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Elogio dell’invisibile

Transiti, rêverie, reincanto



Ogni indagine seria delle doti e dei fenomeni occulti, surrealisti, allucinatori presuppone un intreccio dialettico (…). Noi riusciamo a penetrare il mistero solo nella misura in cui lo ritroviamo nella vita quotidiana, grazie a un’ottica dialettica che riconosce il quotidiano come impenetrabile, l’impenetrabile come quotidiano.

Walter Benjamin


Il migliore dei mondo possibili

Tra il 1967 e il 1968 si tennero due convegni interdisciplinari promossi dalla Parapsychology Foundation di New York, coinvolgendo numerosi ricercatori circa la possibilità di indagare gli aspetti scientifici e la metodologia di ricerca della parapsicologia, partendo dal riconoscimento dell’inadeguatezza dei mezzi teorici e sperimentali fino allora impiegati. Vi presero parte figure di tutto rilievo come Karl Pribram, Charles Tart, Albert Hofmann, Humphry Osmond ed Emilio Servadio, giusto per citarne alcuni a caso. A testimonianza di quelle giornate rimane un’antologia che raccoglie una selezione degli interventi ai due convegni [1].

Vorrei cogliere come spunto per il discorso che desidero sviluppare il contributo dello psichiatra Arnold Ludwig (docente alla Brown University di Providence, nello stato del Rhode Island), noto per i suoi studi sugli stati modificati di coscienza. Ludwig mette in stretta relazione i fenomeni detti paranormali con gli stati modificati di coscienza. Quello che in particolare interessa evidenziare è una domanda che Ludwig pone, quasi en passant, nel corso della sua esposizione. Eccola: «Perché l’uomo – si chiede Ludwig – esplorati i limiti delle sue facoltà razionali, ricorre ad alterazioni delle sue funzioni mentali per assicurarsi ulteriori conoscenze?». Da parte sua Ludwig non fornisce una risposta alla domanda, essendo, come scienziato, più incline a indagare come avviene un fenomeno piuttosto che il perché. Ma la domanda, a distanza di tempo, rimane, anzi è più che mai attuale.

In altre parole, che bisogno ci sarebbe di modificare il proprio stato di coscienza, che cosa non soddisfa dello stato di coscienza ordinario e della realtà consensuale in cui viviamo? Perché andare a cercare «altro»? Non viviamo in fondo nel «migliore dei mondi possibili»?

Vorrei proseguire, soffermandomi proprio su questa espressione – migliore dei mondi possibili – coniata e divenuta celebre grazie a Gottfried Leibniz, filosofo e matematico tedesco vissuto tra il Seicento e il Settecento. Coniugando fede religiosa e rigore matematico, Leibniz voleva dire che la perfezione suprema di Dio, creando il mondo ha scelto, fra tutte le infinite possibilità esistenti, il miglior piano e il massimo ordine possibile, cosicché non solo il mondo è dotato di senso, ma è addirittura il migliore dei mondi possibili. In altre parole elaborò quella che lui stesso definì una «teodicea», ovvero una dottrina riguardante la giustizia di Dio (dai termini greci théos – dio – e dike – giustizia).

Le intenzioni di Leibniz erano benevole, però, si sa, la teodicea non ha mai riscosso grandi successi. Voltaire, qualche anno dopo, l’avrebbe sbeffeggiato in un poema scritto in occasione del terremoto di Lisbona del 1775. Non è per nulla facile presentare l’operato divino come infinitamente giusto e magnanimo dinanzi alla presenza insistente del male nel mondo. Fortunatamente non è di simili problemi che intendo parlare, ma di ben altre giustificazioni non meno assolute di quelle Leibniz e tutt’altro che disinteressate. Mi riferisco a quelle secondo cui vivremmo sì nel migliore dei mondi possibili, circoscrivendo però l’area a un sistema sociale in particolare – la nostra società, il nostro mondo, quello occidentale per intenderci – il quale avrebbe ormai raggiunto il traguardo finale al punto che la storia umana si sarebbe definitivamente compiuta.

Mi sto riferendo, lo si sarà forse intuito, alla fortuna ottenuta da un saggio del politologo statunitense Francis Fukuyama, uscito negli anni Novanta del secolo scorso, dedicato appunto alla fine della storia a cui saremmo giunti [2]. Egli si presenta come l’epigono – passando per Kojève – della filosofia della storia di Hegel, secondo la quale il divenire storico è razionale e non un caotico susseguirsi di eventi, manifestandosi appieno nella creazione dello stato moderno, garante con le sue leggi della volontà universale, nella quale i cittadini si riconoscono e si realizzano. Hegel, dal canto suo, considerava lo stato prussiano la migliore realizzazione di ciò; per Fukuyama la caduta del muro di Berlino avrebbe sancito l’affermazione definitiva dei principi del liberalismo, con il progresso tecnologico e industriale assicurato e guidato in ambito economico dal capitalismo, divenuto la massima espressione della razionalità che, con la sua etica del lavoro come mezzo per la piena realizzazione personale, garantirebbe opportunità per tutti.

Come dire: qualcuno non se ne sarà accorto, ma viviamo nel migliore dei mondi possibili! Ora, è quasi tragicomico riportare oggi simili affermazioni con le infinite emergenze che questo sistema sociale continua a innescare: dal cambiamento climatico alla pandemia da covid, passando per le varie forme di inquinamento, i disastri ecologici, la progressiva pauperizzazione delle masse, il crescente disagio psicologico, il razzismo, il sessismo e altro ancora. Dinanzi a un simile quadro la domanda che si poneva Ludwig assume una valenza chiara e netta: comprendiamo bene perché l’essere umano, colti i limiti delle facoltà razionali con cui si è provato a dominare il pianeta, provi interesse alla modificazione delle sue funzioni mentali per accedere a un altro genere di conoscenze. Ed è proprio dentro questa prospettiva che possiamo parlare di invisibile e di elogio dell’invisibile.

Occorre però fare un minimo di chiarezza sin dall’inizio. Questo invisibile non è da intendere come una dimensione altra rispetto al visibile, non c’è insomma una «realtà separata» (per riprendere un’immagine di Castaneda, autore che godette una certa fortuna non tanto tempo fa), una sorta di mondo parallelo al nostro in cui inoltrarsi, ma si tratta di compiere un approfondimento, un’espansione delle nostre possibilità quotidiane di percepire attraverso i sensi il volto multiforme di ciò che per abitudine siamo soliti chiamare realtà. Senza abbandonare mai la funzione critica. O, per dirla con le parole di Watzlawick, la credenza che la realtà che ognuno vede sia l'unica realtà rischia di rivelarsi come la più pericolosa delle illusioni; la realtà è una complessa costruzione ed esistono versioni diverse della realtà, la quale non è riducibile a mero riflesso di dati oggettivi o eterni [3].


Le porte della percezione di Blake

Per compiere questo elogio dell’invisibile propongo una sorta di passeggiata in compagnia di alcuni personaggi moderni e contemporanei, noti a tutti, appartenenti al mondo letterario, che in epoche diverse hanno, a vario titolo, sondato, esplorato e cantato la cifra dell’invisibile. Bachelard osservava che gli psicologi sbagliano, limitandosi a studiare il sogno notturno, prestando poca attenzione al fenomeno delle rêveries diurne, ritenendole fantasticherie confuse e senza struttura, una sorta di materiale notturno disperso, alla deriva nella limpidezza del giorno. Al contrario, egli era convinto che nella rêverie, in particolare nella sua forma poetica, i sensi si destano e si armonizzano generando mondi: «La rêverie poetica ci offre il mondo dei mondi. La rêverie poetica è una rêverie cosmica. Essa offre l’apertura a un mondo, a mondi belli» [4]. Noi seguiremo questa pista.

Credo che l’autore apripista per questo genere di percorso non possa che essere William Blake e in particolare uno dei suoi testi più famosi – The Marriage of Heaven and Hell – composto tra 1790 e il 1793. Tema del Marriage è l’intima comunione di natura umana e natura divina, di eros e di logos, all’interno della visione di una coesistenza, nell’essere inteso come infinito vivente, dei principi opposti del bene e del male. E proprio in quest’opera c’imbattiamo nel celeberrimo passaggio, citato infinite volte (da Aldous Huxley fino a Jim Morrison): «Se si pulissero le porte della percezione, ogni cosa apparirebbe all’uomo come essa veramente è, infinita» [5].

Mi soffermo su questa frase per osservare come in Blake vi sia una contrapposizione paradigmatica tra «vista» e «visione» (sight/vision). La visione, grazie alla conoscenza simultanea e immediata della realtà ontologica di quanto esperito, eccede le codificazioni razionalistiche che imprigionano i dati percettivi in una serie di modellizzazioni unidimensionali e monotone. Ma dev’essere al contempo chiaro che la nozione di visione in Blake non si presenta come fenomeno sovrannaturale o esercizio ultraterreno destinato a pochi eletti, bensì non è altro che un’articolazione della modalità di percezione e di conoscenza a cui ogni essere umano può accedere, è insomma un «trascendere senza trascendenza», per usare un’espressione di Ernst Bloch, un filosofo grande ammiratore di Blake e delle sue visioni.

C’è una dimensione antropologica che si esplica a vari livelli, a un tempo sapienziale, estetica, etica e finanche politica. E mi soffermo su quest’ultimo aspetto, osservando come in Blake la componente visionaria non assuma le sembianze di un ritrarsi intimistico e autogratificante, ma si coniuga a pieno titolo con una prospettiva utopica. C’è infatti in Blake un inscindibile legame tra prospettiva visionaria e prospettiva rivoluzionaria, tanto che la sua produzione poetica e artistica può essere pienamente compresa, solo collocandola all’interno di quel filone di pensiero e di pratiche, fiorite alla fine del Settecento, in cui convivono e si nutrono vicendevolmente istanze visionarie, mistiche, libertarie e rivoluzionarie [6].

Sappiamo che per compiere questo lavoro di pulizia delle porte della percezione vi è la possibilità di ricorrere a strumenti di supporto. Alcuni provenienti dalle più antiche tradizioni spirituali, come le pratiche meditative e contemplative, oppure con la preghiera, il silenzio, la solitudine. Vi sono poi ausili esogeni, utilizzando cioè sostanze in grado di modificare lo stato di coscienza e in questo contesto la psicofarmacologia, negli ultimi decenni, è riuscita a ottenere prodotti di sintesi chimica decisamente funzionali. Ma qui non ci occuperemo della varietà di supporti a disposizione, il percorso che propongo è una passeggiata per principianti, nel senso nobile del termine [7]. Le esperienze a cui è possibile attingere riguardano quella che è stata definita anche «piccola mistica», vale a dire esperienze aperte a tutti, che si autocollocano fuori da ambienti confessionali o da pratiche ad hoc, con soggetti protagonisti che presentano un’eterogeneità di vissuti di riferimento. Ci riferiamo – giusto per fare qualche esempio – a vissuti che possono essere prodotti dalla spettacolarità degli elementi naturali, da un evento improvviso e perturbante, dall’intensità dell’esperienza onirica, dal limite della spossatezza fisica, dalla musica o dalla danza, dall’intensità della passione amorosa o anche dalla «piccola morte» dell’orgasmo [8].

In tutti i casi si tratta di passaggi, di transiti. Giustamente Georges Lapassade quando parlava di «stato di transe» rimarcava come il termine derivasse dal latino transire, con il significato di passaggio, e, in realtà, non bisognerebbe neppure parlare di «stato» perché semmai avviene il contrario, uno slittamento, un divenire, una transizione, un passaggio da un livello di coscienza all’altro [9]. Inoltre questo concetto di transe, a cui facciamo riferimento, è anche sufficientemente vicino a quello di «trance della comune vita quotidiana» elaborato da Milton Erickson e dalla sua scuola, nel riferirsi a una serie di esperienze spontanee di alterazione della coscienza che possono avvenire nell’arco di una giornata, trovandosi la coscienza in una condizione di costante fluttuazione, consentendo così l’accesso anche a esperienze transpersonali di espansione della coscienza [10].


Le catastrofi multiple di Burroughs

A questo punto possiamo incontrare un altro autore lungo questa passeggiata immaginosa. Per farlo dobbiamo compiere un salto temporale dal Settecento al Novecento. Il personaggio in questione è uno scrittore statunitense, William Burroughs, del quale non si può certo dire che nella sua vita non abbia fatto ricorso a sostanze per alterare la coscienza. Il suo primo romanzo, risalente ai primi anni Cinquanta – La scimmia sulla schiena – è, ad esempio, la descrizione lucida e distaccata dei suoi trascorsi di tossicomane [11].

Ma per quello ci riguarda ci rivolgiamo qui a un altro romanzo, risalente a una decina di anni dopo, alla fase di maturità letteraria dell’autore e in cui prospetta altre strade. Il libro è Nova express, uno dei testi più famosi di Burroughs, terzo volume di una complessa trilogia [12]. Raccontare la trama di un romanzo di Burroughs è praticamente impossibile, ma ci proviamo. Tutto inizia dalla Nebulosa del Granchio, distante dalla Terra tremila anni luce, i cui abitanti hanno pianificato l’invasione del nostro pianeta per sottoporlo a un controllo totale, biologico e psicologico, ricorrendo anche alla tossicomania. Catastrofi biologiche, neurali, sociali e culturali si avvicendano. L’intreccio sembra una miscela visionaria di spy-story e fantascienza, con poliziotti inetti davanti all’avanzata dei criminali che agiscono ricorrendo a influenze subliminali e, dall’altra, una composita alleanza che continua a resistere, non disposta a cedere il passo. Nelle pagine iniziali il protagonista, l’ispettore Lee, costretto a operare in condizioni di emergenza totale, redige un comunicato, da cui estrapoliamo alcuni passaggi significativi, in cui avvisa dei pericoli incombenti e traccia una linea di condotta: «Ascoltate: il loro Giardino delle Delizie è un capolinea delle fognature (…) La loro Immortalità Coscienza Cosmica e Amore sono una boiata di seconda qualità (…) Popoli della terra siete stati tutti avvelenati (…) Stanno avvelenando e monopolizzando gli allucinogeni – imparate a farcela senza nessuna frescaccia chimica». Sono parole che a distanza di anni paiono premonitrici e sapere che le ha pronunciate uno come Burroughs non può lasciare indifferenti.

A partire da queste premesse, nella prosecuzione della vicenda, si gioca un’inquietante partita a guardie-e-ladri interplanetaria, al tempo stesso grottesca e allucinante. Più avanti, verso la fine, c’imbattiamo in un altro comunicato su cui, per il discorso che stiamo seguendo, merita soffermarsi. Lo riporto quasi integralmente: «Consigli Direttivi Sindacati Governi della Terra pagate – Ripagate il colore che avete rubato – Pagate Rosso – Ripagate il rosso che avete rubato per i vostri vessilli menzogneri e per le vostre insegne della Coca Cola – Ripagate quel rosso al pene e al sangue e al sole – Pagate Azzurro – Ripagate l’azzurro che avete rubato e imbottigliato e smerciato nei contagocce della droga – Ripagate l’azzurro al mare e al cielo e agli occhi della terra – Pagate Verde – Ripagate il verde che avete rubato per il vostro denaro (…) Ripagate quel verde ai fiori e alla giungla ai fiumi e al cielo – Consigli Direttivi Sindacati Governi della Terra ripagate tutti i colori che avete rubato – Ripagate il Colore».

Non si può non cogliere in queste righe una denuncia da parte di Burroughs dei meccanismi di reificazione/mercificazione che mettono a profitto l’intero vivente, producendo un impoverimento generale del mondo e del rapporto stesso che intratteniamo con la vita, al punto che le cose che vediamo, la percezione stessa, ciò che appare dinanzi allo spettro visibile, appare immiserita, piegata e costretta alle esigenze dell’economia politica. Anche qui: il lavoro di pulizia delle porte della percezione si coniuga con una critica delle dinamiche sociali che inibiscono la loro piena espressione.


L’alchimia del verbo di Rimbaud

Questa attenzione alla luce e al colore permette di compiere un nuovo passaggio, tornando indietro di un secolo, collegando Burroughs a un altro autore, che influenzò lo stesso Burroughs e un po’ tutta la beat generation. Mi sto riferendo ad Arthur Rimbaud. Ci sono infatti studi comparativi che hanno indagato proprio la relazione tra i poeti e gli scrittori beat, da una parte, e la cultura e la letteratura francese, dall’altra. A volte si tratta di debiti riconosciuti e dichiarati, altre di allusioni, suggestioni, riferimenti indiretti. Rimbaud è decisamente un nome che ritorna con frequenza.

Cosa lega Rimbaud con Burroughs e, in particolare, con le pagine citate? Per rispondere alla domanda prendiamo in mano l’opera più significativa del poeta francese, Una stagione all’inferno. Si tratta di un poema in prosa risalente al 1873, quando Rimbaud aveva diciannove anni. In particolare, dobbiamo andare alla sezione dal titolo «Alchimia del verbo» che da solo è già un programma. Che cos’è l’alchimia del verbo? Lo stesso Rimbaud comincia a descriverla come la storia di una delle sue follie. Anche qui riporto integralmente i passi su cui riflettere: «Inventai il colore delle vocali! – A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu, – Disciplinai la forma e il movimento di ogni consonante, e, con ritmi istintivi, mi lusingai d’inventare un verbo poetico accessibile, un giorno o l’altro, a tutti i sensi. Riservavo la traduzione» [13].

Quello che Rimbaud vuole sperimentare è una grande sinestesia, che, oltre a essere una figura retorica (è infatti un tipo particolare di metafora), indica proprio un fenomeno sensoriale-percettivo in cui si verifica una contaminazione dei sensi ed è peraltro un avvenimento comune negli stati alterati di coscienza. Questo doveva essere un tema caro a Rimbaud poiché c’è un’anticipazione di tale motivo in un sonetto, composto qualche anno prima, che porta appunto il titolo «Vocali», dove troviamo il medesimo accostamento tra colori e vocali, seguito da una serie di libere associazioni mentali riguardanti le vocali, i suoni, le forme, gli oggetti e i colori. E, d’altro canto nella cosiddetta «lettera del veggente» (una lunga lettera inviata all’amico Paul Demeny), che condensa il suo programma poetico-esistenziale, troviamo l’affermazione che, per raggiungere l’ignoto, bisogna divenire veggente (noi potremmo dire «visionario») attraverso un ragionato sregolamento di tutti i sensi (si osservi qui l’ossimoro: lo sregolamento non è fine a se stesso, è ragionato, va in qualche modo pianificato, fa parte di un programma). E, per finire, c’è un altro componimento, una lunga poesia intitolata «I poeti di sette anni», in cui descrive il mondo chiuso del contesto familiare in cui trascorreva l’infanzia e delle vie di fuga che riusciva a scoprire, alcune molto semplici, comuni a molti bambini, come, ad esempio, strofinarsi gli occhi per ottenere delle visioni: è il fenomeno dei fosfeni, in cui vediamo lampi di luci, scie colorate o scintille sorgere dal di dentro.

Si è visto sopra come in Blake e in Burroughs il discorso sulla modificazione degli stati di coscienza vada collegato con una critica delle condizioni sociali che ne impediscono l’accesso. Lo stesso vale per Rimbaud. Se, come dicono molti, Rimbaud è il poeta della rivolta, le pagine di Una stagione all’inferno ne costituiscono la sintesi. Qualche anno prima, tra il marzo e il maggio del 1871, a Parigi c’era stata l’esperienza della Comune. Secondo alcune versioni Rimbaud sarebbe giunto a Parigi a piedi per arruolarsi nei franchi tiratori della rivoluzione. In realtà le notizie di una sua partecipazione alla Comune sono incerte e controverse, non suffragate da alcun documento, quello che è comunque sicuro è che si schierò fin da subito con i comunardi, scrivendo alcune poesie sull’esperienza della Comune [14].


Il vero sentire di Handke

A questo punto ci rimane solo un altro personaggio da incontrare. Si tratta dello scrittore in lingua tedesca Peter Handke, premio Nobel per la letteratura nel 2019. Molti lo ricorderanno soprattutto per le polemiche sorte in proposito, ritenendo Handke indegno di simile riconoscimento per essersi schierato a favore della Serbia nel corso delle guerre jugoslave [15]. Ma qui interessa la produzione propriamente letteraria di Handke nel suo periodo di maggiore fertilità creativa. In particolare un romanzo, la cui edizione originale risale al 1975, di cui il titolo è già di per sé denso di evocazioni: L’ora del vero sentire [16]. Raccontare la trama dei libri di Handke non è impossibile, come per Burroughs, ma comunque non è facile. Comunque ci proviamo.

L’ora del vero sentire è la vicenda, in terza persona, di alcune giornate nella vita di Gregor Keuschnig, addetto stampa all’ambasciata austriaca a Parigi. Sono stati fatti collegamenti legittimi e opportuni con personaggi kafkiani, come Gregor Samsa e K. (il primo protagonista della Metamorfosi, il secondo del Processo), infatti per tutti a un certo punto la vita cambia inaspettatamente. Ma se Gregor Samsa assume le sembianze di un ingombrante scarafaggio, la trasformazione del protagonista di Handke è più sottile, riguarda l’interfaccia tra la sua interiorità e l’esterno. Di colpo, al risveglio da un sogno, gli oggetti appartenenti al mondo esterno, le loro qualità e affezioni si trovano svuotate del significato che convenzionalmente l’abitudine istituisce e il protagonista si scopre incapace di far emergere la rassicurazione che il mondo trasmette nella sua catena di abitudini. Al contrario tutto appare nuovo, innescando un turbinio di fenomeni che alternano fiducia, stupore, attesa, aspettativa, curiosità, presagio, fino a disorientamento e angoscia.

«Perdere le sicurezze, – mormora fra sé e sé – sarà ogni giorno faticoso, quelle sicurezze che giornalmente mi sono state imposte da altri». Ma questa perdita di sicurezza spalanca la possibilità del vero sentire: «Come diventava grande l’ambiente attorno a lui, rispetto a prima! Solo ora che aveva gli occhi liberi lo vedeva così rigoglioso». È questo il momento, quando l’attenzione sembra priva dei consueti filtri, in cui possono accadere le epifanie del quotidiano: dinanzi a un tramonto «per un certo tempo lo splendore degli oggetti fu così intenso che questi parvero consumarsi nella loro luce». Non solo, anche le cose apparentemente più banali sono fonte di meraviglia: «Poi ebbe un'esperienza – e mentre ancora la viveva, desiderò non dimenticarla mai. Nella sabbia, ai suoi piedi, vide tre cose: una foglia di ippocastano; il frammento di uno specchietto; un piccolo fermaglio da capelli. Quelle cose erano state lì tutto il tempo, ma improvvisamente divennero oggetti miracolosi. “Chi ha mai detto che il mondo è già stato scoperto?” (…) Le cose miracolose che ora stavano davanti a lui non spaventavano. Gli diedero un tal senso di fiducia che non poté più restarsene fermo e immobile». Al punto che può permettersi di dire: «Ogni giorno mi rallegro di essere in vita, e sono più curioso che mai».

Mi fermo con le citazioni, credo che sia sufficientemente chiaro cosa intenda Handke con il termine «vero sentire» e che ruolo assuma nel discorso sull’elogio dell’invisibile; dove appare evidente come l’invisibile non è contrapposto al visibile, ma ne è costituisce l’approdo ulteriore. Aggiungo solo che questa sottigliezza percettiva la ritroviamo in altri testi dell’autore in cui compaiono simili micro-epifanie, dove tutto può essere fonte di continue scoperte, di rifrazioni luminose e di mistero insondabile [17].


Reincantare la vita, generare mondi

Siamo giunti al termine di questa passeggiata, manca solo qualche osservazione conclusiva. Riformulo ancora una volta la domanda da cui si è dipanato tutto il discorso: perché voler sondare i confini delle nostre facoltà, alterando le nostre funzioni mentali alla ricerca di ulteriori conoscenze? Spero di aver mostrato come la questione sollevata non richieda risposte specialistiche o le competenze di addetti ai lavori, riguarda direttamente tutti noi, in questo caso siamo noi gli esperti, attraverso il nostro rapporto con il vivere e il morire e la domanda di senso connessa. Allora il motivo riguardante la modificazione degli stati di coscienza va colto in una cornice più ampia, è in fondo un tassello dentro la più ampia riflessione concernente la possibilità di reincantare il mondo e reinventare la vita, che oggi da più parti viene tematizzata in diversi campi, dalla politica fino all’economia.

Per apprezzare il significato di questo termine di nuovo conio dobbiamo raffrontarlo con il suo opposto, il disincanto, utilizzato agli inizi del Novecento da Max Weber per indicare i tratti caratterizzanti la civiltà occidentale moderna, attraverso i quali si sarebbe giunti, con il crescente sviluppo della razionalità tecnico-scientifica, a dominare il vivente, ripudiando al contempo ogni altra forma di spiegazione che non rientrasse nei canoni del discorso razionale [18]. Giova aggiungere come il reincanto di cui si parla non può non presentare tratti post-cartesiani, ove il prefisso «post» non indica una progressione dialettica in nome del progresso, secondo una nozione lineare e sommativa del tempo, ma si inscrive in una successione dentro un multiverso e una struttura dinamica del tempo. In altre parole, il reincanto si genera avendo calpestato le categorie cognitive della modernità, misurandone i pregi, così come le lusinghe e le insidie, nel riconoscimento che non solo non c’è un’unica forma di razionalità, ma che la ragione, a sua volta, non manifesta la totalità delle possibilità umane di pensare e di agire.

Non basta. A ben vedere, il mondo in cui viviamo si presenta solo apparentemente orientato dalla razionalità, altre apparizioni inquietanti si profilano all’orizzonte che ben poco hanno a che vedere con l’uso orientato dalla ragione. Il reincanto del mondo può costituire allora la sorgente a cui attingere l’energia curativa in grado di contrastare il narcisismo collettivo che contrassegna la società contemporanea, in cui la coazione a produrre, che ha per lungo tempo dominato, si coniuga con la coazione a consumare, in una messa a profitto generale della vita. Di fronte a ciò, eventi significativi che hanno costellato in passato la socialità, come il rito, il gioco, la festa e il dono, vanno esaurendosi sostituiti da nuovi regimi del desiderio, regimi eterodiretti, improntati al divertimento e al consumo di oggetti, attraverso modalità tossiche e compulsive: dai centri commerciali ai centri benessere, dai selfie ai social con i like e i tweet [19].

Transiti, rêverie e reincanto diventano attrezzi per generare mondi, per riprendere in mano la propria esistenza per tessere nuove trame di una rete dialogica e collaborativa, densa di relazioni e assemblaggi, all’interno di un’ampia progettualità sociale e politica in grado di includere non solo noi umani, ma tutto il vivente con cui condividiamo questa vita sulla terra.


Note [1] Aspetti scientifici della parapsicologia, a cura di Roberto Cavanna, Torino, Boringhieri, 1973. [2] Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992. [3] Paul Watlawick, La realtà della realtà, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1976. [4] Gaston Bachelard, Poetica della rêverie, Bari, Dedalo, 1972. [5] William Blake, Visioni, Milano, Mondadori, 1965. [6] Lo stesso Ungaretti, nel Discorsetto del traduttore, posto all’inizio del volume mondadoriamo, sottolinea come Blake fu il solo poeta che in quegli anni previde e intese appieno gli avvenimenti della rivoluzione francese. Cfr. anche: Edward P. Thompson, Apocalisse e rivoluzione.William Blake e la legge morale, Milano, Raffaello Cortina, 1996. [7] Secondo gli insegnamenti zen la mente del principiante è libera dalle abitudini dell’esperto, disposta ad accogliere e aperta a tutte le possibilità: è la mente che può comprendere la natura originaria di ogni cosa. Cfr. Shunryu Suzuki, Mente zen, mente di principiante, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1976. [8] Michel Hulin, La mistica selvaggia, Milano, IPOC, 2012. [9] Georges Lapassade, Saggio sulla transe, Milano, Feltrinelli, 1980. [10] Milton H. Erickson, Ernst L. Rossi, L’esperienza dell’ipnosi, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1985. [11] William Burroughs, La scimmia sulla schiena, Milano, Rizzoli, 1962. [12] William Burroughs, Nova express, Milano, Sugar, 1967. Gli altri due volumi sono La morbida macchina e Il biglietto che è esploso. [13] Questa e le successive citazioni provengono tutte da: Arthur Rimbaud, Opere, a cura di Diana Grange Fiori, Milano, Mondadori, 1975. [14] Tre in particolare: L’orgia parigina ovvero Parigi si ripopola, Canto di guerra parigino e Le mani di Jeanne-Marie. [15] Meriterebbe indagare le ragioni di quella scelta. Ecco quanto ha scritto in proposito Erri De Luca, all’epoca autista di convogli umanitari destinati ai profughi di entrambe le parti in guerra: «Nell’ultimo anno, nell’ultima primavera del nostro secolo, lui e io, ognuno per conto proprio, siamo stati a Belgrado a condividere il suono delle sirene di allarme che precede i bombardamenti aerei. (…) Il bombardamento aereo di una città è l’atto terrorista per eccellenza. Vuole distruggere e terrorizzare il maggior numero di persone inermi, di ogni età, colpite nel mucchio e a casaccio. Questo è terrorismo puro». Erri De Luca in Peter Handke, viandante carinziano in Friuli, testi di P. Handke, E. De Luca, H. Kitzmuller, D. De Marco, M. Bait, Montereale Valcellina, Circolo culturale Menocchio, 2012. [16] Peter Handke, L’ora del vero sentire, Milano, Garzanti, 1980. [17] All’interno della vasta produzione di Handke mi limito a segnalare un paio di altri titoli sulla medesima lunghezza d’onda del romanzo citato: Epopea del baleno, Milano, Guanda, 1993 e Saggio sulla giornata riuscita, Milano, Garzanti, 1993. [18] Max Weber, La scienza come professione. La politica come professione, Torino, Einaudi, 2004. [19] Cfr. Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti, Milano, Nottetempo, 2021.


Immagine: Chiara Susanna Crespi


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Federico Battistutta è un ricercatore indipendente nel campo del religioso contemporaneo, in particolare su tematiche di frontiera (fenomeni ereticali e anarchismo religioso, ecosofia ed ecoteologia, teologie di genere e queer, post-teismo e ateismo religioso, stati modificati di coscienza ecc.). Collabora a periodici di settore e a volumi collettanei italiani ed esteri, ha pubblicato alcuni libri e diretto un paio di riviste.

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