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Abolire il carcere



Pubblichiamo la prefazione de La fuga dal carcere. Le evasioni diventate storia (DeriveApprodi, 2011) di Lanfranco Caminiti, su un tema di stringente attualità.


* * *

Nella Vita di san Francesco d’Assisi scritta da san Bonaventura da Bagnoregio, si racconta che: «1291. Al tempo in cui sedeva sulla cattedra di Pietro papa Gregorio IX, un certo Pietro, della città di Alife, accusato di eresia, fu preso prigioniero a Roma e, per mandato dello stesso pontefice, affidato alla custodia del vescovo di Tivoli. Questi, impegnato a non lasciarselo sfuggire, pena la perdita del vescovado, lo fece incatenare e rinchiudere in un’oscura prigione, dove gli veniva dato il pane a peso e l’acqua secondo misura. Ma quell’uomo, avendo saputo che si approssimava la vigilia della festa di san Francesco, incominciò a invocarlo con molte preghiere e lacrime, perché avesse pietà di lui. E siccome era tornato alla fede sincera, rinnegando ogni errore ed ogni prava eresia, e si era affidato con tutta la devozione del cuore a Francesco, campione della fede di Cristo, meritò di essere esaudito dal Signore, per intercessione del Santo. La sera della sua festa, sull’imbrunire, il beato Francesco pietosamente scese nel carcere e, chiamando Pietro per nome, gli comandò di alzarsi in fretta. Invaso dal terrore, il prigioniero gli domandò chi fosse e si sentì rispondere che era il beato Francesco. Intanto vedeva che, per la presenza miracolosa del Santo, i ceppi erano caduti infranti ai suoi piedi, le porte del carcere si aprivano, mentre i chiodi saltavano via da soli, e gli si spalancava davanti la strada per andarsene. Pietro vedeva tutto questo, vedeva che era libero: eppure, paralizzato dallo stupore, non riusciva a fuggire; soltanto si mise vicino alla porta e incominciò a gridare, facendo spaventare tutte le guardie. Venuto a sapere da loro che il prigioniero era stato liberato dai ceppi e il modo in cui si erano svolte le cose, il pio vescovo si recò nel carcere e là, riconoscendo ben visibile la potenza di Dio, si inginocchiò ad adorare il Signore. Quei ceppi furono poi mostrati al Papa e ai cardinali che, vedendo quanto era accaduto, benedissero Dio con sentimento di grandissima ammirazione». (Francesco libera l’eretico Pietro di Alife – Legenda maior Mir. V, 4).

Ecco, non c’è detenuto di qualsiasi prigione del mondo che non sogni gli capiti come a Pietro di Alife, che venga san Francesco a sciogliergli i ceppi e aprirgli le porte verso la libertà.

I miracoli, però, non succedono mai ai detenuti o accadono di rado. E per evadere, come dice Renato Vallanzasca, «ci vogliono almeno cinque minuti», cioè ci vogliono organizzazione, amici fuori che ti sostengono prima e dopo, complici, armi, strutture, soldi, corruzione, tutto un ambaradam che non metti in piedi in cinque minuti e dove non basta il fegato o il culo.

Io lo so. Ci ho provato anch’io nei miei anni di carcere. Da solo. Senza successo. A Napoli, a Poggioreale, m’avevano sbattuto al padiglione San Paolo, che funzionava da ospedale interno, dopo un lunghissimo sciopero della fame per evitare di finire negli speciali (dove, invece, dopo un primo accomodamento, Dalla Chiesa ci spedì) che m’aveva ridotto uno scheletro; e lì c’era una maggiore libertà di movimento. Quasi tutti ci stavano per motivi che poco avevano attinenza con le malattie, erano dei privilegiati o per motivi propri o per motivi graditi alla direzione del carcere. Il padiglione era a ridosso del portone di accesso di Poggioreale. Una posizione strategica. Da una finestra con le inferriate vedevo proprio il portone, un pezzo di camminamento e la garitta delle guardie. Non era impossibile arrivarci. E avrei potuto fare tutto da solo. O quasi. Però, a Napoli, una volta scappato, potevo contare su appoggi esterni, mi avrebbero nascosto e protetto, per il periodo necessario. E questo, dove andare subito dopo l’evasione, è proprio un elemento fondamentale, che devi programmare prima. Cominciai a muovermi su e giù nel padiglione, con prudenza ma forse troppo, e ebbi la sventatezza – ero ancora fresco di galera – di parlarne con qualcuno. Mi spedirono negli speciali in quattro e quattr’otto. Ancora a Napoli anni dopo, di passaggio per un processo in una sorta di specialino, da fuori erano riusciti a farmi entrare una lima nascosta in un blocco notes, sottilissima ma efficientissima, professionale. Non sapevo bene dove era meglio segare, dove sarei finito uscito dalla cella, però da dove stavo io si raggiungevano dei tetti e magari da lì. Cominciai a provarci, senza tagliare a fondo le sbarre perché le sbattevano ai turni di controllo. Funzionava. Avevo poco tempo, perché il processo sarebbe durato poco. Ero indeciso se provarci subito o tenermi l’occasione per un’altra volta, organizzandola meglio, magari non da solo. L’incertezza mi fregò. Fui rispedito negli speciali, di notte e non potei portarmi dietro la lima che avevo nascosto nel bagno perché furono le guardie della squadretta a mettere assieme le mie cose – facevano così: arrivavano in sette, otto e ti prendevano com’eri nel letto e ti impacchettavano senza il tempo di dire bah. Io non ci tornai più là e non l’ho mai detto a nessuno. Magari è ancora là, quella lima. E poi l’oblò, il mitico oblò del traghetto tra la Sardegna e Civitavecchia. Ti gettavano nel ventre della nave, quando ti trasferivano dallo speciale di Badu e’ Carros, in una specie di cella galleggiante, con un cancello di sbarre all’ingresso – dove stavano i carabinieri a smaltire la notte sonnecchiando – e gli oblò, protetti anch’essi da sbarre esterne. Ai passeggi c’era chi raccontava di averci provato e che ce l’aveva quasi fatta, che c’era rimasto incastrato mezzo dentro e mezzo fuori perché troppo grosso. Chiacchiere da passeggio. Io però non ero grosso. Io ci sarei passato. Se riuscivo a aprirlo quell’oblò. Quando la nave sarebbe stata vicina all’attracco, coi motori al minimo, era quello il momento buono. Civitavecchia non era il massimo, ma non era lontana dai posti dove mi sarei potuto acquattare per un po’ a far passare la buriana. L’oblò, poi, lo aprii, era vero che lo avevano lasciato un po’ lento. Ma le sbarre erano impenetrabili. Avessi avuto la mia lima professionale. Niente da fare. Ci tornai in quel traghetto, e stavolta meglio attrezzato. Ma a questo giro di giostra fu impossibile smuovere i bulloni dell’oblò.

Forse, mi è andata bene così, a pensarci adesso.


Tra le ingiallite carte e ormai polverose – scrivevamo su carta vergatina, leggerissima e fragilissima – dei miei anni di carcere ho ritrovato due papiri di cui riporto qui alcuni stralci. Il primo ha in calce la data del luglio 1981, dal carcere di Fossombrone. Recita così:

«Proviamo ora a delineare tracce di movimento.

a) Contro il carcere, luogo del non-tempo. Il carcere è il luogo del non-tempo; la giornata coatta occupa interamente il tempo biologico del prigioniero e il non-tempo oggettivo distrugge il tempo soggettivo. Il prigioniero è uomo senza-tempo, privato del tempo. Ergastolo bianco, un ergastolo al giorno, questa è la pena minima cui siamo condannati. C’è una duplice battaglia da condurre, sul versante della pena-diritto e sul versante della fabbrica-carcere, ma occorre ricondurla a un’unica espressione: «Liberare tutti, distruzione del tempo-carcere, estinzione della pena». Dentro questo orizzonte deve trovare spazio una riproduzione spontanea di lotte, perché non siano veicolo di separatezza, tematizzandole, connettendole, indirizzandole; per l’abolizione dell’ergastolo, per l’abolizione della carcerazione preventiva, per l’azzeramento di tutte le pene, per l’abolizione della recidiva, per l’abolizione delle misure di polizia di prolungamento della pena, per il condono garantito a tutti; e dentro il carcere per opporsi al controllo dei ritmi della giornata coatta, perché siano senza-tempo le ore d’aria, di colloqui, di socialità.

b) Contro il carcere, luogo di non-spazio. Gli edifici-carcere sottrazione di spazio alla mobilità della socialità umana, vengono sempre più dislocati dalla memoria concreta, dalla memoria quotidiana, dagli occhi della città, spostandoli in zone di militarizzazione (così San Vittore per Milano va a Opera, le Nuove per Torino va alle Vallette, le Murate per Firenze va a Solicciano, ecc.) come per i carceri speciali o in isole lontane. Dentro, i movimenti fisici del prigioniero vengono sempre più irrigiditi, ridotti, sbarrati, robotizzati. Liberare tutti, abolizione e distruzione dello spazio-carcere. Impedire e opporsi alla fabbricazione di altri carceri, alla sottrazione di altro spazio, all’alienazione militare di altro spazio. I carceri vanno smantellati, sbriciolati; anche qui, dovremo saper indirizzare lotte quotidiane per la deinsularizzazione, per l’opposizione ai trasferimenti di deportazione e perché questi avvengano piuttosto secondo i bisogni di avvicinamento ai propri luoghi, alle famiglie, alle proprie scelte, per eliminare il ricatto politico della mobilità geografica, per la rimozione di ogni separatezza interna dello spazio-carcere tra grandi e piccoli, tra isolamenti e osservazioni e reparti e bracci e celle d'isolamento, tra maschili e femminili, perché massima sia la mobilità interna che si costruisca propri spazi di attività manuale, intellettuale, fisica, culturale.

c) Contro il carcere, luogo di desocializzazione. "Distruggere i malfattori delle nostre contrade cavando loro dalle vene, goccia a goccia, il sangue che siamo troppo vili per spargere con un colpo solo, mettendo fine una volta per tutte, sia pure in maniera cruenta, alle loro sofferenze, è ritenuto mille volte preferibile all’antiquato taglio della testa; lo si ritiene, voglio dire, molto meno doloroso per la vittima e molto più in accordo con lo spirito umanitario del secolo; eppure, con quali mai parole descrivere le sofferenze che così infliggiamo a quei disgraziati che noi muriamo vivi nelle nostre carceri, che condanniamo a perenne solitudine, pur nel cuore delle nostre popolose città?" (Herman Melville, Taipi, 1840). Questa tremenda ipocrisia condanna un uomo al carcere, alla non-vita, alla morte sociale. Questa terribile macchina di annientamento della propria capacità di determinazione rende tutto-dipendenti perché individui cubicolizzati, soli. Rendere visibile il carcere, rendere visibile l’appartenenza esterna al carcere per un verso o per l’altro, invadere il carcere di socialità di liberazione. Liberare tutti, invadere il carcere, socializzare la comunità prigioniera. E dovremo saper rapportarci con lotte per colloqui senza limiti di numero e di durata e di parentela, per incontri con rappresentanti di movimenti e gruppi sociali e realtà di vita comune e di comunicazione sociale e chiunque lo voglia, per colloqui interni maschili-femminili, per il diritto alla sessualità e alle sessualità, per consentire la massima comunicazione interno-esterno di ricerca, di elaborazione, di sperimentazione.

d) Contro il carcere, luogo di malattia. Il carcere è una malattia incurabile, è il sanatorio e il lebbrosario di oggi, fabbrica di nocività, di distruzione lenta ma inesorabile, della malattia societaria per eccellenza, l’impazzimento. Qui, ogni giorno la vita baratta se stessa, la vita cerca l’incurabilità per poterla barattare con la vita, la vita propria e quella degli altri è la sola merce di scambio per la vita stessa, la vita si classifica sulla base della quantità di non-vita, l’implosione di vitalità è talmente forte da sentire giorno per giorno la tumoralità delle proprie cellule. Liberare tutti, bonificare la palude-carcere con l’atto ecologico della distruzione per un ecosistema di libertà. Anche qui, costruiamo un rapporto con le lotte per la liberazione di chiunque abbisogni di cure adeguate, terapeutiche farmacologiche chirurgiche psichiche, non praticabili in carcere, per l’attenzione di coordinamenti e comitati di medici e paramedici, per ribaltare l’individualizzazione nel degrado in comunitarietà per l’esistenza.

Ecco, sono tracce di movimento, tracce per un Movimento Prigioniero, che sia soggetto di liberazione in questa mutazione di umanità verso una comunità umana libera».

L’altro documento porta la data del 1983 e fu scritto a Rebibbia. E recita così:

«1) Carcere ed Enti Locali. Crediamo anzitutto che vada stabilito un rapporto continuo tra carcere e territorio, tra soggetto imprigionato e strutture sociali del territorio. È la prima importante questione. Il carcere viene dislocato verso le periferie, zone militarizzate, come fossero Cayenne, Guyane. Viene sottratto alla sua struttura primaria, la città. Noi invece crediamo sia fondamentale un nesso stretto, stabile, continuo tra la città e i “suoi'” prigionieri, tra le strutture amministrative del carcere e i cittadini della “loro” città. Ecco, se è possibile sintetizzare, diremmo orizzontalizzare il carcere, e non verticalizzarlo. Orizzontalizzare significa aprire il carcere alla società, alla città, ai suoi cittadini, alle sue istituzioni, ai suoi movimenti, alle sue forze vive di lavoro, di ricerca scientifica, di cultura. In questo, gli Enti locali devono avere un’importanza basilare. Non verticalizzarlo significa non delegarlo all’Amministrazione centralistica. La stessa legislazione vigente dà già qualche possibilità. In questa prospettiva – aprire il carcere alla città – crediamo che la questione del lavoro si debba affrontare subito con concretezza. Lavoro interno e lavoro verso l’esterno. È attorno il criterio del lavoro socialmente utile che noi chiediamo proposte e realizzazioni. È attorno il criterio della cooperazione che intendiamo possano svilupparsi forme di produzione. Rovesciare l’etichetta di pericolosità sociale attraverso vere e proprie iniziative di sperimentazione. Verso l’esterno in cooperative di lavoro, con forme di semilibertà si potrebbero realizzare iniziative contro il degrado ambientale, l’inquinamento industriale, per l’equilibrio ecologico. Verso l’interno (e in questo, come per il resto, è importante un rapporto con gli Enti Locali oltre che con gli organismi sindacali) si potrebbero costituire dei corsi che tengano il passo con le trasformazioni produttive e il largo impiego di nuovi strumenti (elettronica, informatica), tenendo presente come è mutato in alto il livello di scolarizzazione e di acculturazione media in carcere. Si potrebbe anche pensare a rapporti di lavoro con l’Università, gli Enti locali, le imprese.

2) Trasformazione del carcere. Questo vuol dire anzitutto vincere il custodialismo, l’ideologia segregativa. Il teorema carcere conferma se stesso, produce carcere a mezzo di carcere. Eppure, deve esserci una via di fuga. Noi crediamo che stia nella forza d’una cultura dell’uomo come elemento sociale. Per questo ci battiamo per scoprire qui, nel carcere, valori umani, di cooperazione, di comunità, rapporti improntati allo scambio e non alla sopraffazione, opponendoci simmetricamente alla violenza insita nel carcere, opponendoci alla disperazione individuale, all’autolesionismo e alla prevaricazione della legge della giungla. Ma una comunità non può vivere su se stessa, rischia di morire o di diventare clan, di risolversi in un ghetto, nella riproposizione della marginalità. Bisogna trovare mille fili di rapporto con l’esterno, interlocutori plausibili, interessati, attenti. Pensare a un grande lavoro di cooperazione significa superare la concezione individualistica che il trattamento penitenziario ha del prigioniero, riproducendo valori antisociali; bisogna dunque pensare a un’ecologia dell’elemento comunitario che bonifichi l’immiserimento del carattere sociale. Questo può darsi certamente con lo sviluppo di sperimentazione sul lavoro utile, ma anche con l’invasione del carcere da parte della società. L’Università potrebbe fare corsi di Storia, veri e propri seminari di storia moderna e contemporanea, senza necessariamente un fine di titolo di studio. Come se fossero le 150 ore. Corsi di lingue straniere e tanto altro. I sindacati potrebbero fare degli incontri di storia sindacale, nozioni elementari di economia del vivere quotidiano. E poi ancora, promuovere tutte le attività creative, gli interventi culturali. È alla società, ai suoi organismi attivi che va affidata una funzione risocializzante».


Ecco. Il linguaggio è ancora tanto gergale, ma non male, eh. Potrebbero riproporsi pari pari adesso, a distanza di quasi trent’anni. E questo però fa una grande tristezza.

Che c’entrano due documenti, ormai «antichi», sulle lotte dentro il carcere in un libro sulle evasioni?

C’entrano, eccome. La storia di queste evasioni mostra sempre lo stesso filo: per quanto i guardiani si ingegnino – attrezzandosi con le tecnologie che ogni tempo mette a disposizione – per impedirti di pensare alla libertà, non c’è verso che un prigioniero non riesca a trovare le falle del sistema e a pensare a come organizzare la fuga. Tutte le prigioni – da cui queste storie qui raccolte raccontano evasioni – erano definite e considerate «a prova di fuga». Molte furono chiuse proprio dopo un’evasione, anche perché spesso l’opinione pubblica veniva così a conoscerne aspetti crudeli quando non di vero e proprio sadismo.

È proprio il carcere, simbolo estremo delle nostre paure, che va estinto. Ecco che c’entrano i documenti. Evadere e battersi non sono due «modi» distanti di affrontare il carcere, anzi. Lucien Aimé-Blanc, commissario di polizia, nel suo La chasse à l’homme, scrive che durante la sua detenzione Mesrine «prova ad allertare l’opinione pubblica sul regime della prigione. Bisogna pur dire che c’era l’abitudine di gasare i detenuti per renderli più malleabili. Con ogni evidenza, nessuno s’interessa delle proteste. Allora, si evade».

Quando abbiamo iniziato a ragionare sul libro avevo proposto uno schema di suddivisione delle evasioni che li ordinasse «per modo», scavando o volando o nuotando; avevo pensato di chiamare queste sezioni: di terra, di cielo e di mare. Poi, ha prevalso il metodo storiografico su quello narrativo.

Le evasioni qui raccontate non sono le più eclatanti – anche se gli americani, che amano queste cose, hanno sui loro siti online le «Top ten delle evasioni» e qui ci stanno tutte – come se potessero tutte comprenderle. Non è vero. Ogni evasione ha una sua storia. Dolorosa e straordinaria. Ogni evasione è un’avventura in sé.

Non è un caso che il cinema prima e ora la televisione si siano sempre appropriati di queste storie, perché sono tra le «favole» elementari dei racconti tra gli uomini, quelle che parlano di un’insopprimibile desiderio di libertà e delle capacità, anche in condizioni disperate, che la determinazione può mettere in campo.

Qui le storie del cinema, che spesso «riscrive» non solo i romanzi da cui sono tratte le sceneggiature ma anche i fatti reali, vengono solo sfiorate. Però, mi è sembrato opportuno, proprio per il carattere straordinariamente narrativo di ogni evasione e per il carattere straordinariamente realistico di ogni invenzione cinematografica, di inserire tra le storie vere una inventata di sana pianta, il fortunato serial televisivo Prison Break, che ha finito col mettere assieme pezzi di fatti accaduti davvero. Perché spesso i fatti sono accaduti in modo letterariamente più avvincente di quanto qualsiasi sceneggiatore possa immaginare.

C’è una citazione obbligata, di cui peraltro spesso non si sa bene a chi attribuire la fonte – chi giura sia Voltaire, chi Dostoievskj, chi Camus –, che dice: «Il grado di civilizzazione di una società può essere giudicato entrando nelle sue prigioni».

Questo libro vuole rovesciare l’assunto, e dire piuttosto che: «Il grado di civilizzazione di una società può essere giudicato uscendo dalle sue prigioni».

Evadendo.

Nicotera, settembre 2011



Immagine: Sergio Bianchi, Carcere, 2012



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Lanfranco Caminiti, siciliano, giornalista, saggista e narratore, collabora con quotidiani e riviste, e ha pubblicato libri di storia e racconti con diverse case editrici. Tra i fondatori della rivista e della casa editrice DeriveApprodi.

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