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Bioetica in tempi di pandemia

Morale, diritto, libertà



Non c’è, purtroppo, momento più attuale e rilevante per parlare di bioetica di quello presente. Abbiamo attraversato un periodo difficile e triste, dovuto all’emergenza sanitaria provocata dal di ondersi dell’epidemia del Coronavirus. Siamo stati tutti in pericolo. Molta gente, purtroppo, è morta. In questa contingenza drammatica, qualcosa di inaspettato e inedito ha rotto la nostra quotidianità: una malattia contagiosa. Come rispondere a questa epidemia quando si tratta della vita e della morte delle persone è una tipica questione bioetica. Ma quali sono gli strumenti della bioetica? Bastano la morale e il diritto per configurare l’etica della vita? Qual è il rapporto con la giustizia e in cosa consiste una filosofia morale applicata? Quali strumenti fornisce la bioetica alla costruzione della comunità? Anche parlando di bioetica finiamo per imbatterci nella cura del cittadino, del soggetto che si impegna nella comunità e coltiva la solidarietà e la cura dell’altro. Ma oggi questa figura sembra essere sostituita da un’altra, quella del consumatore, fruitore di merci, di immagini, di spettacoli. La pratica morale, allora, non è più sostenuta che da poche evidenze sempre più confuse, sostituite dal luccichio dei tanti schermi che circondano oggi la nostra giornata e dai quali una pandemia non è bastata a distrarci. Il testo che segue è tratto da un’opera di Massimo La Torre che sarà pubblicata da DeriveApprodi nel corso del bimestre marzo-aprile 2022.


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Non ci potrebbe essere, purtroppo, momento più attuale e più rilevante per parlare di bioetica di quello provocata dal diffondersi dell’epidemia del Coronavirus. Siamo tutti in pericolo. Molta gente, purtroppo, è morta. Tanti hanno perso i propri cari e tutti ci sentiamo minacciati. In questa contingenza drammatica che stiamo vivendo, qualcosa di inaspettato e inedito ha rotto la nostra quotidianità, ci ha a lungo recluso, ci ha costretto in casa, ci ha obbligato a non incontrarci. Questa tragedia è una malattia contagiosa. Come bisogna rispondere a questa epidemia, a questa malattia, nei casi in cui si tratta immediatamente della vita e della morte delle persone è una tipica questione bioetica. Ad esempio, è noto che purtroppo nelle strutture sanitarie in Italia non abbiamo tanti ventilatori quanti sarebbero necessari, o forse necessari in futuro, laddove la massa delle persone ammalate dovesse aumentare. La malattia, sappiamo, provoca un’infezione polmonare la quale nei casi più gravi causa pesanti problemi di respirazione che possono essere risolti, spesso, grazie all’utilizzo dei ventilatori nei reparti di terapia intensiva. I ventilatori possono essere in numero minore rispetto alle persone che ne hanno bisogno e allora, come abbiamo letto in un documento dell’Associazione degli Anestesisti Italiani, si raccomanda che, nel caso in cui ci si trovi davanti a questa situazione drammatica, bisognerà scegliere, operare – come si dice ora con un anglicismo tutt’altro che innocente – un triage. Situazione drammatica, terribile. Come facciamo a scegliere? Dobbiamo darci dei criteri. Non possiamo scegliere a caso, in maniera irrazionale, tirando ai dadi o per simpatia o antipatia, o per raccomandazione o corruzione. E non ci sono in una tale situazione, come in ogni altra situazione in cui si debba deliberare l’allocazione di risorse scarse per un trattamento medico, criteri «neutrali», puramente tecnici, medici, perdecidere3. Dobbiamo scegliere secondo un criterio materiale, pubblico ed eticamente accettabile, morale, in modo che la decisione possa essere rivendicata come adeguata e giusta, come corretta e difendibile, da chi la prende.
Siamo qui dinanzi a ciò che si può finire una «scelta tragica», ma bisogna intendersi sul significato di ciò. Non intendo per scelta tragica una situazione nella quale la scelta necessariamente risulti del tutto arbitraria. Tragica è l’effetto della scelta nella «scelta tragica», giacché da essa dipende la morte o la vita di un essere umano. Due soggetti in fin di vita, perché morsi da un serpente velenoso, sono portati d’urgenza in un ospedale. Ma il medico al pronto soccorso dispone di una sola dose di antidoto. Dunque, può salvare solo uno dei due pazienti. Ma quale salvare? La scelta qui è tragica per un doppio ordine di ragioni: perché da essa dipende la vita e la morte, e perché essa provocherà la morte. Il bene realizzato è allo stesso tempo accompagnato da un male che è effetto della decisione che ottiene il bene. Ma la scelta è tragica non perché è necessariamente arbitraria. Il medico cercherà un criterio tale da poter giustificare la sua decisione in un senso o in altro. Ovviamente non può non decidere, perché allora sarebbe la morte di entrambi i pazienti, e ciò risulterebbe del tutto ingiustificabile rispetto alla possibilità di salvarne almeno uno. Ma quale salvare? Si potrà ritenere che sia più giusto salvare il più giovane, o colui su cui si suppone l’antidoto potrà fare più effetto, o colui che è arrivato prima in ospedale. O si potrà anche tirare a sorte. Il ricorso al sorteggio non è necessariamente arbitrario, se si ritiene per esempio che la vita dei due pazienti abbia un identico valore, che tra loro viga un’eguaglianza di diritti, che non potrebbe in altro modo essere soddisfatta. La scelta però rimane tragica, perché, come dice bene Bernard Williams al riguardo, qualunque sia la condotta scelta, questa sarebbe considerata sbagliata, anzi profondamente sbagliata, se essa non si presentasse, come ora succede, come l’alternativa a una diversa condotta, che si ritiene però peggiore. In tal caso, la scelta adottata, anche se agganciabile a un criterio intersoggettivamente giustificabile, ci carica comunque della responsabilità, possiamo anche dire della «colpa», d’un atto. il quale, considerato singolarmente, ci risulta inaccettabile, gravemente illecito e ingiustificabile. È solo a confronto con l’atto e l’effetto qui alternativo che esso può a fatica essere preso in considerazione come la soluzione più o meno corretta. Si potrebbe anche dire che la scelta tragica ha a che vedere col criterio del male minore, adottato e seguito nondimeno con la consapevolezza che esso, il male minore – come sottolinea Hannah Arendt – rimane comunque un male. Il tema in altro contesto, per esempio, quello di certe scelte politiche, o della «ragione di stato», è stato etichettato come quello delle «mani sporche», dirty hands, una situazione che comunque si decida ci «sporca». Nel documento dei nostri anestesisti italiani, che abbiamo letto qualche giorno fa, si sostiene che bisognerà scegliere le persone che hanno maggiori probabilità di sopravvivenza. Ma come facciamo a sapere quali sono queste persone? A questo punto, c’è chi propone una soglia di età per cui le persone più giovani andrebbero preferite a quelle più anziane. Si raccomanda una soglia per cui oltre una certa età (poniamo oltre i 60, 65 o 70 anni a seconda di dove si voglia porre l’asticella) non si accetterebbero più pazienti da inviare in terapia intensiva, cioè da attaccare al ventilatore, il che significherebbe, in molti casi, la morte di questi pazienti esclusi. Ora, questa decisione, questo triage, basato su tale criterio, quello dell’età del paziente, ovviamente si fonda su alcune considerazioni morali. In questo caso la considerazione morale di maggior peso sarebbe che una persona più giovane ha diritto, diciamo, a quel tempo di vita di cui ancora non è riuscita a godere, rispetto a una persona più anziana che invece ha avuto la fortuna di fruire di un certo tempo di vita. Questa è una giustificazione plausibile, ma ce ne possono essere delle altre. Ad esempio, c’è quella relativa al probabile successo del trattamento di terapia intensiva: una persona più giovane è possibile che possa fruire con maggiore successo della terapia rispetto a una persona più anziana, la quale invece per l’età avanzata è meno forte e meno capace di resistere alla malattia o di essere curata nel modo più efficace possibile. Quest’ultimo pare il criterio preferito dai nostri anestesisti che lo intendono precisare con una soglia di età. Il Comitato nazionale di bioetica nel parere emesso in data 8 aprile 2020, afferma innanzitutto che «non si deve [...] adottare un criterio, in base al quale la persona malata verrebbe esclusa perché appartenente a una categoria stabilita aprioristicamente», per poi però concludere che il criterio da adottare sarebbe quello di favorire «i pazienti per cui ragionevolmente il trattamento può risultare maggiormente efficace, nel senso di garantire la maggiore possibilità di sopravvivenza». E tale parere è accompagnato da un’opinione di minoranza di uno dei membri del Comitato, il Professor Maurizio Mori, che approva tout court le raccomandazioni degli anestesisti della Siaarti. Tuttavia, la decisione presa secondo il criterio dell’età può essere contestata. Si potrebbe sostenere che l’età non può essere una ragione per discriminare il valore di una vita: il valore della vita è comunque uguale per tutti gli esseri umani. Si potrebbe allora sostenere che il criterio d’adottare debba essere quello della precedenza temporale: chi si trova per primo in una situazione che necessiti di terapia intensiva, per primo dovrà essere assistito. Ma si potrebbero proporre anche altri criteri. Il criterio della precedenza temporale, vale a dire del «first arrived, first served», non piace al Comitato Nazionale di Bioetica della Spagna. Gli contestano insensibilità verso le diverse situazioni del paziente considerato e dunque una indifferenza rispetto a criteri di uguaglianza e di giustizia: «El criterio de asignaci n basado en la mera prioridad en el tiempo, de manera que el acceso al tratamiento no se haga depender de otros factores, tampoco es respetuoso con el principio de igualdad y justicia. Aunque en apariencia deja la prestaci n en manos del azar (la llegada antes o después al centro hospitalario), al no incluir elemento valorativo alguno, asume la err nea presunci n de que la comunidad est dividida en sujetos en perfecta situaci n de igualdad, y no se requiere de la implementaci n de mecanismo corrector alguno». Il criterio del «primo arrivato» è altresì contestato dalla SIARRTI, l’associazione degli anestesisti italiani. A esso si preferisce quello della probabilità di sopravvivenza, della capacità di una buona risposta al trattamento, indipendentemente dall’età del paziente. Ma si potrebbe obiettare che questo criterio, un siffatto triage, è discriminatorio, ed è orientato alla sopravvivenza del più forte, un criterio rudemente darwiniano, escludendo i deboli dalla chance della cura. Tale tragica contingenza comunque mette in gioco immediatamente il ragionamento morale e richiede, per l’appunto, una riflessione bioetica. Questa situazione della decisione rispetto a chi debba fruire del trattamento e infine del ventilatore richiede la determinazione di criteri che guidino la scelta, e tali criteri non possono che essere di carattere morale, giacché qui è in gioco uno dei beni fondamentali della condizione umana, la vita. Nella comunità di Madrid in Spagna, in queste settimane dell’inverno 2020, vi è, come in molte altre regioni d’Europa, un’esplosione di contagi, e questi, come del resto altrove, e in Italia pure, si concentrano nelle case di riposo per anziani. Queste sono diventate dei luoghi dove rapidamente e letalmente si diffonde il contagio, dovuto ciò specialmente alla fragilità delle condizioni di salute dei residenti, tutti molto anziani e spesso afflitti da varie patologie, e alla loro concentrazione in spazi ristretti, e possibilmente anche alla poca cura che talvolta si offre a tali soggetti particolarmente deboli. Orbene, la comunità di Madrid, presieduta da una politica del Partido Popular, un partito di centrodestra, Isabel Diaz Ayuso, con dei protocolli del suo Assessorato alla Sanità, pare aver ristretto la ospitalizzazione degli anziani contagiati solo ai soggetti, tra l’altro, che non siano costretti su una sedia a rotelle. Sorge immediatamente al riguardo la domanda: Sarà questo un criterio legittimo? È ragionevole e moralmente accettabile una siffatta decisione? La bioetica ha il compito di porsi la domanda e dare una risposta. Invero, noi ci ritroviamo con dilemmi che attengono alla bioetica in una molteplicità di situazioni. Qui abbiamo a che fare piuttosto con scelte di vita. Ad esempio, una materia che possiamo ritenere legata alla bioetica è quella di come concepire il matrimonio, cioè di come concepire il rapporto di convivenza tra due persone istituzionalizzato e formalizzato. Una prima questione potrebbe essere se questo rapporto debba essere permanente e non possa essere riveduto o sciolto, cioè la questione del divorzio. Oggi nell’ordinamento giuridico italiano abbiamo il divorzio, ma la possibilità del divorzio è relativamente recente. Viene introdotto all’inizio degli anni Settanta; c’è anche un referendum nel ’74 in cui una parte della popolazione italiana, una parte politica cattolica, propone un referendum abrogativo della legge sul divorzio. Nel referendum il partito dell’abrogazione, il partito del sì, viene sconfitto e quindi la legge sul divorzio viene mantenuta, la possibilità di divorziare viene salvaguardata. Oggi sembra qualcosa di ovvio, di indiscusso e indiscutibile, ma non è stato sempre così. Io ricordo bene la situazione di molte famiglie in cui marito e moglie non vivevano più insieme e tuttavia non potevano divorziare, con tutta una serie di implicazioni abbastanza dolorose, in particolare per i figli, figli naturali, figli fuori dal matrimonio, ecc. Naturalmente, decidere se un matrimonio debba avere o meno la possibilità di essere sciolto è espressione di una scelta etica, di una scelta morale che si esprime nella concezione della convivenza, nella concezione di ciò che è la famiglia, di ciò che è la vita insieme, la vita comune di due persone, e dunque la buona vita come bene fondamentale della condizione umana. Il problema si è riproposto più di recente per quanto riguarda la possibilità di matrimonio delle coppie omosessuali. In Italia adesso abbiamo la possibilità di avere una protezione e un riconoscimento giuridico pieno delle coppie omosessuali, sebbene non di «matrimonio», ma questa possibilità è stata fortemente ostacolata, combattuta ed è ancora per certi versi fortemente controversa. La possibilità di concepire e riconoscere come lecite e meritevoli di tutela giuridica coppie omosessuali dipende, per l’appunto, dall’idea che ci si possa fare di una famiglia, laddove si legga la famiglia in un certo modo, per esempio come società «naturale», secondo una certa concezione etica, oppure si ritenga che la famiglia abbia un’altra conformazione in cui fosse possibile pensare a due coniugi che abbiano lo stesso sesso. Ciò, naturalmente, mette in gioco anche la concezione che noi abbiamo della vita sessuale e della sessualità; mette in gioco l’investimento morale che noi abbiamo rispetto alla vita sessuale. Una possibilità potrebbe essere quella in cui si sostenga che la vita sessuale sia qualcosa del tutto destinato alla decisione libera dei soggetti, che si giustifichi per quanto decidano i soggetti in essa implicati, fermo restando che in ogni caso non ci debba essere violenza, né sfruttamento o sottomissione di un soggetto rispetto all’altro. Si potrebbe ritenere che tra i diritti umani ci sia, e non secondario, un diritto alla sessualità, dove questa allora è il prodotto del libero gioco dei desideri e delle fantasie degli individui. Oppure invece si potrebbe sostenere un’altra visione della sessualità per cui c’è un solo tipo di sessualità, per cui essa è in qualche modo legata a una funzione specifica naturale che ha una sua intrinseca moralità. Ad esempio, si potrebbe sostenere e si sostiene che la sessualità sia destinata alla riproduzione della specie umana, cioè che si giustifichi soltanto nei termini del concepimento di una nuova vita umana. Si ritiene che debba essere finalizzata alla riproduzione, cioè alla produzione di un altro essere umano, e in questo caso, ovviamente, l’omosessualità, che questa finalità evidentemente non può avere, viene bandita come immorale. Così come, assumendo la posizione etica secondo cui la sessualità è legata alla riproduzione, del pari immorale è qualunque tipo di sessualità eterosessuale non finalizzata alla riproduzione. Pensate alla pratica di avere rapporti sessuali protetti, cioè utilizzando delle procedure o dei meccanismi tali da non permettere la riproduzione, oppure pensate a pratiche sessuali assolutamente soggettive, in cui non si mette in gioco il rapporto con l’altra persona: anche queste pratiche dovrebbero essere considerate come immorali. Sembra talvolta usarsi rispetto alla morale sessuale una prospettiva argomentativa opposta a quella che molti propongono per la morale di ruolo, per esempio la deontologia dell’avvocato. Per questa spesso si fa valere ciò che è stata chiamata la «scusa istituzionale», cioè l’argomento per cui condotte generalmente ritenute illecite moralmente risulterebbero lecite, laddove fossero compiute dentro una istituzione, ovvero nell’adempimento di un ruolo istituzionale. La morale dell’avvocato, o del politico, sarebbe così meno stringente di quella dell’uomo comune. Condotte che sarebbero considerate delle vere e proprie mascalzonate se messe in atto dall’uomo della strada diventano qui esempi di virtù professionali. Nel caso della morale sessuale pare accadere il contrario. Condotte che se controfattualmente realizzabili in ogni altra sfera sarebbero in ultima analisi considerate lecite, poiché non danneggiano nessuno, non causano del male fisico né morale a coloro ai quali sono dirette, e anzi possono dirsi espressione di attenzione e di affetto, e servono a procurare e procurarci piacere, sono curiosamente considerate illecite.
Rispetto alla morale sessuale vediamo spesso applicata una strategia argomentativa che non può che lasciare perplessi. Su questo terreno si àncora la liceità morale di una condotta alla sua pretesa «naturalità». L’omosessualità sarebbe allora immorale perché «contro natura». Stessa cosa ogni attività sessuale non rivolta alla procreazione, giacché – si afferma – il sesso è per natura finalizzato alla procreazione. Ora, rispetto a questa maniera di argomentare si possono subito sollevare due obiezioni. Innanzitutto, quella della cosiddetta fallacia naturalistica: dalla mera osservazione o registrazione di un fatto non si può far derivare la prescrizione o posizione di una norma. Vi è un salto, non logicamente fondato, da un enunciato descrittivo a uno prescrittivo, da un «essere» a un «dover essere». Dal fatto che si dia in natura il vaiolo non risulta che il vaiolo sia anche buono. Ma nel passato, va detto, la posizione «naturalista», in genere di carattere religioso o clericale, fu usata per opporsi ai vaccini contro il vaiolo, perché ritenuti per l’appunto «contro natura». Dovremmo allora opporci al vaccino contro il Covid? D’altra parte, potremmo condividere la concezione pessimista della natura per esempio sostenuta da pensatori come Arthur Schopenhauer o Giacomo Leopardi. Per entrambi la natura è il luogo per eccellenza della sordità e dell’indifferenza morale, uno spazio di violenza e spietatezza e di progressiva degradazione e decomposizione. Da un tale spazio non può estrarsi nessun insegnamento morale. Che è un po’ ciò che dice Socrate nell’incipit del Fedro, un famoso dialogo di Platone, nel quale Socrate invitato dall’amico Fedro a uscire dalle mura di Atene per una passeggiata in campagna, gli risponde con un diniego, così motivandolo: «È che a me piace imparare, ma i campi e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla, sì però gli uomini nella città [φιλομαθὴς γάρ εἰμι· τὰ μὲν οὖν χωρία καὶ τὰ δένδρα οὐδέν μ ̓ ἐθέλει διδάσκειν, οἱ δ ̓ ἐν τῷ ἄστει ἄνθρωποι] (230d). Ma vi è un’ulteriore possibile obiezione all’argomento naturalista, e una che estraiamo dall’insegnamento degli studi antropologici. L’antropologia, lo studio comparato delle varie civiltà umane nel corso della storia, ci fornisce uno sguardo meno etnocentrico sulla condizione umana, ed è dunque da raccomandare come propedeutico a ogni riflessione filosofica, specialmente di filosofia pratica (morale, politica, e giuridica). Esso, infatti, ci mostra come la presunta «tradizione» di cui noi ci facciamo interpreti, o talvolta ci ammantiamo, spesso sia solo una somma di pregiudizi, o comunque di regole convenzionali, contraddette in altre esperienze culturali storiche. Ciò però non deve sospingerci nelle braccia dello scetticismo o del relativismo nichilistico, per cui «everything goes», «tutto fa brodo» – potremmo dire in italiano, ogni valore o norma storicamente affermatosi e praticato è legittimo. Ci dovrebbe sospingere invece, più plausibilmente, a fornire dei nostri valori e delle nostre convenzioni una giustificazione valida e universalizzabile. L’antropologia ci allarga la vista, e ci impedisce di fissare il nostro ombelico come centro del mondo, specie di quello normativo. Orbene, gli studi antropologici ci dicono tra l’altro che la sessualità umana è vissuta in varie e molteplici maniere, e che per esempio il sesso non procreativo è talvolta considerato moralmente superiore, più umano e spirituale, e addirittura più consono alla religione, del sesso procreativo. È ciò che avviene tra i Sumeri, la cui esperienza è così riassunta da David Graeber: «Procreative sex was considered natural (after all, animals did it). Non procreative sex, sex for pleasure, was divine».



Immagine: Chiara Susanna Crespi, Toro


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Massimo La Torre insegna all’Università di Catanzaro. È stato ricercatore e professore associato dell’Università di Bologna e ricercatore e professore dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze. Presso le nostre edizioni ha pubblicato: Nostra legge è la libertà. Anarchismo della modernità (2017).


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