Rita di Leo, professore emerito in Relazioni Internazionali all’Università La Sapienza di Roma e autrice di L’età dei torbidi (DeriveApprodi, 2023), ragiona sulle peculiarità degli Stati Uniti che hanno portato alla vittoria di Trump e sulle implicazioni che il risultato avrà.
Sicuramente, l'elezione avrà un impatto significativo sugli States e sul resto del mondo: Trump modificherà in maniera sostanziale l’assetto del paese provando a tenere insieme le aspettative degli «uomini della moneta» e degli uomini del big tech e la legittimazione ricevuta dal common man americano. In che modo può farlo? Da un lato, suddividendo il potere in maniera paritaria tra gli uomini che contano; dall’altro, eliminando ogni forma di intermediazione tra lui e i suoi elettori. Un’evoluzione che quindi prevede una messa al bando della politica.
Può reggere un'impostazione di siffatto genere? Come avverte l'autrice, al momento i sommovimenti interni al paese meritano forse più attenzione delle relazioni internazionali.
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Il 5 novembre Bret Stephens, nella sua «lettera diretta a coloro che se ne interessano» pubblicata dal New York Times, ha scritto che Kamala Harris era «il contendente democratico potenzialmente meno eleggibile» nella contesa per la Casa Bianca. Stephens è un conservatore ma aveva ragione. Grande è l’ipocrisia con cui i media non conservatori, in America e in Europa, hanno raccontato il duello tra Trump e Harris. Chi ha vissuto quel paese non da turista, ma lavorandoci, ha imparato a conoscere le sue peculiarità. Ne enumeriamo cinque.
La prima è l’antropologia culturale di origine cristiano-protestante del paese, che esalta il valore del fare dell’individuo rispetto al fare in comune con propri simili per comuni bisogni.
La seconda è l’egemonia del business, che influenza le relazioni sociali con una facilità che può sorprendere chi non è cittadino americano.
La terza peculiarità riguarda l’essere o non essere cittadino e dunque il percorso di un paese di emigrati e della sua modalità di integrarli nel modello vincente, bianco e di provenienza europea nordica. Rispetto ai 46 milioni di origine olandese-tedesca-svedese-norvegese arrivati per primi, molti di coloro che sono arrivati dopo – come gli italiani e gli irlandesi e infine gli ebrei – hanno lasciato testimonianze nei loro romanzi del proprio vissuto di integrazione. Questi ultimi, seppur di religione diversa, sono però tutti bianchi e dunque hanno assorbito la medesima avversione locale per chi non lo è. I neri innanzitutto e, più di recente, i latinos e gli asiatici. Il razzismo è probabilmente la prima scoperta che fa chi mette piede nel paese.
Kamala Harris ha un’origine razziale complicata: non è bianca, ha frequentato l’antica università dei neri – dove poi ha trascorso la giornata dello spoglio elettorale –, è una donna con una professione di alto livello, con prese di posizione contrarie allo strapotere dei poliziotti e altre di tenore progressista. Epperò non si è mai esposta apertamente e tanto meno lo ha fatto come vice presidente dell’irlandese Biden, un capo che non le ha concesso alcuno spazio – e lei non è stata capace di pretenderlo. Quando Obama ha rimproverato gli elettori maschi neri di non prenderla in considerazione in quanto donna, sono emerse in gran misura le sue altre difficoltà. Tra queste spiccava il fatto che è mancato l’apporto di un qualche finanziatore di rilievo, racimolando per la sua campagna molti soldi ma di soggetti di piccola e media entità. Un segnale negativo per quel paese.
Donald Trump ha un’origine europea, metà tedesco e metà scozzese, per cui guarda a noi europei con condiscendenza, al meglio; con disprezzo, al peggio. Su Trump i media ci hanno raccontato quasi tutto da tempo; ma molto poco hanno rivelato sulle sue strategie di cambiamento delle fondamenta istituzionali del paese, che si ritrovano nel «Progetto 25», commissionato ad un think tank conservatore e poi ufficialmente negato. In realtà, i funzionari delle istituzioni prese di mira stanno già sul chi vive e così anche i giudici e tutti coloro che operano al riparo di qualche legge federale. Il loro futuro è ora nelle mani di Musk, che si prepara a diventare, con le sue geniali stravaganze, «ministro dell’efficienza».
I due protagonisti di questa tornata elettorale hanno molto in comune, si percepiscono come invincibili qualsiasi impresa affrontino.
La vera impresa – resa possibile dal successo elettorale – sta nel dare forma e sostanza al sistema-paese secondo aspettative condivise non solo dagli stessi Trump e Musk ma anche dagli uomini della moneta e dagli uomini dei big tech. Le aspettative riguardano un cambio della guardia nell’esercizio del potere, la messa ai margini di qualsiasi legge che provenga da vecchie leggi e istituzioni obsolete. I finanziamenti della campagna elettorale provengono da industriali cui è stato promessa la riapertura delle fabbriche delocalizzate, dai finanzieri cui è stato promesso piena liceità per i loro giochi cosmopoliti e, infine, dai massimi protagonisti dell’universo informatico cui è stato promesso una parità al tavolo del potere. Altro che gli interrogatori pubblici sulle loro strategie che hanno subito l’inventore di Facebook e quello di Open AI! Dall’anzianissima vedova di Adelson - il creatore di Las Vegas - agli indiani di Microsoft e Google, il sostegno a Trump ha come obiettivo modalità del potere paritario tra gli uomini che contano nel paese. Le modalità del potere sono in gran misura commisurate non solo ai rispettivi interessi quanto alla natura del potere come si va evolvendo. È un’evoluzione che prevede l’inutilità della politica non solo come mera attività amministrativa locale, come già esiste da tempo in un paese caratterizzato da piccole e medie località disperse su vasti territori e dove le grandi città come Detroit o Chicago patiscono la delocalizzazione delle loro tradizionali industrie e il declino delle burocrazie locali.
I due partiti, repubblicano e democratico, sono quasi fantasmi che appaiono al momento delle dispute elettorali e spariscono poi nella diffusa indifferenza. La vittoria di Trump è esiziale per il suo partito repubblicano: le personalità che contavano, dopo aver tentato di contrapporsi al tycoon, se ne sono andati e con essi la tradizione politica del partito. Trump è convinto di non averne bisogno, nella certezza che il rapporto diretto con la sua gente e i suoi elettori, sia la chiave del suo successo. Quel rapporto diretto si regge sui suoi media e sugli strumenti delle tecnologie informatiche che fanno apparire obsoleta anche la politica amministrativa con i suoi uomini e i suoi programmi. Trump fa le sue promesse a gran voce e viene creduto come dimostra il risultato elettorale. Le pubbliche promesse non sono rivolte ai suoi pari con i quali il legame è ben diverso, ma all’americano common man che lo ascolta perché quello che dice corrisponde ai suoi desideri: riapertura delle industrie dismesse, deportazione per gli immigrati, isolazionismo, ostracismo per le permissività nei costumi che arrivano da New York e infettano il paese.
La quarta peculiarità riguarda proprio il rapporto con gli uomini che pensano in autonomia dagli schemi dominanti. La tradizionale diffidenza nei confronti degli intellettuali e del mondo dei media indipendenti, si è moltiplicata con l’etichetta di «nemici del popolo» che serve a creare barriere tra chi legge libri e giornali e chi no. Intanto – nell’anno 2023 – diecimila volumi che potevano traviare gli studenti sono stati «espulsi» dalle biblioteche delle scuole pubbliche e va rilevato che una tale decisione è stata presa prima del ritorno di Trump. Bisogna avere ben chiaro che lo stato dei rapporti tra il common man e gli uomini della scienza, dell’arte, della cultura cosmopolita non è dello stesso tenore di quello europeo. La spaccatura tra l’uomo che pensa e l’uomo che fa è tradizionale al vissuto del paese ma, sinora, covava nei paesi agricoli o post industriali, non aveva una rappresentanza politica.
La vittoria di Trump, con la sua legittimazione del common man, cambia la sorte dell’uomo che pensa in autonomia, lo mette in difficoltà in una maniera che per noi sarebbe anche difficile da ipotizzare.
La quinta peculiarità del paese America sta nel suo pendolare tra isolazionismo e wilsonismo. L’isolazionismo è proprio del common man e viene misurato immancabilmente nei sondaggi pre-elettorali, dove risulta quasi inesistente la curiosità per quello che accade nel resto del mondo. Intanto, però, la vittoria nella seconda guerra mondiale e la guerra fredda hanno reso il wilsonismo un impegno quasi religioso per chi governa. L’intervento – anche militare – a difesa del sistema di vita americano, ha assunto nell’interpretazione dei neoconservatori (centrali all’epoca di Bush e dell’Iraq) un dovere da rispettare nell’interesse dell’universo tutto. Poiché è inteso che l’universo intero sogna di far proprio «il sogno americano dell’individualismo».
Il successo di Trump è vissuto con preoccupazione sia negli stati che gli sono fedeli che negli altri. Nelle sue prime dichiarazioni in politica estera ha promesso che porrà fine alle guerre. Nel passato si è espresso con scetticismo sulla Nato, sull’inconsistenza dell’Unione Europea, mentre gli vengono attribuite valutazioni non ostili nei riguardi di Putin. L’avversario dichiarato è la Cina, più per la concorrenza economica che per la persistenza del Partito comunista – che è al governo di un paese dove si produce e si lavora e si guadagna e si consuma con il suo benestare. Se non vi fosse l’aggettivo «comunista» accanto a partito, se si potesse fare un patto di non concorrenza tra i paesi, la Cina potrebbe essere immaginata come modello da seguire nella trasformazione del paese, così come raccomandato nel «Progetto 25».
Per dare seguito a questo piano conta innanzitutto l’abilità di tenere ben distinte le relazioni con chi lavora da un lato, e con chi pensa come innovare scienza e tecnologia dall’altro, usando strumenti di controllo-consenso senza pari. C'è riconoscenza nei confronti di chi lavora nelle fabbriche cinesi per averli strappati al destino di contadini; tra i common man la riconoscenza sta nella aspettativa di un recupero dei ruoli professionali in una qualche città industriale resuscitata. Le relazioni con i responsabili dell’egemonia americana nella scienza e nelle innovazioni tecnologiche e nell’ambito finanziario sono invece un’incognita.
L’immobiliarista Trump che ha conosciuto bancarotte e processi, può convincersi a non prevaricare figure professionali e uomini del denaro? E per quanto tempo durerà la convenienza di un rapporto apparentemente alla pari? Musk lo sosterrà o si prenderà le sue vendette sui suoi pari? Per rimanere al caso cinese, si sa che lì il genio che aveva inventato il social usato da più di un miliardo di consumatori, non appena ha espresso in pubblico riserve sul funzionamento delle banche del suo paese, è sparito di scena. Non però la sua invenzione. La forza del potere sta nella forza. Trump lo sa e sa che la vittoria elettorale gli ha messo in mano la possibilità di rimodulare il funzionamento del suo paese. La trasmigrazione di uno dei guru dei neoconservatori di Bush come Robert Kagan nel campo di Kamala non è un caso. Al momento i sommovimenti interni al paese meritano forse più attenzione delle relazioni internazionali.
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Rita di Leo è professore emerito di Relazioni Internazionali, Università Sapienza di Roma. Protagonista della stagione dell’operaismo italiano, ha contribuito alla nascita dei «Quaderni rossi»e di «classe operaia». Ha investito il suo lavoro intellettuale da un lato sull’operaismo sovietico e sulle cause del suo fallimento, dall’altro sull’apparente vittoria degli Stati Uniti e del capitalismooccidentale. Tra i suoi numerosi libri segnaliamo Lo strappo atlantico. America contro Europa (2004), L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa (2012), Cento anni dopo. Da Lenin a Zuckerberg (2017), L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo (2018). Il suo ultimo lavoro è: L'età dei torbidi. Il ritorno delle trincee tra Stati Uniti, Europa e Russia (2023).
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