Un nuovo articolo di Desi Bruno sull'istituzione carceraria per la sezione spigoli. Se nel primo contributo l'autrice si è interrogata sul superamento del carcere minorile, in questo nuovo testo l'accento è posto sullo stato e sull'inadeguatezza degli istituti penitenziari itaiani, sulla ratio degli interventi eseguiti dai vari governi succedutesi negli anni - spesso con provvedimenti legislativi distonici e senza un piano complessivo - e sul tema della violenza di genere.
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La questione è ormai nota a tutti. Non c’è quasi giorno che passi senza che non arrivi una segnalazione sull’aumento della popolazione carceraria (oltre 60.000 presenze a fronte di una capienza regolamentare di 47.000 ad oggi), sui numeri crescenti ed abnormi delle persone detenute che si suicidano (28 detenuti e 3 appartenenti alla polizia penitenziaria nei primi 3 mesi dell’anno), sui rischi connessi alla presenza sempre maggiore di situazioni di disagio psichico, sulla carenza di educatori e quindi sulla difficoltà di lavorare per il reinserimento dei detenuti definitivi, in numero sempre crescente, sulla mancanza di opportunità lavorative, di fondi, su episodi di intolleranza e violenza di detenuti e contro i detenuti e quindi sulle problematiche connesse alla sicurezza nella vita degli istituti. L’ elenco delle criticità potrebbe allungarsi ancora molto. Rispondere alla questione del sovraffollamento carcerario con la proposta di costruire nuove carceri è anche troppo facile, ed è quella che «paga di più».
Nel 2010, è bene ricordarlo, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, decretò lo stato di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento delle carceri, rimarcando lo stato di inadeguatezza degli istituti penitenziari e i conseguenti problemi di salute e sicurezza. Ne seguì un controverso Piano carceri, che portò alla costruzione di una serie di padiglioni aggiuntivi a molte delle strutture esistenti, con caratteristiche più adeguate ai parametri indicati dalle Convenzioni internazionali e dall’ordinamento penitenziario, senza che il problema si sia risolto.
Ma altrettanto demagogico appare il grido di orrore sulla costruzione di nuove carceri, quelle di cui ancora comunque purtroppo c’è bisogno, almeno per una parte della attuale popolazione carceraria, che sostituiscano in toto quelle fatiscenti dove gli spazi, l’igiene e la mancanza di acqua rendono la vita un inferno e per le quali l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel 2013 per violazione dell’art. 3 CEDU con la sentenza «Torreggiani», per il trattamento inumano e degradante denunciato da alcuni detenuti italiani.
E comunque «liberarsi della necessità del carcere» passa, di necessità, dapprima attraverso la loro ri-costruzione, se è vero che l’ambiente penitenziario nella sua dimensione attuale ha effetti criminogeni sulla stessa popolazione detenuta.
Di recente il Ministro di Giustizia ha proposto il recupero di alcune strutture del demanio non utilizzate per recuperare almeno duemila posti, ma i tempi sono lunghi, e di nuovo è comparsa la proposta di ulteriori padiglioni in aggiunta alle strutture esistenti.
Ancora, si discute sulla possibilità di inserire i detenuti tossicodipendenti in comunità terapeutiche come ordinaria modalità di esecuzione della pena e di introdurre per chi ha pene brevi case- famiglia a custodia attenuata per rendere più agevole al momento del rilascio il rientro in ambito sociale, umanizzando la pena e riducendo i numeri dei detenuti. Tutti temi che meritano una trattazione a parte, ma danno l’idea della complessità dell’universo carcerario.
Dieci anni dopo siamo di nuovo nella situazione del 2010, nonostante il susseguirsi di molti interventi normativi nel tentativo reale o apparente di ridurre il numero delle presenze e di incentivare il ricorso alle misure alternative alla detenzione, sulla base della semplice considerazione che le alternative al carcere offrono molte più garanzie di incidere sulla recidiva rispetto all’esecuzione di pene solo detentive.
Secondo le statistiche ministeriali la recidiva si abbatte di 2/3 in caso di accesso alle misure alternative al carcere. Non è un dato di poco conto.
Nel 2015 il Ministro di Giustizia di allora, Orlando, convocò gli Stati generali dell’esecuzione penale per un grande progetto riformatore dell’esecuzione penale costituendo 18 tavoli di esperti, a cui era demandato il compito di rivedere tutto il sistema penitenziario, dal tema dell’edilizia carceraria, alle misure di sicurezza, al tema dei rapporti con la famiglia, ecc.
Quel progetto riformatore è rimasto inattuato perché era impopolare, e dopo due anni di lavori, tutti i progetti di riforma sono rimati nel cassetto, ad eccezione dell’ordinamento minorile.
Seguirono importanti commissioni, guidate da giuristi come Giostra e Lattanzi, fino alla riforma c.d. «Cartabia», che avrebbe dovuto, nell’intenzione del legislatore, accelerare i processi, ridurre il ricorso al carcere, favorire la giustizia riparativa, tutti obiettivi allo stato ancora da conseguire.
Ma al contempo, a fasi alterne, e sotto ogni governo, si continua anche a legiferare inasprendo le pene, anche se la storia giudiziaria, di ogni paese e di qualunque epoca, consente di affermare che l’inasprimento delle pene ha un valore simbolico, lenisce, in parte, la sofferenza delle vittime, dà l’impressione che lo Stato si occupi del problema. Così è stato per gli stupefacenti, per la corruzione, per i delitti in materia familiare, sino al «codice rosso», in materia di reati di genere, più volte rivisitato e rafforzato nell’apparato repressivo (ma che deve essere accompagnato da una serie di interventi di sostegno economico alle donne che vogliono e non possono liberarsi da situazioni di violenza). Si è introdotto l’omicidio stradale, come se nel nostro ordinamento non esistesse il reato di omicidio, si è introdotto quello nautico ed altri ancora ne verranno, risposte sull’onda di fatti gravissimi ma che non possono essere risolti solo con l’intervento penale, e le ragioni e le condizioni in cui maturano i reati non sono influenzati dall’asprezza delle pene.
Da ultimo come non ricordare, sempre in via esemplificativa, il D.L. n.123/2023 «Caivano», risposta a un degrado urbano di tutta evidenza, ma che ha modificato l’approccio trattamentale nei confronti della devianza minorile con pene più severe (anche per gli esercenti la potestà sui minori), con l’ampliamento delle ipotesi di custodia cautelare e con provvedimenti di ammonimento (anche per i giovani tra i 12 e 14 anni), già al vaglio della Corte Costituzionale per violazione della finalità educativa della pena per reati commessi da minorenne. Spesso gli inasprimenti di pena o gli interventi di maggior rigore vengono travolti dalla Corte Costituzionale, che soprattutto con riferimento alla fase esecutiva della pena è intervenuta per ricordare che le persone detenute, qualunque reato abbiano commesso, possono evolversi e che il trattamento carcerario non può essere inumano e degradante, secondo il chiaro dettato dell’art. 27 della Costituzione. Appunto, la dignità delle persone, operatori penitenziari compresi, è ad oggi ancora calpestata. Sarebbe utile che la magistratura giudicante e quella requirente facessero qualche visita ai penitenziari italiani (peraltro l’art. 69 dell’ordinamento penitenziario lo impone alla magistratura di sorveglianza) e che le parole di scandalo, da condividere, per le condizioni nelle quali è stata presentata Ilaria Salis detenuta in Ungheria, accomunassero in quel grido di orrore anche quel che accade qui ed ora: e come non ricordare anche le modalità con cui fino a poco tempo fa erano portati i detenuti in giudizio, o come si può vivere d’estate senza acqua e senza aria in 3 mq e a quali reazioni porti un simile trattamento.
Popolazione poverissima, quella carceraria, per la presenza di percentuali alte di tossicodipendenti, stranieri, anche di seconda generazione, non solo immigrati senza titolo per permanere sul territorio ma anche persone affette da patologie fisiche e psichiche, e molti autori di reati di genere, femminicidi, maltrattamenti, violenze sessuali, su cui val la pena ritornare, perché rappresenta comunque un tema in parte «nuovo» nell’universo penitenziario. Popolazione che spesso vive dell’aiuto del volontariato, vero circuito che assicura quel po' di welfare di sopravvivenza rispetto ad esigenze elementari di vita.
Ma detto questo, si avverte una distonia in questo continuo intervenire, perché non è chiaro quale sia il pensiero sul carcere che sorregge l’opinione e l’intervento di molti, che oscillano tra l’invocazione del carcere a tutti i costi e la professione di fede sulla necessità di reinserire e ridurre il ricorso alla privazione della libertà personale, peraltro in un paese che vede ancora una presenza in carcere di presunti innocenti di poco sotto la soglia del 30% (e in passato la presenza ha sfiorato il 40%).
Alla fine l’unica risposta possibile è che la questione carcere e giustizia continui a non essere parte di un progetto complessivo, privo di un pensiero che sovrintenda e avvii mutamenti normativi rispettosi di tutte le parti, del principio di legalità, di non colpevolezza, di uguaglianza, del carcere come estrema risposta, di rieducazione, di sicurezza della collettività, di terzietà del giudice, accompagnando ogni riforma con i necessari interventi di sostegno economico e di incremento di personale dedicato e competente.
Non è più possibile accettare riforme a costo zero o a basso investimento di risorse. Le battaglie di civiltà sembrano tutte da iniziare ogni giorno più di prima.
Il carcere come extrema ratio destinato a un intervento sulle situazioni di maggior allarme sociale resta un’utopia.
Però la domanda è d’obbligo, e va rivolta con chiarezza. Il carcere è la soluzione di tutti i mali, l’isolamento aiuta a costruire una società più giusta e sicura e dobbiamo investire in una politica di edilizia penitenziaria volta non a migliorare, ma a costruire per far fronte a numeri sempre più importanti? Il continuo aumento delle pene ha risolto qualche forma di criminalità? O spesso non è servito che ad accontentare l’opinione pubblica perché, come ha detto recentemente un ex magistrato, Gherardo Colombo, più si punisce (o si invoca la punizione) più ci si sente innocenti e, però, spesso ci si ritrova più lontani dalla risoluzione dei problemi.
Ma i problemi sono giganteschi e spesso la richiesta di sicurezza nasce dalla propria insicurezza sociale, dal disagio sempre più marcato, dall’assenza di forti riferimenti valoriali, da una solitudine sociale ed esistenziale che sembra non trovare via d’uscita.
Nello specifico: il carcere e la violenza di genere
Il tema della punizione è un tema complesso, e pur a fronte di una risposta negativa alle domande prima poste, oggi, soprattutto dopo decenni dalla scomparsa di reati come il delitto d’onore e simili dal nostro ordinamento, la violenza di genere ripropone ancora il tema dell’utilità della detenzione rispetto a delitti che sembravano più appartenere all’ambito dei delitti c.d. «culturalmente orientati», cioè determinati dalla presenza in alcune culture di valori del tutto dissonanti dai principi consacrati nelle Convenzioni internazionali.
L’elenco del ricorso «comunque» al carcere come risposta a qualsivoglia problema sociale pone diversi e irrisolti interrogativi nella relazione con i delitti previsti dal c.d. «codice rosso» e di fronte al numero costante di femminicidi, che da anni supera oltre le cento vittime, nella maggior parte dei casi donne uccise in ambito familiare o comunque nell’ambito di rapporti affettivi e di relazioni di convivenza.
Non si può negare che sia stata intrapresa anche la strada della prevenzione: basta ricordare, per tutti, che nel 2015 venne varato il primo piano straordinario contro la violenza di genere, in attuazione di Convenzioni internazionali (Convenzione di Istanbul 2013), e le linee programmatiche, poi riprese dai piani successivi, erano indicate nella prevenzione, protezione e sostegno delle vittime attraverso il sostegno economico e lavorativo alle donne che volevano denunciare e attraverso, ma non da solo, l’apparato repressivo.
Nel frattempo il gratuito patrocinio a spese dello Stato viene esteso a tutte le donne, a prescindere dal reddito percepito, per poter essere assistite nel processo penale come persone offese.
Nel 2019 il tema della violenza di genere è stato affrontato con la legge 16/2019 che ha introdotto nuovi reati come il revenge porn, la costrizione al matrimonio, la deformazione al viso mediante lesioni permanenti, la violazione del divieto di avvicinamento o allontanamento disposti dal giudice; inoltre, si e’ allungato il termine per la proposizione della querela da 6 mesi ad un anno nei reati di violenza sessuale ed altri interventi in materia di aggravanti nel delitto di omicidio.
Nel 2023 è stata istituita una Commissione bicamerale di inchiesta sul fenomeno e con la legge 12/2023 si è sancita l’obbligatorietà di assumere la testimonianza della persona offesa entro 3 giorni dalla denuncia. Una corsa contro il tempo per evitare altre vittime. È stato introdotto, già in passato, l’obbligo di comunicare ed avvisare dell’eventuale scarcerazione degli autori o imputati di reati connotati da violenza di genere, onde evitare, per quel che è possibile, il contatto tra vittima e autore, anche presunto.
Con la legge 168/2023 si è arrivati a poter applicare la legislazione antimafia in tema di misura della sorveglianza speciale e dell’obbligo di soggiorno, in funzione di tutela preventiva, ai sospettati di gravi reati, sino alla previsione dell’ammonimento del questore nel caso di segnalazione di reati c.d. «spia» (lesioni, danneggiamenti, percosse, sempre in ambito familiare), al fine di impedire l’evoluzione di condotte ritenute sintomatiche verso più gravi reati.
Il processo è stato stravolto: frantumata la presunzione di non colpevolezza si è aggiunta l’opera malsana di una informazione assetata di particolari.
La normativa è complessa e la riflessione deve fare i conti anche con un mutamento della realtà carceraria in termini di presenza di imputati.
Sino ad alcuni anni fa gli autori di reati di violenza sessuale o comunque di genere erano destinati ad un isolamento carcerario nelle sezioni «protette», dove venivano collocati coloro (autori di violenza sessuale, collaboratori di giustizia, appartenenti alle forze dell’ordine, ecc.) che potevano avere problemi di incontro con il resto della popolazione detenuta che non accettava la commissione di determinati reati.
Le sezioni protette sono state per decenni luoghi di ulteriore sofferenza e segregazione, senza prospettive di cura e di programmi, con esclusione anche dal lavoro e da una socialità che rischiava di trasformarsi in occasioni di violenze tra detenuti sex offenders e tutti gli altri. Sono stati pochi i tentativi di affrontare in modo multidisciplinare il problema, come accade da anni nel carcere di Bollate, e prima ancora ad Opera, che riservano pochi posti a chi riesce ad inserirsi in un virtuoso percorso terapeutico guidato da esperti e che alla base ha un patto trattamentale tra autore di reato e amministrazione. Una goccia nel deserto. La gran parte resta esclusa.
Nel 2023 sono state 109 le donne uccise, 3566 i detenuti per violenza sessuale, 4662 per maltrattamenti in famiglia, 1791 per stalking, 174 per riduzione in schiavitù.
Numeri che crescono a dispetto dell’incremento delle figure di reato, di aggravanti e sanzioni sino ad una anticipazione della soglia di intervento punitivo ad un intervento amministrativo, quello del questore, che impone l’avvio a percorsi di riabilitazione, a prescindere dall’accertamento di una verità almeno processuale. Non può essere che ci si trovi di fronte alla situazione in cui vengono contrapposti la tutela dei diritti umani delle donne contro il diritto di difesa dell’imputato. Bisognerà trovare una strada. L’accesso alle misure alternative per gli autori di reati «sessuali» è da anni ormai possibile solo dopo avere compiuto un anno di osservazione scientifica della personalità, come prevede l’art.4 bis dell’ordinamento penitenziario, al fine di ridurre il rischio di recidiva. E si condivide. Ma gli esperti sono pochi e i condannati in aumento.
Nel processo penale anche il beneficio della sospensione condizionale della pena per condannati per reati di maltrattamenti e violenza di genere può essere subordinato all’esito positivo di un percorso riabilitativo presso i centri-antiviolenza. Ma anche i centri sono pochi e l’accertamento di responsabilità deve essere compiuto. Ancora una volta è evidente che l’approccio al tema deve fronteggiare molteplici aspetti, spesso antitetici, ma in realtà strettamente connessi.
Il diritto come strumento di tutela dei soggetti vulnerabili, ammesso che cosi si presenti almeno talvolta, può diventare strumento di annientamento di fronte al pericolo di recidiva. La tutela delle donne impone percorsi di tutela differenziati e può connotare in parte il processo, almeno nei tempi. Ma senza stravolgere il piano delle tutele. Il diritto non è solo uno strumento che si adatta, deve essere un argine e non una via di fuga. L’art. 90 quater c.p. definisce il concetto di vulnerabilità, che connota, tra le altre, le persone offese affettivamente psicologicamente ed economicamente dipendenti dall’autore di reato. Forse questo è il piano su cui lavorare per ridurre il ricorso ad una violenza che pare inarrestabile e non solo in ambito familiare e affettivo. Oggi la strada appare davvero in salita.
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Desi Bruno svolge l’attività di avvocato penalista dal 1986 nel Foro di Bologna. Ha rivestito numerosi incarichi, in particolare è stata prima Garante per le persone private della libertà personale per il Comune di Bologna dal 2005 al 2010 e poi per la Regione Emilia-Romagna dal 2011 al 2016. Attualmente ricopre il responsabile dell’Osservatorio Carcere e diritti umani della Camera Penale «Franco Bricola» di Bologna.
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