Un'altra lunga e calda estate?
- Andrew Ross
- 17 giu
- Tempo di lettura: 9 min
Le proteste a Los Angeles e le crociate di Trump

Da qualche giorno gli Stati Uniti – in particolare Los Angeles e il Sud dalla California – sono attraversati da importanti manifestazioni contro i blitz e le violenze dell'ICE (Immigration and Customs Enforcement). Nell'articolo che pubblichiamo oggi, Andrew Ross spiega per quale motivo la città californiana sia l'epicentro delle proteste, approfondisce la composizione delle mobilitazioni e si sofferma sulle mosse messe in campo da Trump.
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I campioni della «Fortezza Europa» non sono più i soggetti all’avanguardia nella politica anti-migranti. Negli ultimi anni è Washington ad aver preso il comando nella corsa a blindare i propri confini con ogni mezzo possibile. Dall’inizio del suo secondo mandato alla Casa Bianca, Trump è andato ben oltre, schierando recentemente truppe attive sul suolo nazionale per la prima volta in 60 anni, nel tentativo di arginare quella che lui ama definire l’«invasione» dell’America da parte degli stranieri. La missione ufficiale dei Marines inviati la settimana scorsa a Los Angeles era quella di proteggere proprietà e personale federali, inclusi gli agenti dell’immigrazione. Ma nessuno dovrebbe farsi illusioni. Come per la «grande e bellissima» parata militare (con «carri armati fragorosi e spettacolari sorvoli aerei») che ha ordinato come regalo di compleanno personale pochi giorni dopo, il vero scopo era dimostrare pubblicamente di avere il pieno controllo delle forze armate statunitensi («il mio esercito» come l'ha definito) e di poterle usare come meglio crede. Se il suo spettacolo riuscirà a sopravvivere all’impatto negativo di aver mobilitato i soldati contro il proprio popolo, avrà superato una prova cruciale sulla strada verso il fascismo. Avendo reso chiaro che la sua amministrazione intende oltrepassare i limiti della legge, sembra ben avviato verso quella meta.
In risposta, i leader democratici hanno parlato vagamente di «minaccia alla democrazia», ma hanno fatto ben poco per contrastare questa minaccia o per opporsi alla detenzione illegale dei migranti, che vengono deportati senza alcun processo. In questo campo di governo repressivo, il loro passato non è sicuramente migliore. È stato Biden a «sigillare il confine» l’anno scorso, sospendendo di fatto il diritto d’asilo, mentre Obama si è guadagnato il famigerato soprannome di «capo deportatore» per aver rimandato oltre tre milioni di migranti al di là del confine durante i suoi due mandati. Ma è Trump, sin dalla sua prima apparizione sulla scena politica, ad aver trasformato l’anti-immigrazione in una vera e propria crociata popolare ed emotiva, impregnando il discorso pubblico delle stesse retoriche «sangue e suolo» promosse dagli europei fautori dei confini.
Di fronte alla docilità dei Democratici e alla servilità dei Repubblicani, un gran numero di persone è sceso in strada, inscenando proteste rumorose contro i blitz dell’ICE in scuole, luoghi di lavoro, chiese, fattorie e abitazioni, e in generale difendendo i lavoratori senza documenti. Queste azioni sono scoppiate in molte città, ma hanno avuto particolare forza nel sud della California. Perché proprio L.A. è diventata un epicentro?
Si tratta di una città composta in gran parte da comunità di persone con background migratorio che hanno sperimentato direttamente la persecuzione politica e la violenza di Stato nei Paesi che Trump considera «shithole countries» (Paesi di merda letteralmente). Quasi un terzo degli abitanti di Los Angeles è nato fuori dagli Stati Uniti, e i latinos sono vicini alla maggioranza demografica. La settimana scorsa, Trump ha definito Los Angeles una «discarica», aggiornando in modo chiaramente razzista la sua solita accusa di «follia della sinistra radicale». I cinici diranno che i manifestanti si sono limitati a recitare un copione che li voleva come agenti del disordine civile, inevitabilmente destinati a provocare una reazione violenta da parte dello Stato. Ma ciò non significa che abbiano sbagliato a scendere in piazza. Né importa troppo che la California, stato simbolo dei Democratici, e il suo governatore – il più probabile candidato democratico alle prossime presidenziali – siano stati presi di mira per motivi puramente politici e su basi palesemente artefatte. Per la sinistra, i termini e le poste in gioco sono molto più rilevanti del teatrino militarizzato e televisivo messo in scena in città come Los Angeles, che i commentatori MAGA amano definire «zone di guerra».
A Los Angeles, le persone scese in piazza non stavano semplicemente protestando: stavano proteggendo i migranti «irregolari», aiutandoli a sfuggire alla stretta degli agenti ICE. Ovviamente sono stati etichettati come gioventù insurrezionale e anarchica dai politici difensori del «law and order». Ma il profilo demografico dei manifestanti era insolitamente ampio. C’erano certamente i giovani audaci che da venti mesi si mobilitano per la Palestina e che, nello spirito della politica intersezionale, erano spinti anche da altre tematiche: diritti trans, giustizia razziale, corruzione oligarchica. Non si sono registrate, però, presenze dei cosiddetti Black Bloc, solitamente pronti allo scontro con la polizia. Ma la mobilitazione più significativa è arrivata dalla coalizione per i diritti dei lavoratori e degli immigrati che, negli ultimi vent’anni, ha trovato il suo centro nevralgico proprio a Los Angeles. Un rispettato leader sindacale è stato tra i primi arrestati, scatenando l’indignazione dei vertici sindacali nazionali e spingendo un gran numero di cittadini a uscire di casa e accalcarsi davanti agli edifici ICE, dove i detenuti erano tenuti in condizioni disumane. Storicamente, i sindacati erano tutt’altro che interessati ai lavoratori senza documenti, ritenendoli impossibili da organizzare. Ma tutto questo è cambiato a Los Angeles, dove le persone con background migratorio sono diventate il cuore della nuova classe lavoratrice, più integrata nel tessuto urbano che in qualsiasi altra città americana.
Inizialmente, la Guardia Nazionale e i Marines erano lì per farsi vedere. In prima linea c’erano i poliziotti del LAPD, noti per la loro brutalità, coadiuvati dalla Highway Patrol e dagli sceriffi della contea, intenti a lanciare lacrimogeni, granate assordanti e a sparare proiettili di gomma contro i civili. In effetti, la polizia ha attaccato proprio coloro che cercavano di difendere i migranti dagli agenti ICE. Era difficile non vedere in questo una forma di facilitazione, se non addirittura di collaborazione con l'ICE. È da notare che Trump non ha invocato l’Insurrection Act del 1807, che gli avrebbe garantito poteri federali molto più ampi per sopprimere la rivolta e arrestare gli insorti. Allo stesso modo, il suo gusto per il gioco della guerra è stato momentaneamente frenato da un giudice distrettuale, che ha stabilito che non vi erano prove sufficienti per dichiarare in corso una «ribellione». Ma con una lunga estate di scontri in arrivo, è difficile pensare che resista alla tentazione di invocare la massima autorità a sua disposizione. Né si troverà contro l’opinione pubblica: i sondaggi indicano che una larga maggioranza sostiene le sue politiche anti-immigrazione e non si opporrebbe alle sue misure da uomo forte. Quando Barry Goldwater accettò la nomination repubblicana nel 1964, il suo slogan da battaglia – «L’estremismo in difesa della libertà non è un vizio» – bastò a rispedire l’estrema destra nascente nell’ombra, considerata inadeguata alla competizione elettorale. Oggi quelle stesse forze risorgenti controllano la Casa Bianca, il Congresso e ampi settori del sistema giudiziario, inclusi membri della maggioranza conservatrice alla Corte Suprema. I carri armati che sfilano per le strade e le retate notturne sono la conseguenza logica.
Lo stesso giorno in cui le truppe sono arrivate a Los Angeles, ho avuto il mio primo incontro fascista per strada a New York. Un giovane in bicicletta ha visto la mia maglietta con la scritta «Dismantle Patriarchy», mi ha chiamato comunista e ha urlato «Sieg Heil», accompagnando il tutto con il saluto nazista. Avevo sentito di episodi simili a Manhattan. A New York siamo abituati a sentire persone dire cose assurde, ma l’invettiva razzista aperta è più rara, almeno in pubblico. Questo era diverso. Era una minaccia politica chiara e articolata, lanciata da un giovane MAGA abbastanza sicuro di sé da farlo in un quartiere di sinistra. Fortunatamente per lui, era su un mezzo per fuggire. Ma sono certo che non sarà l’ultima volta che incontrerò questo nuovo volto puerile e spavaldo dell’estrema destra.
Il sabato successivo alla mobilitazione delle truppe a Los Angeles, si sono tenute più di 2000 proteste in tutto il Paese nell’ambito dell’iniziativa nazionale «No Kings», organizzata da movimenti come Indivisible e il più orizzontale 50501, con il sostegno di oltre 100 organizzazioni progressiste. Era la seconda mobilitazione nazionale, dopo la manifestazione «Hands Off”»del 5 aprile che aveva coinvolto milioni di persone. Trump aveva minacciato di rispondere alle proteste con «forza molto grande» e di «liberare le truppe ovunque», ma è stato distratto dai massicci bombardamenti israeliani contro l’Iran, avvenuti il giorno prima. Netanyahu, maestro della distrazione, ha colto l’occasione per distogliere l’attenzione dalle atrocità in corso a Gaza e posare, ancora una volta, come intrepido difensore della sicurezza nazionale. Trump, in quel frangente, è stato scavalcato – evento poco gradito nel giorno del suo 79° compleanno – ma tra Washington e Tel Aviv non c’era alcuna divergenza. Gli Stati Uniti hanno offerto pieno supporto, con intelligence e armamenti, agli attacchi. Inoltre, la più recente violazione del diritto internazionale da parte di Israele ha solo rafforzato Trump, spingendolo a fare lo stesso: calpestare la magistratura statunitense e lo stato di diritto. Il comportamento dispotico delle amministrazioni Netanyahu e Trump, alla guida di Stati ultra-militarizzati, potrebbe segnare l’inizio di un nuovo ordine mondiale stanco dei diritti umani e delle convenzioni internazionali. I capi di Stato, se dispongono di armi e risorse sufficienti, possono ormai agire come signori della guerra.
Quando sono iniziati i bombardamenti sull’Iran, mi trovavo su un volo per Tel Aviv; siamo dovuti tornare indietro a New York. Quello stesso giorno, in sintonia con la criminalità sfacciata di Israele, i Marines a Los Angeles. hanno effettuato il loro primo arresto civile, in violazione del Posse Comitatus Act del 1878, che proibisce l’uso dei militari per compiti di polizia interna. Le leggi storiche venivano spazzate via in entrambi i Paesi.
La «Giornata della Sfida» organizzata dai No Kings ha portato milioni di persone in strada. I movimenti americani marciano quasi ininterrottamente dai tempi delle proteste anti-WTO di Seattle nel 1999; nel corso degli anni hanno avuto momenti di accumulo di grande forza, citando ad esempio: le manifestazioni contro la guerra in Iraq (febbraio 2003), il ciclo di Occupy Wall Street, Black Lives Matter, le mobilitazioni climatiche del 2018, il movimento per George Floyd e la lunga ondata di proteste contro il genocidio a Gaza. Quanto sono efficaci queste forme di protesta tradizionale? I cinici ricordano che la guerra in Iraq è andata avanti comunque, Wall Street è tornata più forte dopo Occupy, i suprematisti bianchi hanno cavalcato il backlash contro BLM, i colossi energetici hanno rinnegato i loro impegni, e le proteste pro-Palestina non hanno salvato neanche una vita. Ma non mancano neppure risultati da considerare: le strade sono ancora nostre — nonostante la brutalità, alla polizia è interessata maggiormente a riscuotere gli straordinari (per il servizio durante le proteste) che far rispettare il coprifuoco. Nuove organizzazioni della società civile sono nate, la lotta per la giustizia climatica è globale, i socialisti sono stati eletti, e uno di loro, Zohran Mamdani, è vicino alla carica di sindaco di New York. I diritti delle minoranze sessuali, pur sotto attacco, hanno fatto progressi irreversibili. Milioni di persone hanno preso a cuore la causa palestinese, e non se ne dimenticheranno. Più di tutto, è nelle piazze che ogni nuova generazione impara i modi della dissidenza: canti, organizzazione collettiva, azione diretta, mutuo soccorso.
Detto ciò, la sinistra americana non è preparata a organizzarsi sotto l'autoritarismo, come hanno dovuto fare altrove. Questo perché, in fondo, crediamo ancora nel valore delle idee e del dibattito aperto in una società liberale. Ma Trump ci ha messo in guardia: il Primo Emendamento, il giusto processo, la libertà accademica e la disobbedienza civile non sono più garantiti. I liberali ne sono turbati, ma la sinistra dovrebbe saperlo già. La storia mostra che l’«illiberalismo» è parte fondante dell’America, radicato nel sentimento popolare, nella prassi legale e nelle azioni del governo.
Gli Stati Uniti non sono ancora uno stato di polizia, ma Trump e le frazioni del capitale che lo sostengono hanno già fatto passi significativi in quella direzione. Non possiamo nemmeno sottovalutare il ruolo che una cittadinanza armata fino ai denti potrebbe giocare se l’autoritarismo MAGA dovesse uscire dai confini dello Stato o fondersi con il fanatismo apocalittico dell’esercito degli evangelici cristiani, che aspettano e auspicano la „guerra di Gog e Magog» – battaglia finale descritta nel Libro di Ezechiele, dopo la quale Gesù regnerà dal Monte del Tempio a Gerusalemme.
Ma ci sono altri motivi per guardare alla Terra Santa. Per imparare la resilienza e la solidarietà, possiamo ispirarci ai palestinesi stessi, popolo privato di ogni diritto, incluso – in questo momento a Gaza – quello alla vita. Diritti mai riconosciuti né dibattuti davvero, da tempo travolti dalla propaganda sul «diritto» del sionismo a insediarsi. Oggi, però, quella propaganda ha perso efficacia. Gramsci ci ha insegnato che, quando il consenso per l’egemonia crolla, le élite passano alla coercizione. E non resta che la forza bruta, il bullismo, la barbarie. È ciò che vediamo nella violenza che colpisce Gaza, Cisgiordania, Siria, Libano e ora Iran. L’anno scorso, questa logica era visibile negli arresti e nelle violenze contro i manifestanti pacifici nei campus universitari americani. Quest’anno, lo stesso copione viene applicato ai migranti. Chi sarà il prossimo?
English version below:
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Andrew Ross è attivista e professore alla New York University. È autore o curatore di più di venticinque libri, l'ultimo dei quali è Abolition Labor: The Fight to End Prison Slavery.
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È davvero impressionante vedere come Los Angeles sia diventata un centro di attivismo per i diritti dei migranti. Le manifestazioni dimostrano un forte sostegno verso coloro che vivono nel timore di essere deportati. È importante continuare a lottare contro l'ingiustizia e, parallelamente, trovare modi per rilassarsi, magari giocando a Cookie Clicker per un po’ di svago.
Every level in Geometry Dash Subzero feels like a secret handshake you have to learn. Not through instructions, but rhythm, repetition, and gut instinct. You won’t be hand-held here—there are no hints, no safety nets. It’s just you versus the level.