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Berlusconi, ieri e oggi

Dalla discesa in campo all'ascesa di Giorgia Meloni




Silvio Berlusconi
Immagine: Silvio Berlusconi, immagine di pubblico dominio

Non c'è soggetto che più di Berlusconi ha segnato la politica italiana degli ultimi 30 anni. Pancho Pardi ricostruisce la storia della sua ascesa: da pescecane della tv commerciale ad apostolo del pluralismo televisivo; da politico improvvisato ad audace inventore del moderno bipolarismo. Ne viene fuori il ritratto di un uomo che sfrutta Mani Pulite, la fine di Craxi e la crisi istituzionale per emergere, innovando le forme della politica.

Nonostante le sconfitte dei suoi ultimi anni - dalla caduta del governo 2011 alla mancata nomina al Quirinale - Berlusconi ha riportato un successo indiscutibile: la vittoria di Giorgia Meloni è, infatti, la sua vittoria.


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«Ancora Berlusconi! Ma siete proprio fissati!» Tante volte è stata così la risposta sprezzante alle critiche mosse dalle voci della società civile. Oggi sarebbe facile rovesciare la battuta su altri destinatari. Almeno due. Poste Italiane annuncia l’uscita di un prossimo francobollo destinato al personaggio. Netflix diffonde un nuovo programma, «Il giovane Berlusconi», e manda in visibilio Giuliano Ferrara su «Il Foglio» perché annichilisce «l’antiberlusconismo, specchio opaco e triste della cosa più scintillante che l’Italia ha prodotto dopo la Liberazione e il boom degli anni Cinquanta e Sessanta».

Ferrara sarà ancora più contento di fronte a un fatto: anche per i suoi oppositori Berlusconi, a un anno dalla scomparsa, è ancora d’attualità. Lo è in un recente libro di Gianni Barbacetto, Una storia italiana, che ripercorre la sua esperienza per sintesi tematiche distinte, passando in rassegna tutti i punti su cui l’antiberlusconismo si è battuto nell’ultimo quasi trentennio. Un utile promemoria sul mito dell’uomo che si è fatto da solo e sui danni che la società italiana avrebbe potuto risparmiarsi. I capitoli scandiscono un crescendo martellante.

Il costruttore di città opera con soldi ignoti in una serie di holding misteriose, fin dall’inizio con l’aiuto di amici siciliani. Il genio della tv commerciale, dal nulla diventa il solo monopolista televisivo con l’aiuto essenziale di Craxi e del pentapartito. Il genio del calcio con i soldi infiniti della pubblicità costruisce una squadra che vince tutto in Italia e nel mondo, edificando l’immagine del vincente irresistibile. L’affiliazione alla P2 e la fondamentale legge Mammì, che lo rafforza nel monopolio, mostrano l’appoggio tanto dei poteri occulti quanto del potere politico. La caduta di Craxi e del pentapartito sotto le inchieste di Mani Pulite pone la necessità di sostituirlo in prima persona con un partito inventato in un anno con gli uomini della sua azienda pubblicitaria. Subito dopo la falla nelle istituzioni: l’ineleggibile eletto, divenuto Presidente del consiglio, dimentica la rivoluzione liberale che aveva promesso e obbliga il Parlamento a occuparsi solo delle leggi necessarie a evitare la giustizia e a proteggere le sue aziende. Poi l’inizio della crisi: il dominio incrinato, le rare inchieste sfuggite alla tagliola parlamentare, l’acquisto dei senatori «responsabili» per salvare la maggioranza zoppicante, la condanna definitiva. Segue un lungo capitolo riassuntivo sulle relazioni con la mafia. E per finire le cene «eleganti».

Dalla sequenza risulta evidente come fin dall’inizio la sua resistibile ascesa sia stata aiutata da forze che avevano contato sull’appoggio prima solo finanziario poi televisivo delle sue imprese. E come la sua salita al ruolo di comando sia stata in breve accettata, anche se obtorto collo, dai politici sostituiti e, con stupefatto entusiasmo, dall’elettorato moderato rimasto senza rappresentanza. Il successo ha creato il mito: il pescecane della televisione commerciale è diventato l’apostolo del pluralismo televisivo; il politico improvvisato è stato celebrato come l’audace inventore del moderno bipolarismo. Ma in qualsiasi rassegna spicca in primo piano l’incapacità delle forze di centrosinistra di capire il fenomeno e di opporvisi con la necessaria decisione. La legge 361 del 1957 stabiliva l’ineleggibilità dei titolari di concessioni d’interesse pubblico; Berlusconi era titolare della concessione sull’etere ma la legge non venne applicata per tempo e quando si venne in ritardo alla verifica il concessionario era ormai Confalonieri, suo fedelissimo braccio destro. Quando il centrosinistra vinse le elezioni del 1998 e governava Prodi, D’Alema si dedicò al compito strategico di riscrivere la Costituzione insieme a Berlusconi nella apposita Commissione Bicamerale; questa dopo aver elargito concessioni sulla giustizia fu fatta subito cadere da chi ne aveva ricevuto il favore. Con la teoria che non bisognava «demonizzare» Berlusconi il centrosinistra ha spianato la strada a un soggetto che in nessun paese europeo avrebbe potuto entrare in Parlamento, impedito egualmente dalla legge o dalla consuetudine. Oggi, sulla base del fatto compiuto, la presenza di un monopolista televisivo insediato nell’assemblea elettiva e addirittura alla guida del governo è considerata da una parte cospicua dell’opinione pubblica come un evento della modernità, superamento di anacronistici impacci. Il miliardario al potere appare anticipazione di fortune analoghe: Trump negli USA, Sunak nel Regno Unito (questi comunque senza televisione propria).

Ma non è più per queste ragioni che Berlusconi è ancora d’attualità. Né gli insuccessi degli ultimi anni valgono a smorzarla. Sì, Berlusconi ha avuto alti e bassi. Aveva dovuto digerire, alla fine di un quinquennio fortunato, la sconfitta della sua riforma costituzionale nel 2006, ma si era rifatto col ritorno al governo nel 2008 e partecipando attivamente alla sconfitta nel 2016 della riforma di Renzi (non tanto diversa dalla sua, almeno nel rafforzamento smisurato dei poteri dell’esecutivo). Nel 2011 ha dovuto lasciare il governo per manifesta insufficienza nel gestire le difficoltà economiche del paese, e sul finire del suo tempo ha mancato la presidenza della Repubblica, per cui nutriva un inesausto desiderio impossibile. Così all’Italia è stata risparmiata l’ignominia di vedere la Televisione al Quirinale. La sua originaria intuizione politica, dopo il crollo dell’Urss, di un Putin conquistato al concerto della democrazia internazionale è svanita di fronte al consolidamento totalitario della Russia e alla sua sempre più aggressiva pulsione imperiale, dalla guerra in Cecenia a quella in Ucraina. Ma su almeno un piano sostanziale il Berlusconi sconfitto ha invece riportato un successo indiscutibile.

La vittoria di Meloni è la sua vittoria. L’idea politica più robusta e longeva di Berlusconi è anche la prima, e precede la sua entrata in Parlamento. Quando dichiarò che se avesse votato per il Comune a Roma avrebbe scelto senza dubbio Fini contro Rutelli. Al contrario di Chirac che preferì perdere piuttosto che ricevere i voti della destra di Le Pen, Berlusconi prefigurò l’alleanza con i postfascisti come tassello fondamentale della sua futura maggioranza. Si conquistò così la loro più convinta fedeltà. Essi non l’hanno mai tradito. La Lega di Bossi gli tolse presto l’appoggio in Parlamento e lo costrinse a un lungo passaggio all’opposizione. Invece, ai postfascisti Berlusconi ha potuto distruggere il loro leader, Fini, che dava per scontato il suo ruolo di successore, senza perdere l’appoggio del partito, che si è ritenuto molto più al sicuro con il protettore esterno che col suo leader storico. Se qualcuno ne è uscito lo ha fatto per entrare direttamente nel partito del capo (Gasparri in Forza Italia). Certo Berlusconi ha contato troppo sulla sua personale fortuna e non aveva previsto il fluido trascorrere dell’elettorato dal suo enorme partito, e anche dalla Lega, nella piccola compagine di Fratelli d’Italia, fino all’impressionante rovesciamento delle proporzioni. Nessuno è perfetto. Ma anche nella tristezza dell’esperienza finale lo stupore di vedersi surclassato dalla ragazza di bottega deve essere stato temperato dalla certezza di esserne stato l’inventore, immemore della storia dell’apprendista stregone.

Se Berlusconi non avesse sdoganato i postfascisti non avrebbe avuto una maggioranza e non avrebbe governato. I postfascisti hanno fatto tesoro della loro fedeltà e ne colgono i frutti. Hanno avuto la costanza di resistere per anni come minoranza quasi marginale accanto ai più robusti alleati, ma al momento opportuno, quando questi si indebolivano, hanno saputo usare nel modo più efficace la legge elettorale incostituzionale che Renzi fece votare ripetutamente con voto di fiducia, illudendosi di esserne il solo beneficiato. Ancora minoranza nella società, i postfascisti sono ora grazie a quella legge maggioranza ingombrante in Parlamento e lì con la potenza del numero vogliono imporre il premierato assoluto che non era riuscito a Berlusconi e compensare la Lega col regionalismo differenziato. Inseguono il loro sogno di sfigurare la Costituzione nata dall’abbattimento del loro regime originario. Sono a un passo dal farlo. Sono giunti fino a qui aiutati e spinti da Berlusconi: «la cosa più scintillante che l’Italia ha prodotto dopo la Liberazione…».

 

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Francesco «Pancho» Pardi è stato docente di Geografia urbana e regionale presso l’Università di Firenze. Animatore della stagione dei Girotondi, è stato senatore della XVI legislatura. Tra le sue pubblicazioni: Che disgrazia l’ingegno! Democrazia, Costituzione, riforme (Maschietto Editore, 2016), La spina nel fianco: i movimenti e l’anomalia italiana (Garzanti, 2004).

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