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Una promessa mancata, un dibattito fuorviante

Sulla definizione di salute dell’OMS[1]

 


 

 

 



Sulla definizione di salute dell'OMS

Nell’articolo pubblichiamo oggi, Marina Lalatta Costerbosa analizza la definizione di salute data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, inserendosi in un ampio dibattito che coinvolge varie riviste internazionali. L’ipotesi dell’autrice, capovolgendo il ragionamento di molti critici odierni, è che il fraintendimento tra intento descrittivo e intento prescrittivo sia responsabile del disimpegno scaturito da un’applicazione inadeguata della definizione di salute.


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Un’argomentazione da capovolgere

È cosa nota: la definizione che l’Organizzazione Mondiale della Sanità - l’Agenzia ONU istituita a pochi anni dalla fine della Seconda guerra mondiale - scelse di porre alla base della propria azione di indirizzo e di coordinamento in materia di salute recita: «La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste soltanto in un'assenza di malattia o di infermità». E, poco oltre, che: «Il raggiungimento dei più alti standard di salute conseguibili, è uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano senza distinzione di razza, religione, credo politico, condizione economica o sociale».

Tralascio le considerazioni che si potrebbero muovere all’impiego del termine «razza», senza neppure la sua resa in corsivo o tra virgolette. Come per la nostra Costituzione, sono ancora gli anni in cui è freschissimo il ricordo degli effetti disumani di politiche persecutorie a sfondo razzista ed è fortemente avvertita l’esigenza prevalente di superare logiche e dispositivi razzisti, più che quella di rimettere in discussione la stessa fondatezza scientifica della presunta esistenza di «razze» umane.

Mi limito quindi solo ad aggiungere a tale definizione quanto, quasi quarant’anni dopo, verrà ribadito e integrato nel 1986, in occasione della Prima conferenza mondiale per la promozione della salute, al termine della quale sarà redatta la Carta di Ottawa. In questo secondo documento la salute viene ulteriormente rappresentata come un «campo di applicazione delle capacità individuali o di gruppo, intese a modificare o a convivere con l'ambiente. La salute è quindi vista come una risorsa della nostra vita quotidiana, e non come lo scopo della nostra esistenza; si tratta di un concetto positivo che pone l'accento sia sulle risorse personali e sociali che sulle capacità fisiche».

A proposito della definizione di salute riportata in apertura, viene detto in modo ricorrente che essa nel chiedere «uno stato di completo benessere» ambisca all’impossibile, e così facendo abbia condotto a un eccesso di medicalizzazione[2].

A mio avviso, si potrebbe sostenere invece, in un certo senso (che ora tenterò di illustrare), proprio il contrario.

Sullo sfondo normativo e culturale prospettato dall’OMS nel ’48, una presa in carico troppo sbrigativa di quella definizione, una lettura che confonda il piano descrittivo, quello dei dati di fatto, con quello normativo, quello degli obiettivi prefissati, può condurre infatti a interpretazioni paradossali.

Capovolgendo il ragionamento di molti critici odierni, penso si possa affermare, almeno in ipotesi, che proprio il fraintendimento tra intento descrittivo e intento prescrittivo sia responsabile del disimpegno scaturito da un’applicazione inadeguata della definizione di salute. Detto più chiaramente, è il suo essere stata di fatto disattesa, è il suo essere rimasta per 75 anni in larga misura lettera morta, non il suo essere stata seguita fedelmente, ad aver prodotto una medicalizzazione eccessiva.

In sintesi, si sostiene da più parti che «completo», «complete», attribuito a quel benessere che corrisponderebbe alla piena condizione di salute, individua qualcosa di impossibile, e da questa impossibilità discenderebbero parossismi.

Ma è davvero così?

 

 

Tra i fatti, la norma sfugge

 Due sono le considerazioni sulle quali vorrei brevemente soffermarmi.

La prima concerne precisamente l’aggettivo incriminato: «complete».

«Complete» è vero che può significare «totale» o «assoluto», ma è altrettanto pertinente immaginare che possa significare «integrale», «pieno», «generale», «comprensivo»; e se si privilegia questa seconda opzione la tesi dell’implausibilità e dell’impossibilità di quanto affermato viene a cadere. La definizione suonerebbe in questo caso pressappoco così: «La salute è uno stato di benessere non riducibile alla mera condizione fisica. Perché vi possa essere salute vi deve essere anche benessere mentale e sociale».

Ma soprattutto - ed è questa la seconda considerazione - la definizione di cui stiamo trattando, la sua natura, non è descrittiva; essa non viene empiricamente desunta dalle manifestazioni che nei fatti si palesano della salute o di ciò che perlopiù viene percepito come salute. Essa non si colloca sul piano dei fatti nudi e crudi, delle proiezioni, o dell’induzione pratica da evidenze. Essa, al contrario, si situa sul terreno valutativo, rientra nella sfera delle aspirazioni, del dover essere, del come dovrebbe essere una condizione di vita perché essa si candidi davvero a soddisfare l’insieme dei requisiti di possibilità di una vita sana.

La definizione dell’OMS ha dunque un carattere contro-fattuale, la sua è una funzione di indirizzo (come è del resto previsto per l’operato stesso dell’Agenzia ONU). Possiede dichiaratamente qualcosa di simile a quella tensione prescrittiva e di indirizzo, appunto, che rintracciamo negli articoli fondamentali delle costituzioni democratiche. Un esempio solo per tutti è rappresentato dall’articolo 3 della nostra Carta costituzionale. È un articolo in cui si sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini e la condanna di ogni discriminazione fondata su diseguaglianze di appartenenza etnica, di religione, di genere, di status economico ecc. Sarebbe assurdo e tecnicamente sbagliato criticare la validità di tale articolo, obiettando che siamo diversi e che spesso queste differenze determinano privilegi e discriminazioni.

 

 

La svolta rivoluzionaria del corpo proprio

 Alla definizione dell’OMS si era giunti alla fine degli anni Quaranta, quando si assistette alla più estrema e brutale distruzione organizzata e massificata dell’essere umano; quando si comprese, purtroppo per negazione, quanto una persona fosse un tutto unitario; quando si poté pianificare la distruzione del corpo attaccando la mente o la distruzione della mente attaccando il corpo; d’altro canto il sistema della tortura lo dimostra ancora oggi senza sosta in molte parti del mondo.

I fatti genocidari e democidari del Novecento lo avevano dimostrato; ma già prima della tragedia della Seconda guerra mondiale, una nuova idea dell’essere umano e della sua corporeità, la comprensione dell’essere umano come avente un corpo non più rappresentabile come mera unità di carne e ossa, si era presentata all’orizzonte del pensiero occidentale.

Molti intellettuali giungono a questa salda convinzione; così diversi filosofi, soprattutto francesi, sulle orme del padre della fenomenologia, il filosofo tedesco, Edmund Husserl, colui che in Meditazioni cartesiane (opera apparsa per la prima volta nel 1931) distinse già tra un concetto di corpo come Körper: il corpo organico, e un concetto di corpo come Leib: il corpo vivo, il corpo proprio.

Un anno in particolare è decisivo in questa breve storia che sto rapidamente ripercorrendo. È il 1943, un anno sorprendente per l’originalità e, nel tempo, per il credito, l’influenza e forse l’evidenza di alcune tesi sostenute in taluni importanti lavori, composti e pubblicati all’epoca da autori tra loro accomunati dalla grande considerazione riservata alla filosofia husserliana.

Nel 1943 Jean-Paul Sartre pubblica L’essere e il Nulla.

Nel 1943 Maurice Merleau-Ponty lavora alla stesura de La fenomenologia della percezione (che uscirà di lì a due anni).

Nel 1943 George Canguilhem dà alle stampe Il normale e il patologico.

 

 

 Io sono il mio corpo

 Sartre e Merleau-Ponty, presentano una visione del corpo profondamente rivoluzionata, pur nella diversità delle rispettive filosofie.

Sartre scriverà nel suo capolavoro che non è corretto esprimersi in termini di possesso quando ci si riferisce al proprio corpo. «Io esisto il mio corpo» (1964, p. 434), io non ho il mio corpo, bensì sono il mio corpo. E per questa strada si incamminerà anche Merleau-Ponty, per il quale «il mio corpo è il mio punto di vista sul mondo» (1965, p. 117).

«Il corpo è il veicolo dell'essere al mondo, e per un vivente avere un corpo significa unirsi a un ambiente definito, confrontarsi con certi progetti e impegnarsi continuamente». «L'unione dell'anima e del corpo non è suggellata da un decreto arbitrario fra due termini esteriori, uno oggetto, l'altro soggetto. In ogni istante – continua Merleau-Ponty - essa si compie nel movimento dell'esistenza» (ivi, p. 138).

«Il corpo proprio [...] è un oggetto che non mi abbandona» (ivi, p. 141). Siamo noi stessi, è una permanenza per noi, è un essere compresenti a se stessi, nella propria integrità. E ancora: «Io non sono di fronte al mio corpo, ma sono nel mio corpo, o meglio sono il mio corpo» (ivi, p. 214).

«È stato possibile dimostrare – osserva Merleau-Ponty - che non riconosciamo mai la nostra mano in fotografia, che molti soggetti esitano a riconoscere la loro scrittura tra le altre, e che, per contro, ognuno riconosce il suo profilo e il suo modo di camminare filmato» (ivi, p. 213).

Un ultimo passaggio almeno merita di essere rammentato, emblematico della posizione del fenomenologo francese, ma più in generale di una nuova immagine del corpo.

«Il corpo – scrive - non può essere paragonato all'oggetto fisico, ma piuttosto all'opera d'arte. In un quadro o in un brano musicale, l'idea non può comunicarsi se non attraverso il dispiegarsi dei colori e dei suoni. Se non ho visto i suoi quadri, l'analisi dell'opera di Cézanne mi lascia la scelta fra più Cézanne possibili, ed è la percezione dei quadri a darmi l'unico Cézanne esistente» (ivi, p. 215).

«Un romanzo, una poesia, un quadro, un brano musicale sono individui, cioè esseri in cui non si può distinguere l'espressione dall'espresso, il cui senso è accessibile solo per contatto diretto e che irradiano il loro significato senza abbandonare il proprio posto temporale e spaziale. In questo senso il nostro corpo è paragonabile all'opera d'arte. Esso è un nodo di significati viventi e non la legge di un dato numero di termini covarianti» (ivi, p. 216).

 

 

Io sono la mia malattia

 Ma se è così, allora il corpo inteso come «corpo psichico» o «il corpo proprio» o il corpo come sistema di «significati viventi» ci conduce alla comprensione meno esteriore di un concetto di salute non riducibile «all'assenza di malattia o di infermità» (come recitava la definizione dell’OMS).

Sotto questa luce, la malattia va riconsiderata.

Ed è in particolare l’opera ormai classica di George Canguilhem a divenire qui illuminante.

Vorrei richiamare alla mente soprattutto alcuni luoghi tratti dal pionieristico e attualissimo Il normale e il patologico, lavoro di ricerca e studio che tanta influenza ebbe nella successiva riflessione filosofica, e non solo. Esso appare decisivo per una rielaborazione dell’idea di normalità e dunque per un ripensamento radicale e anticonformista dei confini della sfera del patologico e dei criteri per la sua individuazione.

«Dal proprio punto di vista oggettivo – si legge -, il medico vuole vedere nell'anomalia soltanto lo scarto statistico, dimenticando che l'interesse scientifico del biologo è stato suscitato dallo scarto normativo […] non tutte le anomalie sono patologiche»; «non è agli scarti statistici, nel senso di semplici varietà, che si pensa quando si parla di anomalie, bensì alle difformità nocive o addirittura incompatibili con la vita; e ad esse si pensa riferendosi alla forma vivente o al comportamento del vivente non come a un fatto statistico, ma come a un tipo normativo di vita».

«L'anomalia è l'elemento di variazione individuale che impedisce a due esseri di potersi sostituire l'uno all'altro in modo completo [...] Ma diversità non significa malattia.

L'anomalo non è il patologico.

Patologico implica pathos, sentimento diretto e concreto di sofferenza e di impotenza, sentimento di vita impedita. Ma il patologico è l'anormale» (1998, p. 106).

Ma in che senso? Cosa vuol dire a-normale? E come può identificare il patologico?

«Vi è senza dubbio – prosegue Canguilhem - un modo di considerare il patologico come normale, definendo il normale e l'anormale attraverso la frequenza statistica relativa. In un certo senso si dirà che una salute continuamente perfetta è un fatto anormale.

Ma è perché il termine salute ha due differenti sensi.

La salute, considerata assolutamente, è un concetto normativo che definisce un tipo ideale di struttura e di comportamento organico; in questo senso è pleonastico parlare di buona salute, perché la salute è il bene organico». «In questo senso abusivo, è evidente che il patologico non è anormale» (ivi, p. 107); purtroppo, potremmo aggiungere.

«Se [però] intendiamo il termine normale nel suo autentico senso, dobbiamo porre l'equazione tra i concetti di malato, di patologico e di anormale» (ivi, p. 108).

«L'uomo normale è l'uomo normativo, l'essere in grado di istituire nuove norme, anche organiche. Una norma unica di vita è sentita come privazione, non come fatto positivo» (ivi, p. 109). Star bene vuol dire, poter progettare, poter dar vita a qualcosa di nuovo nel mondo, scriverebbe Arendt.

«L'anomalia può sfociare nella malattia, ma non è di per sé solo una malattia. Non è facile determinare in quale momento un'anomalia si trasformi in malattia» (ivi, p. 110).

«È dunque innanzitutto perché gli uomini – pensa sempre Canguilhem - si sentono malati che vi è una medicina. È solo secondariamente - per il fatto che vi è una medicina - che gli uomini sanno in che cosa essi sono malati.

Ogni concetto empirico di malattia conserva un rapporto con il concetto assiologico della malattia. Non è, di conseguenza, un metodo oggettivo che fa qualificare come patologico un fenomeno biologico considerato.

È sempre la relazione all'individuo malato, tramite la mediazione della clinica, ciò che giustifica la qualificazione di un fenomeno come patologico [...].

Certo una patologia può essere [...] detta oggettiva in riferimento al medico che la pratica. Ma l'intenzione del patologo non fa sì che il suo oggetto sia una materia svuotata di soggettività» (ivi, p. 191).

 

 

Salute & equità: un ideale tradito

 Quale lezione si può trarre da queste riflessioni, lette oggi a ottant’anni di distanza?

Questa prospettiva, anzi, questo sguardo sul malato, ancora prima che sulla malattia, respinge la possibile escalation di medicalizzazione e di mortificazione della soggettività del paziente.

Nel fare questo però – si potrebbe obiettare - nel commisurare anche all’autopercezione del «paziente eventuale» la possibilità di sancire la sua condizione patologica, nel relativizzare cioè in senso soggettivo tale stato, la tesi sostenuta dai nostri autori francesi, Canguilhem in testa, finisce per approdare necessariamente all’abbandono nella relazione di cura? Alla sottovalutazione della malattia, come si potrebbe suggerire?

La risposta più attendibile a questa obiezione penso debba essere negativa.

La presa in carico anche della condizione materiale del malato, della sua condizione di vita sotto il profilo economico, sociale ed affettivo, solo per una distorsione o una strumentalizzazione può condurre al disinteresse e al conseguente abbandono.

L’apertura alla medicalizzazione esasperata, inoltre, non ritengo sia necessariamente un difetto da ascrivere alla definizione di salute dell’OMS, la quale tiene giustamente in considerazione la complessità del nostro benessere e il bisogno di appagamento e riconoscimento ampio e comprensivo, quale presupposto per stare bene, per essere in salute, per il nostro essere un corpo e non più superficialmente per il possesso del nostro corpo non malato.

L’eccesso di medicalizzazione – come ipotizzavo all’inizio - potrebbe dipendere al contrario proprio dal non aver accettato di fatto tale complessità, dal non aver accolto effettivamente uno sguardo olistico sull’essere umano e la sua dimensione corporea, inscindibile dalla dimensione creativa.

Inoltre, la presunta impossibilità di corrispondere a una definizione che si autodichiara un ideale e un principio di indirizzo, non una regola qui e ora per l’agire, non pare pertinente sul piano concettuale né su quello metodologico. Gli ideali, le idee regolative, il mondo del dover essere è fatto così; e nella e per la sua controfattualità diviene criterio di giudizio critico, modello da perseguire, sfida verso il meglio.

E così, per avanzare in conclusione una spiegazione almeno provvisoria, la contestazione di frequente rivolta alla definizione di salute dell’OMS nel dibattito scientifico e filosofico-scientifico attuale attorno all’idea di salute sembra negare la biunivocità del rapporto tra salute ed equità; e alla fine celare o comunque favorire, più o meno consapevolmente, la persistente mancanza di volontà politica nel rimettere mano a un sistema di ingiustizie, di diseguaglianze locali e globali, che riguardano la distribuzione delle risorse sanitarie e, più in generale, la redistribuzione delle risorse, delle opportunità di vita, delle reali chance di vivere in pace, per le diverse popolazioni sparse per il mondo.

 

 

 Note

[1] Una prima versione ridotta di questo contributo è stata presentata a Bologna il 5 dicembre 2023 in occasione del Convegno «Polifarmacoterapia: sfide e strumenti», organizzato dalla Regione Emilia-Romagna.

[2] La discussione sul tema è densa e vastissima, per una ricognizione ad ampio raggio si possono vedere le ultime annate di riviste internazionali come «British Medical Journal», «World Medical & Health Policy», «The American Journal of Bioethics», «Public Health Ethics»; ma l’elenco potrebbe continuare.



Bibliografia

 G. Canguilhem, Le normal et le pathologique, augmenté de Nouvelles réflexions concernant le normal et le pathologique (II ed. 1966), trad. it. di D. Buzzolan, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998.

E. Husserl, Cartesianische Meditationen, trad. it. di D. D’Angelo, in Id., Le conferenze di Parigi - Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 2020.

M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, trad. it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965.

J.P. Sartre, L'Être et le Néant: Essai d'ontologie phénoménologique, trad.it. di G. Del Bo, L'Essere e il Nulla, Il Saggiatore, Milano 1964.


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Marina Lalatta Costerbosa insegna Filosofia del diritto e Bioetica presso il Dipartimento di Filosofia dell'Alma Mater Studiorum. Con DeriveApprodi ha pubblicato La democrazia assediata (2014); Il silenzio della tortura. Contro un crimine estremo (2016); Orgoglio e genocidio (2016, con A. Burgio); Il bambino come nemico (2019); Günther Anders (2023). È inoltre in preparazione il volume: Il diritto in una formula. Saggio su Gustav Radbruch.

Per Machina cura, insieme ad Alberto Burgio, la sezione «spigoli».

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