Non è facile pensare all’intimità come espressione culturale, anzi in genere si dovrebbe guardare oltre le pareti domestiche. Però, in alcuni progetti recenti il legame «domestico» non è più sinonimo della separazione centro-periferia-provincia.
Come se decenni di televisione e internet avessero prodotto una confidenza rispetto ad argomenti e proposte da realizzare dove effettivamente si vive, magari in dialogo con i capolavori storici che spesso sono emblemi di quegli stessi luoghi.
Da qui la mia attrazione per un’intimità intellettuale allo stato nascente, che potrebbe prendere il posto dell’eterna perorazione della cultura bene comune.
Sembra che l’apprendimento pubblico e personale si stia emancipando dai media attraverso un’appropriazione assimilabile alla casa (oikeiosis) che, estendendo la percezione intima al territorio, rende familiare l’iniziativa culturale. O almeno riduce l’esitazione nel proporla.
«Le case – scrive Emanuele Coccia – sono una forma estesa di quello che iniziamo a fare respirando e aprendo gli occhi appena nati: costruire intimità, Si deve parlare di costruzione perché l’intimità, anche quella con noi stessi, non è un dato, ma un artificio, che permette di scoprire in qualcosa, che ci accompagna da anni, un tratto di novità assoluta». (E. C. Filosofia della casa, Einaudi, 2021, p.18)
Fare casa, può allentare l’ossessione di dire e contraddire di Twitter e Facebook che ha fatto del domestico un bagaglio appresso, e che azzera le dispute intellettuali anche più sofisticate.
In mezzo a questi lamenti diffusi e tollerati, nell’arte qualcosa si muove, rispetto al modo vivere le sollecitazioni, le influenze, le sofferenze che provengono da fatti e notizie.
I fatti ai quali alludo avvengono a Sormano, Caglio, Lasnigo (attorno a Como); Termoli; Castelbuono (PA).
A ferragosto inizia la stagione sopra Como. Sormano: Antonella Protagiurleo e Antonio Sormani, come molti abitano a Milano, ma questo è il loro luogo elettivo e di origine e hanno creato qui una loro fondazione d’arte, dove conservano opere di colleghi e organizzano mostre, incontri. Hanno proiettato il documentario su alcune artiste del programma «Quarta Vetrina» alla Libreria delle donne di Milano. Grande partecipazione, tantissime domande, proposte, interpretazioni. La conoscenza quotidiana ha reso più intenso lo scambio culturale.
La sera prima a Lasnigo, a pochi chilometri da lì, Paolo Cabrini ha organizzato una mostra. La fa ogni anno, disponendo le opere lungo la strada. Pendolare da Milano, possiede qui una casa e un laboratorio di stampe d’arte con macchine di Gutenberg di oltre cent’anni. La domesticità si dilata sulla strada e la casa è aperta.
Paolo Bombanato, ha chiesto al Comune di Caglio una stanza dove espone una quantità di piccoli album Moleskine: ogni pagina è un ritratto a tempera. Li realizza ogni giorno in treno tra Milano-Monza. Non li vende a nessuno, ma li mostra a chi abita attorno a Caglio: è un modo per dire la sua intimità e quella che ha dipinto con le persone anonime.
Tutte queste esperienze provengono dalla decisione senza titubanze di esprimere la propria capacità, usando le stesse conoscenze tecniche e comunicative del mondo globale, ma senza allontanarsi dal proprio centro di gravità permanente. Paradossalmente la libertà aumenta in provincia, perché la condivisione quotidiana, facilita il desiderio di sperimentare.
Il Macte (Museo Arte Contemporanea Termoli) è l’integrazione al premio omonimo, resa possibile dal sostegno alla cultura della propria città del mecenate Paolo De Matteis Larivera. È stato inaugurato nel 2019 dalla direttrice Caterina Riva e conserva ben 470 opere raccolte nelle edizioni del premio dal 1955 ad oggi.
Cura il premio di quest’anno Laura Cherubini, collabora alla giuria Andrea Viliani. Sono stati selezionati 12 artisti di varie generazioni: dalla giovane pittrice Alice Visentin al maestro dell’Arte Povera Gilberto Zorio. Vince Bruna Esposito con l’opera Oro Colato.
Il 28 agosto, il giorno prima della proclamazione, l’artista realizza una performance con la poeta Paola D’Agnese, confluita nell’opera stessa.
Dall’atrio centrale si aprono alcune stanze, in una di queste c’è l’opera di Esposito: un’amaca leggera, verde fondo, cosparsa di aghi di pino, alcuni dei quali caduti a terra.
Distanziata dall’ingresso, Paola D’Agnese in piedi, ferma, legge le sue poesie. Prima di iniziare, Bruna la avvolge con una coperta di salvataggio d’oro. Dopo ogni lettura Paola lascia cadere il foglio. Bruna si avvicina, taglia un pezzetto della pellicola, lo chiude con una piccola pinza e lo applica al vestito dei presenti. Tenerezza e intimità ci hanno unito. Alla fine Bruna «sveste» Paola e insieme dispongono la pellicola d’oro dentro l’amaca, che sembra inarcarsi in un bagliore. È il peso della luce? Il salto e sei di là: / da terra a terra / da aria a destino…come ci ha appena detto Paola?
La verità è oro colato, così si dice. Nell’opera di Bruna Esposito è simbolo trasgressivo e accogliente. L’amaca allude al riposo, la poesia disegna il suono semplice che il vento / lieve viene cantando, l’oro cola sui naufraghi.
Bruna e Paola suggeriscono di decentrarci per non sovrapporci all’altro per non dare scontata la propria posizione. Bruna e Paola hanno scelto di dare forma all’intimità dell’arte, questa è stata la guida per rintracciare anche la nostra intimità. L’arte è pubblica, ma coinvolge singolarmente; produce felicità, ma non è neutrale; è materia stabile e vento fuggevole. È uno spazio psichico che orienta anche la necessità di decentrarci.
Il Museo Civico di Castelbuono ha sede nel Castello di origine trecentesca, acquistato nel 1920 dalla comunità cittadina. Ospita una collezione di arte sacra e moderna, e da un anno sotto la direzione di Laura Barreca ha iniziato la ricerca contemporanea. Motore è il «Dipartimento Progetti Partecipativi», a cura di Maria Rosa Sossai che, si prefigge di introdurre nella relazione tra arte e territorio la vita dei cittadini e degli ospiti.
Il 5 settembre si è aperta una mostra che fa di questa pratica il nucleo attorno al quale indagare la relazione tra artiste e cittadine. Invitata è Paola Gaggiotti che ha coinvolto Stefania Galegati, Donata Lazzarini (e le sue studenti Gloria Capoani, Luca Farinelli, Rebecca Mari, Gaia Michela Russo), Concetta Modica, Chiara Pergola.
Fatti curare è il titolo, tipico di un giudizio spregiativo, di una violenza verbale che ne evoca altre. Paola Gaggiotti l’ha rappresenta in un video proiettato in un monitor, dove alle frasi alterna le foto di oggetti, vestiti, libri, appunti, di una casa. Mi pare una cagata colossale Stronza Non andrà bene mai Lo devi capire per forza Non essere ridicola! È ridicolo, non capisci! Ma cosa speri di ottenere? Stai ferma Le tue mail irritano Smettila di dire cazzate Finiscila È il prezzo da pagare per lavorare qui. Non è così…
Alla tagliente alternanza di frasi terribili e intimità domestica, risponde progettando insieme a Concetta Modica e Donata Lazzarini un video con i loro figli e figlia che recitano il testo di ognuna che parla dell’esperienza della nascita. Sono in piedi, gli uni accanto all’altra, e tutti e tre declinano le parole al femminile. Titolo Madre Mia, come direbbe Luisa Muraro, è una figura dell’ordine simbolico della madre, che attraverso la voce si fa sentire tra donne e uomini. Chiara Pergola raccoglie nella cartellina, che la sua mamma aveva usato per raccogliere i documenti della tesi, una serie di fotografie in cui lei riconosce momenti di frattura che non ha saputo risolvere. Stefania Galegati scrive sulle pareti del bagno del museo e in quello del ristorante di riferimento, un lungo testo in cui racconta di sé. Immediata è la divergenza rispetto alle classiche scritte di provocazione erotica dei cessi pubblici.
I materiali di questa mostra aggiungono l’intimità all’espressione artistica.
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