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Trump a Washington: prova generale di autoritarismo

Aggiornamento: 6 ore fa


Cao Fei, The Diversionist, 2004
Cao Fei, The Diversionist, 2004

Nello stesso momento in cui Trump cerca di ristabilire un nuovo ordine mondiale conforme agli interessi americani, egli non trascura il fronte interno. Le polemiche su Washington D.C. prima e ora su Chicago, con le minacce di «liberare» la capitale e le grandi città dalla criminalità, tradiscono — come ricorda Alberto Toscano — una svolta autoritaria dalle connotazioni razziali evidenti. Non si tratta soltanto di apparenze o di esagerazioni: il suo mantra «sicuro e bello» significa che gli imperativi ultranazionalisti e reazionari della guerra culturale verranno sorretti da una crescente militarizzazione degli spazi civici, in preparazione ad una «guerra domestica permanente».


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L’11 agosto, il presidente Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo dichiarando un’«emergenza criminale» a Washington D.C. e disponendo un commissariamento federale di 30 giorni del Dipartimento di Polizia Metropolitana. Ha ordinato al segretario alla Difesa Pete Hegseth di mobilitare la Guardia Nazionale del Distretto di Columbia per pattugliare le strade della città, insieme ad altre agenzie federali di polizia, e ha promesso che stava arrivando il «Giorno della Liberazione» della capitale, quando le forze federali congiuntamente avrebbero liberato Washington dal «pozzo nero di criminalità e senzatetto in cui è diventata dopo decenni di leadership unilaterale democratica».

Trump ha inoltre dichiarato su Truth Social: «Washington, D.C. sarà LIBERATA oggi! Criminalità, barbarie, sporcizia e feccia SPARIRANNO. Io renderò DI NUOVO GRANDE LA NOSTRA CAPITALE!».


Gli americani possono essere perdonati se provano una certa stanchezza, perché hanno già sopportato almeno altri due «Giorni della Liberazione». Pochi giorni prima delle elezioni del 2024, Trump aveva scritto che «Gli Stati Uniti sono ora un PAESE OCCUPATO», ma che il giorno delle elezioni avrebbe segnato «IL GIORNO DELLA LIBERAZIONE in America!». Il 2 aprile, Trump aveva proclamato un altro «Giorno della Liberazione» per celebrare la firma dei suoi dazi globali, giustificati da un’asserita «emergenza nazionale» (una delle nove dichiarate dal suo insediamento).

Ogni «liberazione» segue lo stesso schema: dichiarando poteri d’emergenza, il presidente può esercitare tutta la forza legale dello Stato per affrontare nemici interni ed esterni e rinnovare la supremazia degli Stati Uniti. Tutte, in modi diversi, si basano su menzogne e distorsioni: che il paese sia stato invaso e occupato dai migranti; che gli Stati Uniti siano vittime dell’ordine economico globale; che Washington stia vivendo un’epidemia criminale senza precedenti, quando in realtà i tassi di criminalità sono ai minimi storici. E tutte queste piaghe possono essere imputate ai Democratici: per aver inondato la nazione di lavoratori senza documenti, per aver lasciato che l’America venisse truffata dai partner commerciali internazionali, per aver permesso alla capitale di crollare nel disordine. Come ha dichiarato l’ex consigliere di Trump Stephen Miller: «I Democratici stanno cercando di disfare la civiltà. Il presidente Trump la salverà».


Dichiarazioni di emergenza, richieste di «law and order» e uso concentrato della violenza statale contro comunità povere e marginalizzate sono da tempo tattiche primarie dell’autoritarismo nelle società capitalistiche avanzate. Sotto il presidente Richard Nixon, come osserva la studiosa abolizionista Ruth Wilson Gilmore, la «Destra emergente usò il fatto del [disordine urbano] per convincere gli elettori che gli [amministratori Democratici] non erano in grado di governare». Nel Regno Unito degli anni ’70, come spiega il teorico culturale Stuart Hall, il neoliberismo di Margaret Thatcher crebbe sulle narrazioni razziste che incolpavano i migranti di colore e i giovani neri per i problemi sociali diffusi. In entrambi i casi, le svolte autoritarie si fondavano su panici morali: episodi in cui vere ansie pubbliche vengono proiettate su eventi e gruppi identificati come minacce alla stabilità sociale. In questo modo, i panici morali forniscono ciò che Hall chiama un «vocabolario del malcontento» che genera legittimità popolare, e una base di massa, per un’autorità sempre più repressiva.


Sebbene la dichiarazione di emergenza di Trump a Washington richiami panici morali precedenti attorno alla criminalità urbana — compreso il suo famigerato intervento nel caso della jogger di Central Park, quando invocò la pena di morte per alcuni giovani neri e latini poi rivelatisi innocenti — la sua attuale campagna contro il disordine nelle grandi città è più trasparentemente fabbricata dei suoi precedenti. Sebbene l’amministrazione abbia citato episodi violenti nella capitale come pretesto — il più recente quello che ha coinvolto Edward «Big Balls» Coristine, un ex dipendente diciannovenne del Dipartimento per l’Efficienza del Governo (DOGE) aggredito durante un tentato furto d’auto — la militarizzazione della sicurezza pubblica non risponde ad alcuna richiesta popolare. Se questo panico morale ha un pubblico, è solo tra la base MAGA di Trump, scarsamente rappresentata a Washington o in altri centri urbani (durante una recente conferenza stampa, in cui ha definito «inaccettabile» l’idea della statualità per D.C., Trump si è lamentato del fatto che ha ricevuto una percentuale a una cifra di voti dagli elettori della capitale lo scorso novembre).


Gli attacchi e le minacce di Trump contro i sindaci democratici delle grandi città incanalano sia la sua lunga abitudine a criminalizzare la Blackness sia la sua agenda di smantellamento di qualsiasi disposizione «città santuario» che possa ostacolare la sua macchina delle deportazioni. Questo faceva chiaramente parte del tentativo fallito dell’amministrazione di sostituire il capo della polizia di D.C., Pamela Smith, con uno nominato da Trump e proveniente dalla DEA. Mentre un tribunale federale ha respinto quella proposta, Smith, poco dopo, ha firmato un ordine esecutivo per espandere la collaborazione del suo dipartimento con l’ICE e altre agenzie per l’immigrazione, creando di fatto una «scappatoia» al Sanctuary Values Amendment Act del 2020 promulgato dal Distretto della Columbia, come hanno denunciato i gruppi per i diritti dei migranti. È solo un esempio, come nota il sociologo della polizia Alex Vitale, di sindaci locali che «permettono alle proprie polizie di agire come moltiplicatori di forza per l’ICE, mantenendo al contempo l’illusione di essere "città santuario"».


Mentre Trump e il MAGA trattano le città multirazziali e progressiste come territorio nemico, il bersaglio contro Washington è anche strettamente legato all’ossessione di Trump di rimodellare la capitale per adattarla alla sua visione di grandezza — piani che vanno ben oltre le dorature pacchiane dello Studio Ovale o il progetto di sostituire l’Ala Est con una gigantesca sala da ballo. In questa luce, il commissariamento fa parte di un più ampio progetto delineato nel suo ordine esecutivo di marzo, «Rendere il Distretto di Columbia sicuro e bello».

Quell’ordine combinava nuove misure draconiane di «sicurezza» — tra cui la cattura e la deportazione di «immigrati illegali» e una massiccia presenza federale di polizia attorno alle principali attrazioni della capitale — con richieste estetiche di coordinare «sforzi di abbellimento e pulizia», compreso il restauro di monumenti pubblici «danneggiati o deturpati, o in modo inappropriato rimossi o modificati». In cima a questi vi è la statua del generale confederato Albert Pike, abbattuta dai manifestanti nel giugno 2020, segnalando quanto il commissariamento di Washington sia motivato non solo dall’agenda delle deportazioni, ma anche dal lungo contraccolpo contro il movimento Black Lives Matter.

L’ordine esecutivo si concentra anche sulla rimozione delle persone senza casa — a Washington, l’82,5% delle quali nere — presentando quindi la questione dei senzatetto sia come problema estetico che come minaccia alla sicurezza: un pugno nell’occhio da espellere, piuttosto che un problema sociale da affrontare.


Mentre Trump non può ancora, per citare Bertolt Brecht, «sciogliere il popolo ed eleggerne un altro», la sua visione di sicurezza e bellezza è ancorata alla rimozione di chiunque intralci la visione etnonazionalista di grandezza del movimento MAGA — per cui «i monumenti, i musei e gli edifici della capitale devono riflettere e ispirare timore e ammirazione per la forza, la grandezza e l’eredità della nazione».

Trump disprezza gli abitanti di Washington ma ama i suoi edifici, i loro marmi, il loro scheletro. Come ha dichiarato al Kennedy Center questo agosto: «Abbiamo lo scheletro migliore. Quando guardi quell’edificio della Corte Suprema, penso che sia uno degli edifici più belli». È forse un esempio calzante, visto che nel 1933 l’architetto di quell’edificio, Cass Gilbert, tornò da una visita a Roma con una recensione entusiasta, dichiarando ai giornalisti: «Mussolini sta portando avanti un progetto molto importante e ammirevole di restauro, ripulendo i bassifondi, demolendo vecchi edifici, costruendo nuove strade e senza in alcun modo compromettere la bellezza della città antica».


Su scala molto più ridotta, la visione di Trump per Washington deriva dalla stessa mentalità che sottende la sua fantasia genocida di una Gaza senza palestinesi, trasformata in una località turistica internazionale.

Trump è ugualmente determinato a «ripulire» le istituzioni culturali della capitale. A febbraio, si è nominato presidente del Kennedy Center, il cui nuovo consiglio ha rapidamente mosso passi per eliminare la programmazione «woke». A metà agosto, Trump ha annunciato che condurrà personalmente la cerimonia annuale dei premi, onorando, tra gli altri, l’attore di destra Sylvester Stallone, che ha definito Trump come «secondo George Washington».

Nella stessa settimana, l’Ufficio per la gestione e il bilancio (ora guidato dall’architetto di Project 2025 Russell Vought) ha annunciato una nuova revisione dello Smithsonian Institution, per epurare otto musei da «linguaggi divisivi o ideologicamente orientati» — come ricordare «quanto fosse terribile la schiavitù» — e sostituirli con mostre e programmi che «celebrino l’eccezionalismo americano». Poco dopo Trump ha annunciato su Truth Social di aver istruito il suo staff «a passare al setaccio i musei», suggerendo una prossima campagna di pressioni legali contro le istituzioni culturali simile a quella condotta contro college e università.


Il commissariamento di Washington parla del suo amore per i colpi di scena e le apparenze, per le vanterie e gli edifici, per gli spettacoli e le dimostrazioni di forza. Ma non possiamo ignorare i disegni più profondi che questi spettacoli esprimono. Nel mondo MAGA, «sicuro e bello» significa che gli imperativi ultranazionalisti e reazionari della guerra culturale saranno sostenuti da una crescente militarizzazione degli spazi civici, in preparazione a quella che un esperto di legge marziale definisce una «guerra domestica permanente».

Se questo suona allarmista, consideriamo la risoluzione avanzata dal deputato Andy Ogles (R-TN) per rimuovere il limite di 30 giorni alla federalizzazione della polizia di Washington, in modo da dare a Trump, come ha detto, «tutto il tempo e l’autorità di cui ha bisogno per schiacciare l’illegalità, restaurare l’ordine e riconquistare la nostra capitale una volta per tutte». Oppure ascoltiamo il congressista James Comer (R-KY), che ha detto a Newsmax ad agosto: «Il nostro esercito è stato in molti paesi del mondo negli ultimi due decenni, camminando per le strade, cercando di ridurre la criminalità. Ora dobbiamo concentrarci sulle grandi città americane, ed è quello che il presidente sta facendo».


A fine mese, dopo aver minacciato di abrogare l’Home Rule Act e rimuovere la sindaca di Washington Muriel Bowser dal suo incarico, Trump ha suggerito che presto potrebbe inviare truppe — la Guardia Nazionale o persino l’esercito — in altre città, ipotizzando: «Penso che Chicago sarà la prossima». Alcuni funzionari hanno detto al Washington Post che il Pentagono ha già elaborato piani per questo dispiegamento (già iniziato, ndr).

All’inizio di questo mese, il National Park Service ha annunciato che, in conformità con l’ordine esecutivo di Trump, reinstallerebbe la statua dell’eroe confederato Albert Pike, rimossa nel 2020. Cinque anni dopo quelle proteste — in cui le forze di polizia federali e militari attaccarono i manifestanti di Washington con gas lacrimogeni e proiettili di gomma, tutto su ordine di Trump — la nuova amministrazione sta ancora cercando di invertire il movimento sociale che portò a quella rivolta.

La capitale è un campo di battaglia chiave in questa campagna reazionaria. Sebbene al momento il commissariamento si manifesti principalmente come ciò che il giornalista del New Republic Matt Ford definisce una «messa in scena di autoritarismo» non vi è dubbio che, date le enormi risorse conferite all’ICE e alle agenzie federali di polizia, e la loro intensa politicizzazione partigiana, qualsiasi esplosione sociale simile a quella del BLM sarà affrontata con una repressione ancora più violenta della precedente.

Il commissariamento di Washington non è solo parte di un restyling autoritario; è una prova generale per la vera crisi che verrà.


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Alberto Toscano insegna alla Simon Fraser University. È autore di vari articoli e libri sull’operaismo, sulla filosofia francese e sulla critica al capitalismo razziale, di cui è uno dei punti di riferimento nel dibattito internazionale. Per DeriveApprodi ha pubblicato: Tardo fascismo. Le radici razziste delle destre al potere.

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