top of page

«Vagantes fabulae». Reincanto, immaginario, rivoluzione


Sergio Bianchi, Trip 9, 2014


A un passo dal punto culminante, a un passo dalla rivoluzione, a un passo dalla cosa che si chiama amore. A un passo dalla mia vita.

Clarice Lispector


0. Leggendo Favole del reincanto di Stefania Consigliere, recentemente uscito da DeriveApprodi, mi sono tornati alla mente alcuni passaggi di un celebre libro di Clarice Lispector, quelli in cui la protagonista decide di mettere in gioco la sua identità, accettando di entrare in una zona di disorientamento e spaesamento dinanzi a una consistenza materica del reale infinitamente più ricca e sconosciuta rispetto alle maldestre protesi costruite a mo’ di protezione, quelle chiamate io, identità, proprietà, corpo voluminoso e chiuso. Ma andiamo con ordine o almeno proviamoci.

Il testo di Stefania è una riflessione sugli esiti della modernità, su quel guazzabuglio di colonialismo, capitalismo, scientismo, apparato statale e soggetto sovrano che, veicolando il mito del progresso, avrebbe dovuto garantire ai più benessere e felicità. Al contrario tale narrazione sta conducendo a passo spedito verso un disastro planetario, interessando vari piani, economico, politico, ecologico, psicologico, sanitario, finanche spirituale. Pertanto, per dirla con Latour, è da «disinventare la modernità», esplorando altre vie, facendo emergere dalle pieghe della storia e dei vissuti quelle tracce che possono aprire scenari differenti. Quanto segue sono note di lettura che desiderano amplificare alcuni temi che ricorrono in Favole del reincanto. In particolare l’attenzione sarà rivolta a tre aree: la relazione tra incanto, disincanto e reincanto; il transito verso il reame dell’immaginario; il farsi attuale della rivoluzione.


1. Incanto, disincanto e reincanto sono termini che ricorrono nelle pagine del libro. Che il disincanto, attraverso il calcolo razionale e l’uso dei mezzi tecnici, fosse in realtà un incantesimo l’aveva capito già Weber, laddove ricordava che la scienza e la tecnica non indicano la strada per rispondere a questioni legate al senso della vita. Tuttavia, se è vero che il disincanto moderno ci ha emancipati da precedenti forme di incanto, sortilegi che altro non erano se non tristi strumenti di dominio (la sacralità delle dinastie regnanti o quella delle corporazioni medievali, ad esempio), è pure vero che la totalizzazione dell’esistenza sotto la cifra del disincanto ha prodotto nuovi danni e nuove sofferenze. La dose eccessiva del farmaco ha finito per avvelenare.

Ancora: che il disincanto fosse un incantesimo mortale è stato compreso da tempo anche nell’ambito a cui era principalmente rivolto, quello delle religioni. Pure un vecchio reazionario come Mircea Eliade, non potendo accettare l’idea di una società secolarizzata e demitizzata, insisteva sul fatto che nella modernità sopravvive, travestito, il vecchio discorso mitologico e non aveva tutti i torti.

Per Harvey Cox, ad esempio, teologo battista statunitense, la secolarizzazione non si è imposta nella società, anzi, la società capitalista per affermarsi ha messo in campo un sistema di credenze che vanno ben al di là delle teorie economico-politiche e della loro supposta razionalità. In realtà è in atto una sorta di teologia, contemplante dottrina della creazione, della caduta e della redenzione, associate a una forma di escatologia a garanzia del fatto che la storia procede nella giusta direzione. È la teologia del mercato. In breve: il mercato si presenta come onnisciente, perché lungimirante e preveggente. Il mercato si dichiara onnipotente, perché per mezzo suo qualsiasi cosa, grande o piccola, materiale o immateriale, deve essere trasformata in merce per perseguire il benessere generale. E, attraverso la mercificazione, il mercato diventa onnipresente, si riproduce insinuandosi in ogni piega del vissuto e del quotidiano. Così, in poco tempo, la modernità, che si proclama laica e razionale, ha venduto la propria anima e il proprio corpo alla più mistificante delle religioni. A ben vedere è il discorso che Benjamin – come osserva anche Stefania nel libro – faceva già negli anni Venti del secolo passato, secondo cui il capitalismo, sviluppatosi «parassitariamente sul cristianesimo», ha assunto le sembianze di una religione, in quanto appaga le stesse ansie, preoccupazioni e inquietudini a cui un tempo davano risposta le religioni. Ma, ad andare ancora più indietro potremmo tornare a Marx, se rileggiamo alcuni passaggi presenti nel primo libro del Capitale, ove si parla del carattere di feticcio della merce, di capricci teologici, di valore «sovrasensibile», «mistico», «arcano» (sono tutti termini di Marx) della merce. (Non è un caso se un autore come Enrique Dussel, vicino alla teologia della liberazione, ha sentito la necessità di redarre un ponderoso libro sulle metafore teologiche di Marx). Così, riprendendo il filo del discorso, dobbiamo disincantarci dal disincanto e ciò potrà accadere solo se saremo in grado di elaborare e celebrare una forma potente di reincanto. Ma come? Qui è l’interrogativo.


2. Serve un punto d’appoggio che consenta di affacciarci all’alterità e alla molteplicità, suggerisce Stefania. E questo punto non è distante, siamo noi, è la nostra modalità di affacciarci al mondo. L’accesso alla prospettiva del reincanto non funziona per via esclusivamente teorica, compiendo una serie di inferenze logiche e di passaggi dialettici. Un po’ come nella scommessa di Pascal: conviene credere nell’esistenza di Dio perché se esiste ci guadagno, mentre se non esiste non ho perso nulla; e per realizzare ciò devo dominare le passioni, comportandomi «come se» credessi, per aderire al mondo delle idee a cui tendo. Al contrario il punto di partenza qui non è un soggetto astratto o il mondo delle idee, non può che essere l’esperire di un sapere situato, di una soggettività incarnata, di un corpo complesso, articolato, finanche contraddittorio.

Una teoria e una pratica del molteplice abbisognano allora di una nuova paideia, di una cosmopedagogia che accompagni alla scoperta dell’alterità dentro e fuori di noi, di un’educazione estatica in grado di condurci fuori dalle gabbie che senza sosta classificano, delimitano, interdicono e condannano.

Dentro questo discorso un ruolo non indifferente è svolto dallo schematismo binario che si rivela essere una forma alienata di differenziazione, attraverso cui viene interpretata e naturalizzata ogni differenza, riconducendola a classificazioni gerarchiche e subordinazioni, come hanno mostrato bene i contributi sull’argomento di Val Plumwood. Così, fra le altre cose, è anche per la coppia vita/morte, alla quale, come ricorda anche Stefania verso la fine del libro - e come fanno diversi altri autori e autrici (ma stranamente non compare nei dualismi interconnessi di Val Plumwood) – non viene riconosciuto, pur nella sua problematicità e gravità, il carattere processuale, il continuum, bensì l’aspetto oppositivo e irrisolto tra i due poli.

Addenda. Sarà banale dirlo ma il reincanto di cui parliamo presenta, non può non presentare, connotati post-cartesiani; dove il prefisso «post» non indica un avanzamento dialettico compiuto in nome del progresso, secondo la nozione di un tempo lineare e progressivo, ma semplicemente descrive una successione dentro un multiverso e una struttura elastica del tempo (per usare termini cari a E. Bloch); un avvicendarsi, insomma, che riguarda chi ha conosciuto da vicino le categorie cognitive della modernità. O, per dirla altrimenti, tocca da vicino chi ha mangiato il frutto dell’albero della conoscenza, al punto da saper anche cogliere le suggestioni e le aperture che offrono gli esiti più recenti delle scienze, sia quelle che studiano l’infinitamente grande, così come quelle che affrontano l’infinitamente piccolo, passando per diversi altri campi di recente acquisizione (vedi, ad esempio, la neurobiologia vegetale).


3. Un vero e proprio punto dolente che troviamo sviluppato nel libro è il rapporto tra la sinistra e l’immaginario. Il problema non è di oggi, tutt’altro (si pensi alle polemiche contro Pavese per i suoi scritti sul mito, considerati a sinistra come irrazionali e decadenti).

«La sinistra ha disertato l’immaginario», insiste Stefania. O quando l’ha fatto ha sposato miti della modernità: il lavoro, il progresso, la scienza e poco altro. Del resto anche Mario Tronti, un autore per certi versi legato alla tradizione del movimento operaio, ha definito l’operazione di Marx di condurre il socialismo dall’utopia alla scienza, un tentativo generoso ma destinato al fallimento, poiché la scienza si è rivelata alla fine nemica delle forze della sinistra ancor più dell’utopia.

Certo non dobbiamo essere ingenui, Favole del reincanto ci ricorda che l’immaginario, come il desiderio, non è sic et sempliciter una potenza liberatrice, bensì un campo aperto, un luogo anche insidioso in cui si confrontano e si scontrano tensioni differenti. Pertanto l’immaginario è stato ed è sapientemente usato da forze come il fascismo, il mercato e la pubblicità, diventando dispositivo di cattura delle energie affettive per canalizzare flussi che penetrano e ammorbano le istanze di liberazione presenti nel corpo sociale. Con le parole di Stefania: ciò che ci differenzia dai fascisti è il partito preso per la felicità, sempre e comunque, il rifiuto di ogni dominio, la fedeltà alle passioni gioiose. Questo significa rivoluzione.


4. Nominare oggi la rivoluzione non è facile, è un termine in cui si sovrappongono significati eterogenei, tuttavia sta riemergendo in più contesti (ad esempio Lazzarato da tempo sta riproponendo con insistenza la questione, anche se in termini complessivamente diversi rispetto al testo qui in esame). Non solo: a ben vedere anche quello sulla rivoluzione è un discorso non solo dell’oggi, ma riguarda il passato e, in particolare, il nostro passato prossimo.

Ricordo un lungo articolo di Lapo Berti datato 1980. In esso si affermava che sul concetto di rivoluzione si concentra un forte riduzionismo, se non un’ambigua visione della realtà storica e sociale. In breve: l’idea di rivoluzione, provenendo dal campo delle scienze, è una visione fisicista, naturalistica, addirittura meccanicista della società. In questo senso rivoluzione non indica rottura, ma rimanda al concetto di ciclicità, alla rotazione del potere politico verso un nuovo ordine in nome del progresso e del principio di ragione immanente al processo storico. Sia chiaro: quell’articolo va contestualizzato. In fondo proponeva la fuoriuscita dal dilemma fra riforme e rivoluzione, e in particolare dall’impasse terribile di quegli anni, in cui un ampio e variegato movimento antagonista si trovava schiacciato proprio a sinistra: da una parte da un partito che aveva deciso di farsi stato, identificandosi in toto con le istituzioni e dall’altra con la guerra per bande di un partito armato deciso a portare a tappe forzate l’attacco al cuore dello stato. Con il risultato di ottenere la generazione più carcerata della storia d’Italia.

Certo, la rivoluzione di cui scriveva Lapo Berti è quella di ascendenza giacobina e leninista che, in quegli anni si stava imponendo come la più convincente. Ma, come osserva anche Stefania Consigliere, c’è una pluralità semantica nel termine che eccede qualsiasi definizione unilaterale. Rivoluzione non è solamente l’affermazione di un kosmos, di un nuovo sistema ordinato e armonico. Non è sempre andata così, basti volgere l’attenzione ad altre vicende: si pensi alle pagine dedicate alla rivoluzione spartachista da parte di Furio Jesi, un autore che non a caso ricorre nelle Favole del reincanto, o, ancora, alla rivoluzione come celebrazione non del kosmos ma, al contrario, del chaos, come luogo primigenio di un’unità dell’essere, così come viene presentato nell’anarchismo ontologico di Hakim Bey (un autore che fino a qualche anno fa ha goduto di un certo ascolto).

Insomma, grande è il disordine sotto il cielo della teoria. Le cose, se si vuole, si complicano ulteriormente se proviamo a immergere il tema della rivoluzione nel registro dell’immaginario, attingendo al suo sostrato mitico vecchio di anni, vale a dire al filone apocalittico (il pensiero corre immediatamente a Jacob Taubes, un apocalittico della rivoluzione in pieno Novecento). L’apocalittica è un genere letterario sorto in ambito ebraico, come emanazione del genere profetico, per prolungarsi poi nel mondo cristiano. Ma quello che è interessante è che originariamente il termine non sta a significare «disastro», «catastrofe», «rovina totale», bensì ἀποκάλυψις vuol dire semplicemente «rivelazione» ed è con questa accezione che viene tradotto nella Bibbia. Si tratta di un annuncio di speranza, o meglio la catastrofe c’è, si manifesta, ma come passaggio obbligato per accedere a un’adunanza festosa di «moltitudini immense» (Ap. 7,9) a celebrare l’irrompere di «nuovi cieli e nuove terre» (Ap. 21,1). Un teologo eterodosso come Sergio Quinzio, ad esempio, era fortemente attratto proprio da una spiritualità apocalittica.

Queste connessioni possono altresì presentare tratti inquietanti. Secondo Deborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro, in un bel libro richiamato anche nel testo di Stefania, bisogna invece congedarsi proprio da ogni prospettiva messianica, ritenuta espressione di una narrativa patriarcale, repressiva, razzista e fallocratica, che va da san Paolo a Marx e oltre.

Il problema non è nuovo e sembra senza soluzione. Detto altrimenti: perché nonostante le rivoluzioni falliscano non c’è periodo storico in cui le moltitudini non insorgono? È vero, le rivoluzioni per lo più falliscono: o perché vengono represse o perché, se vincono, utilizzano i mezzi del nemico, divenendo dispotiche. Come leggiamo in Favole del reincanto il problema non è di rifiutare o abolire programmaticamente il potere (cosa pressoché impossibile), ma di condividerlo, di intensificarlo, di polverizzarlo, rendendolo sempre più orizzontale e diffuso. Niente palingenesi definitive o catarsi rivoluzionarie, dunque, così come nessuna volontà di potenza o esercizio di un dominio paranoico, ma neppure cedere alle tristi passioni di chi si rassegna all’esistente. È una fertile creatività che fa qui interagire rivoluzione e immaginario. È in fondo il vecchio progetto libertario dell’autogestione generalizzata, coniugato con le più recenti prospettive zapatista e curda di fare la rivoluzione senza prendere il potere (e qui non si possono non evocare i nomi di Holloway e Bookchin).


5. In conclusione: si sarà compreso come da Favole del reincanto affiorino tracce nuove, segni da sondare, percorrere, attraversare, patchwork colorati da ricomporre, tessiture da intrecciare insieme. È proprio il periodo fosco che vogliono ammannire che spinge a confidare nelle passioni gioiose, in quel composito e misterioso rompicapo che può essere la vita quando vuol essere vissuta fino in fondo. Con i versi di una delle ultime poesie di Giorgio Cesarano. «Cresce il numero di coloro/ che dissiperanno ogni debito/ in una festa sontuosa».

Comentarios


bottom of page