non una di meno Palermo. [2] S. Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis, Milano 2015. [3] S. Federici, Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei commons, ombre corte, Verona 2018. [4] G.C. Spivak, Can the Subaltern Speak?, in N. Carry – L. Grossberg, a cura di, Marxism and the Interpretation of Culture, University of Illinois Press, Urbana-Champaign 1988, pp. 271-313. [5] Si veda A. Curcio, Produzione, riproduzione, «rottura». Per una critica femminista materialista della realtà, «Etnografie del contemporaneo», vol. 4, 2021, pp. 15-24, e Il femminismo marxista della rottura, in A. Curcio, a cura di, Introduzione ai femminismi. Genere, razza, classe, riproduzione: dal marxismo al queer, Derive Approdi, Roma 2019. [6] S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, ombre corte, Verona 2012. [7] Si veda C. Borgia – G. Palermo, Laboratorio Pandemia. Genere, riproduzione, spazio domestico, «Machina», 21 maggio 2021. [8] Cfr. https://osservatorionazionale.nonunadimeno.net/. [9] Cfr. S. Federici, Caccia alle streghe, guerra alle donne, Nero Editions, Roma 2020. [10] Federici, Il punto zero della rivoluzione, cit. [11] V. Gago, La critica al neoliberalismo come gesto femminista, «Machina», 21 gennaio 2022. [12] Ibidem.
Immagine: Morgan O'Hara, Live Transmissions
* * *
Gabriella Palermo è dottoranda di ricerca presso l’Università degli studi di Palermo, studia le geografie del mare e lavora intorno alla concettualizzazione del Mediterraneo Nero. Fa parte del movimento Non una di meno Palermo ed è vicepresidente del Centro studi e documentazione lotte sociali - Zabut. Per «Machina» ha pubblicato Laboratorio Pandemia: genere, riproduzione e spazio domestico (con Claudia Borgia) e l'intervista a Marcus Rediker Idrarchia, resistenza marittima e la produzione della razza.
Comentarios