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Sulla posizione del concetto nell’opera di Pietro Fortuna


Pietro Fortuna


Sollecitato da una domanda circa gli «inizi» – gli inizi di una carriera artistica ma anche gli inizi dell’arte – Pietro Fortuna ha detto una volta che l’arte «è suscitata da poco più di nulla». In un’altra occasione ha ribadito che «le stesse cose di cui si serve il pittore, sono poco più di nulla». Non è understatement ma una tesi metafisica. Essa è la premessa da cui si deduce, more geometrico, l’opera di Pietro Fortuna. «Opera» è un termine chiave nella sua poetica. Una occorrenza per altro singolare, dal momento che il «fare» dell’artista è puramente pratico e non poietico/produttivo. Normalmente il termine «opera» designa nel lessico filosofico il fine trascendente dell’azione. Opere sono gli oggetti prodotti. Pratiche sono invece quelle azioni che hanno il loro fine nel loro stesso esercizio e di cui gli oggetti sono semmai «occasioni». L’«opera», in questo caso, è lo stesso operare. L’estetica contemporanea, giudicando il fare artistico alla luce della categoria di produzione, lo ha pertanto caratterizzato con il termine «inoperosità». Nell’interpretazione che andiamo a proporre, la scelta di Fortuna di mantenere il termine «opera» per gli oggetti della propria praxis si spiegherà sul fondamento del rapporto «analitico» che, secondo Fortuna, artista «concettuale», il concetto intrattiene con l’oggetto. La praxis artistica è insomma «concettuale», ma il concetto contiene come suo predicato reale l’esistenza dell’oggetto. Essa è perciò veramente «operosa», è una praxis realizzante. Il concetto che ha di mira questo tipo di artista concettuale è infatti l’oggetto stesso e non un suo segno o una sua notazione estrinseca.


Bisogna innanzi tutto chiedersi non solo cosa sia quel prope nihil evocato da Fortuna come causa, ma, soprattutto, come funzioni. Perché è esso ad assicurare unità alla sua ricerca. Che lo si apprezzi o meno, nessuno può contestare la coerenza della sua opera. L’intransigenza è poi un tratto indiscutibile tanto del lavoro quanto del carattere di Fortuna. Evento dopo evento, non vi sono cedimenti. I suoi «oggetti» ritornano sempre sfidando, grazie alla loro autistica chiusura in se stessi, l’indiscernibilità con l’ambiente che li ospita. Quegli oggetti, lo hanno notato tutti gli esegeti, ostentano una certezza che prescinde da ogni possibile dubbio. Non si lasciano interrogare, piuttosto interrogano e provocano il pensiero. Ma che cosa «non cede» in Fortuna? La sua intransigenza, cosa afferma? «Poco più di nulla» è la risposta dell’artista. «Poco più di nulla» è quello che esibiscono. «Poco più di nulla» è la loro differenza specifica, vale a dire ciò che fa di essi delle «opere» e non dei prodotti. Il nulla è presentato da Pietro Fortuna nella forma paradossale di un supplemento («poco più») capace di generare opere e di strutturare un’esistenza d’artista. Su tale «nulla» che funge da causa si deve però fare chiarezza.

Vi sono infatti due letture possibili. La prima è l’interpretazione mainstream, affonda le sue radici in un paradigma ermeneutico-esistenziale che ha allevato un’intera generazione di artisti e di filosofi (Fortuna appartiene a entrambe le schiere). Secondo questa prospettiva, il prope nihil è la negazione. La negazione è figlia del nulla, del nulla che noi siamo in quanto mortali. La negazione sarebbe l’essenza dell’animale linguistico homo. Essa costituirebbe a un tempo la sua dignità ontologica ed etica, nonché la sua dimensione storica e politica tutta tesa all’«emancipazione» (tramite negazione del dato). L’opera da che altro potrebbe allora essere generata se non dal lavoro e il lavoro che altro è se non negazione determinata? E come può esserci negazione se non supponendo come fondamento un essere che del nulla è la vigile sentinella? Ne risulta quel primato del simbolico così caro ai moderni: il linguaggio, che è un tessuto di differenze regolato dalla negazione, diventa l’orizzonte nel quale è incontrato ogni ente. Niente sfugge alla sua presa. L’opera d’arte, nella tradizione ermeneutico-esistenziale, diventa così il simbolo di questo primato del simbolico. Nei termini di Jacques Lacan, l’opera d-arte è «il significante del significante» (Lacan giunge a questa definizione commentando il proto–oggetto di ogni arte «concettuale»: il vaso, cioè il vuoto che è e che fa essere).


L’incontro del linguaggio con l’ente non è però pacifico, perché la cosa si dissolve nel momento in cui è nominata per restare solo come mancanza o come traccia di un impossibile (la «scrittura del disastro» di Blanchot). Del reale non ne è più nulla. Esso, per i moderni, esala come un fumo e si fa termine di una infinita nostalgia. Essere un artista «concettuale» in questo contesto teorico ha dunque un esito ben determinato. Significa a) riduzione del reale al concetto b) produzione di un oggetto corrispondente al concetto c) ostensione nell’oggetto prodotto di ciò che in esso per defininione manca, vale a dire il reale. La posizione epistemologica dell’artista «concettuale» mainstream è dunque rigorosamente kantiana. Poco si comprenderebbe infatti della nostra modernità artistica e filosofica, prescindendo dalla liquidazione dell’argomento ontologico anselmiano: l’esistenza reale, scrive Kant, non è un predicato del concetto. I concetti, da soli, sono vuoti. Li possiamo analizzare finché vogliamo, ma non ne trarremo mai fuori un briciolo di realtà. Al fondo del concetto non c’è, come poteva credere un ingenuo filosofo prekantiano, Dio, cioè il massimamente reale. Al fondo del concetto c’è semmai solo il possibile, cioè il massimamente astratto, il non-reale, ciò che dell’oggetto ha tutto tranne quella cosa semplicissima che è l’esistenza determinata, qui e ora. Il concetto arriva alle soglie del possibile e lascia il reale al di là del guado come una pura X capace di generare solo i sogni dei visionari. Per una parte rilevante dell’estetica contemporanea, l’arte è diventata così la mappatura dei luoghi ove il reale fa segno di sé come assente. Per indicare questi luoghi il Novecento ha prodotto dei concetti seducenti che sono diventati parte integrante dell’idioletto della contemporanea critica d’arte: l’«immagine dialettica» di Walter Benjamin o la «traccia» di Jacques Derrida ne sono mirabili esempi. Ad accomunarli è il fuoco che instancabilmente brucia ogni «cattiva» immediatezza. Primato del simbolico significa infatti primato della mediazione. Se l’opera d’arte è «il significante del significante» è perché ratifica la chiusura claustrofobica dell’uomo, sentinella del nulla, nello spazio di una mediazione infinita (il linguaggio). Questa estetica bene si sposa poi con una ripresa della teologia apofatica e con uno gnosticismo diffuso: quale altro Dio può essere onorato nelle immagini dell’arte se non il Dio inaccessibile per via della sua trascendenza?




Ma vi è anche un altro modo di intendere quel «poco più di nulla» che, secondo Fortuna, causa. Si deve però rovesciare l’argomentazione heideggeriana e sperimentarsi su di una «via» che i moderni hanno liquidato come «ingenua». Per Heidegger, è noto, occorreva agganciare la negazione al nulla, farla generare da esso. Heidegger è veramente il principe dei moderni. Egli ha dato a un’epoca, la nostra, la sua precisa autocoscienza concettuale. Per questo, forse, è così universalmente inviso. Perché costringe l’epoca a una presa di coscienza che disturba. Non è facile accettare di avere nel nulla la propria causa. La posizione opposta a quella heideggeriana è quella che fa scaturire il nulla dalla negazione. La si potrebbe definire bergsoniana, perché è nel filosofo francese che la troviamo enunciata con la maggiore precisione. Della negazione il nulla è un figlio bastardo. Pretendere di negare tutto è, infatti, un non senso. La negazione è sempre parziale. Mettere il segno meno davanti al tutto non produce il niente perché da quel niente si deve escludere il suo presupposto, ossia l’atto che lo nega. Qualcosa, un residuo d’essere, resta sempre fuori e insiste nella sua presenza, intangibile dalla negazione, estraneo al possibile, incondizionatamente «certo» come la sostanza spinoziana o il cogito cartesiano... Per questa seconda via, la negazione è piuttosto sostituzione. Qualcosa al posto di qualcos’altro. Oppure è sottrazione. Qualcosa diminuito di una sua parte. Una siffatta negazione si muove tutta nella pienezza dell’essere che, come tale, resta estraneo a ogni mutamento ospitandoli tutti al suo interno. Anzi, esso coincide di fatto con la molteplicità di tali mutamenti. La ragione della polemica bergsoniana con Einstein consisteva proprio nella rivendicazione da parte del filosofo francese di una durata che resta unica proprio differenziandosi nella molteplicità di durate relative agli osservatori ipotetici: Uno che si fa Uno attraverso i Molti, Uno che è la sua molteplicità «relativa».

Bergson non poteva perciò che apparire come un metafisico incallito agli occhi dei moderni proprio perché, andando contro lo spirito del tempo, assegnava all’universo una sola durata e, conseguentemente, siccome durata = memoria = coscienza, le attribuiva una immensa coscienza-memoria virtuale.

Che cosa è allora l’immagine in questa prospettiva, che altrove ho chiamato «minore»? Nient’altro che del reale, ottenuto per via di una «negazione» che dobbiamo inevitabilmente virgolettare visto che non presuppone il nulla a suo fondamento. Non è un punto di vista esterno sulla cosa perché non c’è più «fuori» alcuno. L’immanenza è assoluta. È la cosa stessa cui si è aggiunta la sola cosa che si può aggiungere al tutto sempre in atto: una sottrazione – negazione, un meno. Il meno è il «poco di più di nulla». Bergson spiegava così la genesi dell’immagine cosciente. Ne faceva l’effetto di una opacizzazione del reale che di diritto è una fosforescenza assoluta, un tutto presente in tutto, mentre di fatto è qualcosa di determinato, un «oggetto» per un «soggetto» altrettanto determinato. Torniamo allora alla frase con cui Fortuna spiega inizio dell’arte e di una esistenza d’artista, la sua. Vi ritroveremo la stessa genesi, lo stesso racconto fatale. «Forse ho detto troppo poco, scrive, ma ogni inizio è sempre nella misura del poco. Più avanti aggiungerò, con Plotino, che un’opera aderisce a qualità semplici, sviluppando una vita che si dimostra improduttiva se la si porta oltre i suoi confini. Le stesse cose di cui si serve il pittore sono poco più di nulla, quell’astrazione dell’oggetto che si produce nel suo sguardo, non è di per sé il più dell’estetica, ma qualcosa di meno dell’oggetto stesso ed è con questi materiali diminuiti che deve fare i conti» (corsivi miei).

Stando a queste premesse, muta radicalmente il senso dell’operazione «concettuale» che caratterizza l’arte contemporanea. Non si tratta più di ridurre il reale a concetto per evidenziare poi nell’oggetto così prodotto le lacune che testimoniano l’assenza di principio del reale. L’opera d’arte cessa di essere quello che è stato per la maggioranza dei moderni: nostalgia, desiderio, mancanza, tensione escatologica, apofatismo e, in ultima analisi, meditatio mortis. La finitezza bevuta fino alla feccia smette di essere il suo orizzonte e con essa muta lo statuto dell’artista che non è più la replica «mondana» dello stato di eccezione in cui si trova il Dio trascendente. La posizione epistemologica dell’artista concettuale torna a essere quella prekantiana. L’argomento ontologico è riabilitato. Gli oggetti prodotti dall’artista sono concetti che implicano analiticamente l’esistenza reale. Non è il reale che si fa concetto esalando così il suo ultimo respiro, ma è il concetto che realizza l’oggetto. Fortuna ha dunque ragione a resistere alla vague sulla inoperosità e a ostinarsi a battezzare «opere» le sue libere creazioni. I suoi sono infatti concetti che individuano, sono operazioni costitutive di singolarità reali. Gli oggetti di Fortuna sono processi di individuazione in atto. Non esprimono un concetto trascendente, non fanno «segno». Sono piuttosto la soluzione locale di un problema di cui il concetto è l’enunciato, ma il problema, cioè il concetto, non esiste altrove che nel processo della sua soluzione, vale a dire nella praxis determinata dell’artista, dunque nell’«opera».

In conclusione bisognerebbe soffermarsi sulla inadeguatezza del termine «concetto» . Esso infatti non rende il senso dell’operazione «concettuale» di Pietro Fortuna. Quali che siano le precauzioni con cui lo trattiamo, «concetto» rimanda sempre a una «presa» sull’oggetto. Là ci sarebbero le cose, nella loro datità, qua i concetti con i quali «noi, i soggetti», vogliamo comprenderle. Ecco tutto. Una parte rilevante della logica moderna ha cercato di risolvere questo dualismo. Basti ricordare l’enorme impresa tentata da Hegel con la sua Scienza della Logica. Tuttavia la considerazione formale del concetto resta moneta corrente, soprattutto nell’uso disinvolto che si fa del termine nella critica d’arte. In realtà il concetto del concettuale Fortuna è tutt’altro e proprio grazie a questa sua irriducibilità al concetto astratto esso è più che mai «concetto». È tutt’altro perché funziona come una intuizione, la quale, a causa della sua immediatezza, è normalmente considerata come l’opposto del concetto. Ed è più che mai concetto perché l’intuizione è intellettuale. Da questo punto di vista, Fortuna è sfrenatamente «romantico»: l’opera funziona in lui come obiettivazione di una intuizione intellettuale.

Qualificandola come intellettuale, si intende dire che l’intuizione, lungi dall’essere il coglimento immediato di una cosa data là fuori, è l’atto stesso in forza del quale la cosa viene a costituirsi come quella cosa determinata che è (come «oggetto»). Va ribadito con forza: l’intuizione è un’attività, un processo, una durata. Non è però lavoro. L’intelletto intuitivo non è un intelletto fabbricatore, anche se lo sembra. Questo presupporrebbe infatti una realtà data, trascendente, sulla quale intervenire. Esso è piuttosto un intelletto «pratico» che si risolve nel suo stesso esercizio, un esercizio definito, appunto, dalla «intuizione». Questo intelletto non ha niente fuori di sé perché è tutta la realtà. I teologi speculativi lo metaforizzavano nella forma di uno sguardo che, avendo luogo, realizza simultaneamente l’oggetto che guarda e il soggetto empirico che vede: sublime coincidenza del vedere, del visto e del vedente che, secondo loro, esprimeva nel migliore modo possibile la «sovraessenzialità» di Dio. L’intuizione intellettuale, così bistratta dai moderni, che la ritengono un inutile ferrovecchio del pensiero, è perciò l’affermazione della perfetta reversibilità del concetto e della cosa. La cosa non è nient’altro che il suo concetto e il concetto non è nient’altro che la cosa. Il nihil aliud è il processo di individuazione, vale a dire l’intuizione come attività creatrice. A definire la posizione del concetto nell’opera di Pietro Fortuna è la sua immediata reversibilità nel reale.

Se allora, guardando le sue opere, si ha la sensazione che Fortuna sia un filosofo speculativo, ciò non si deve alla raffinata cultura dell’artista. Le sue opere non illustrano un pensiero, né richiedono un pensiero per essere comprese. Questo è semmai il destino dei prodotti di un’arte meramente concettuale. Dove ci sono simboli devono infatti esserci interpretazioni. Dove c’è del significante ci deve essere un altro significante che ne enunci il senso, e così via all’infinito. Le opere di Fortuna sono invece estranee a siffatta catena. Per questo il «mondo dell’arte» assume nei loro confronti un atteggiamento ambivalente. Se ne riconosce l’indiscutibile «autorità» ne segnala anche un’altrettanta indiscutibile estraneità. Le opere di Fortuna, invece, non illustrano né richiedono pensiero, ma sono pensiero in atto (intuzione intellettuale). E il pensiero in atto, come sostengono i filosofi speculativi, non fa segno alla cosa ma è immediatamente la cosa.


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