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Scene d’amore a Zabriskie Point

Cosmovisioni, cosmopedagogie, cosmopolitiche



Da un po’ di tempo i media parlano di «rinascimento psichedelico» per indicare il rinnovato interesse per un mondo che sembrava ormai tramontato. Certamente siamo lontani dalle fantasie della «Summer of Love» e dal profetismo ingenuo di un Timothy Leary. Il dibattito è quanto mai aperto: c’è chi ritiene che il rinascimento psichedelico possa rendere più sana e armoniosa la nostra società e chi, al contrario, teme che possa essere fagocitato dall’attuale sistema di produzione. Federico Battistutta nel suo intervento (una relazione presentata agli «Stati Generale della Psichedelia in Italia 2020», svolti nel dicembre scorso in streaming) intende collocare il rinascimento psichedelico dentro la prospettiva critica di una nuova cosmovisione e una nuova cosmopolitica in grado di reinventare e rinnovare la vita.


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Noi pensiamo molto meno di quanto sappiamo, sappiamo molto meno di quanto amiamo, amiamo molto meno di quanto si possa amare e perciò siamo molto meno di ciò che siamo!

Ronald D. Laing



1. Comincio con una citazione: «Il sonno della ragione genera mostri». È il titolo di un’incisione di Francisco Goya[1], spesso utilizzata per denunciare i pericoli dell’oscurantismo, delle superstizioni e dell’irrazionalismo. Sin qui non si può che essere d’accordo: l’acquisizione e l’uso della ragione è un passaggio significativo nella storia dell’evoluzione umana. Qualche problema sorge se ci si interroga sul modo di utilizzare questa ragione. Mi domando: l’unica procedura per adoperarla è quella largamente conosciuta, vale a dire scomporre e analizzare tutto il vivente per classificarlo e ridurlo a mero utilizzabile, mettendo tutto a profitto, la vita animale (umana e non), il mondo vegetale e minerale, interi ecosistemi, fino a mercificare l’intero pianeta e colonizzare anche lo spazio con l’installazione di ambienti satellitari? Questo è quanto fin qui accaduto e che sta ancora accadendo.

Oppure esiste un altro accesso alla ragione e al suo uso, un’altra razionalità, orientata al vivere bene, in grado non di soggiogare i viventi, ma di ricongiungerci con la natura, per rinnovare e reinventare la vita nella scoperta di quanto di incalcolabile e misterioso vi è racchiuso in essa? Aggiungendo che non solo non esiste una sola forma di razionalità, ma che la ragione, a sua volta, non esprime la totalità delle possibilità umane di pensare e di esprimersi.


2. Secondo passaggio: se ci guardiamo intorno cosa possiamo osservare se non un generale orizzonte di crisi? «Crisi» è parola-chiave che esprime meglio i tempi in cui viviamo. Si parla infatti di crisi economica, finanziaria, energetica, ecologica, demografica, politica, spirituale e via di seguito, finanche (con il Covid in corso) di crisi sanitaria. Detto ciò, dovrebbe essere ormai chiaro che non usciremo da queste crisi proponendo rimedi settoriali e parziali, che finiscono nel migliore delle ipotesi a configurarsi come manutenzioni provvisorie per la situazione esistente. Al contrario è importante riconoscere la circolarità, la dimensione profonda, sistemica di questa crisi. E uno degli ingredienti centrali di questa crisi riguarda proprio l’utilizzo della ragione.

Adorno e Horkheimer chiamavano questo uso distorto «ragione strumentale», più recentemente Gregory Bateson l’ha definito «finalità cosciente»: attraverso di essa vengono selezionate dalla mente alcune sequenze che non possiedono la struttura sistemica globale della vita. Con le parole di Bateson: «Essa ci fornisce una scorciatoia che ci permette di giungere presto a ciò che vogliamo; non di agire con la massima saggezza per vivere, ma di seguire il più breve cammino logico o causale per ottenere ciò che si desidera». Non solo, ma con il massiccio investimento di capitali nel campo tecnico-scientifico tale procedura diviene pericolosa: «La finalità cosciente ha ora il potere di turbare gli equilibri del corpo, della società e del mondo biologico intorno a noi»[2]. A questo punto potremmo ribaltare il detto di Goya, affermando che l’insonnia della ragione genera mostri e da qui ripartire.


3. Il tempo ha dato ragione ad Adorno, Horkheimer e Bateson: l’insonnia della ragione ha partorito alla fine l’antropocene. «Antropocene» è un termine di nuovo conio, nato in un contesto scientifico, divenuto in breve una parola di uso comune per indicare l’epoca che stiamo vivendo, in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme dei suoi elementi fisici, chimici e biologici, subisce sensibili alterazioni su scala globale ad opera dell’intervento umano.

L’antropocene altro non è che il prodotto della visione del mondo dominante. Detto ciò non si può non concordare con quegli autori che nutrono riserve sull’appropriatezza di questo termine: è proprio la specie umana in quanto tale – l’Anthropos – a essere responsabile di tutto questo? Tanto per fare un esempio: l’impronta ecologica di un cittadino statunitense è uguale a quella prodotta da un aborigeno che vive nel bush australiano? Ancora, limitandoci questa volta agli USA: l’impronta ecologica di un homeless è la medesima di quella prodotta dalla upper class? Sono domande retoriche, lo so, ma è bene ogni tanto rievocarle. Per questo c’è chi, ritenendo ambiguo il termine, ne ha proposto un altro, che consente di chiamare – come si suol dire – le cose con il loro nome: Capitalocene. La situazione in cui ci troviamo non è il risultato dell’azione umana in astratto, ma la conseguenza di secoli di sfruttamento in senso capitalistico del mondo. Con il termine capitalocene si vuole integrare i processi geo-biologici con la storia socio-economica all’interno di un più ampio campo relazionale, dando vita a un’ecologia-mondo che intreccia potere, capitale e natura.[3]

Che lo chiamiamo antropocene o capitalocene non è poi così centrale, quello che invece conta è la consapevolezza della necessità di una radicale inversione di rotta rispetto ha ciò che ha prodotto l’insonnia della ragione: congedarsi dal raziocentrismo, dall’antropocentrismo, dall’etnocentrismo razzista e sessista che hanno impoverito il mondo, per tessere le trame di una rete collaborativa ricca di relazioni e assemblaggi, per un progetto in grado di includere non solo gli umani ma tutto il vivente[4]. In breve: abbiamo un vitale bisogno di nuove cosmovisioni per un mondo a venire[5].


4. Lo sappiamo tutti: la percezione della realtà è un complesso processo di costruzione, risultante dall’interazione tra un sé senziente e uno spazio esterno. Il mondo occidentale ne ha elaborato uno che con le dinamiche di globalizzazione in progress, si sta imponendo in tutto il pianeta. Questa cosmovisione ruota, come si è osservato, intorno alla nozione di «ragione strumentale» o di «finalità cosciente», producendo un universo organizzato gerarchicamente, ponendo al vertice l’essere umano il quale ha il diritto – come sta scritto nella Bibbia (Gn 1,28) – di soggiogare e dominare ogni forma vivente. Ma, come si è già osservato, è inesatto parlare di un essere umano astratto dal momento che una gerarchia opera anche all’interno della specie umana, con una serie di discriminazioni agenti a livello sociale, etnico e di genere. Come dire: siamo tutti umani, d’accordo, ma alcuni lo sono un po’ più degli altri…

Ora, questa cosmovisione è sì quella imperante, ma non è l’unica che la specie umana ha elaborato nella sua storia. Ve ne sono state e ve ne sono delle altre con fisionomie anche molto differenti. In particolare è interessante volgere l’attenzione proprio a quelle visioni prive di orizzonti gerarchici e di volontà di dominio verso ogni forma di vita e ogni angolo del pianeta. Ci sono, ad esempio, testimonianze e studi antropologici riguardanti le popolazioni amerinde secondo le quali il mondo è costituito da un unico grande piano di immanenza al cui interno umani e animali, ma anche le piante, il cosiddetto mondo inanimato e i fenomeni climatici, così come gli antenati e gli spiriti, partecipano di un’unica soggettività comune. Tutti/e detengono lo statuto di persona, nessuno sta sopra o al di fuori, c‘è solo la vita come esperienza unica, che non necessita di un al di là teologico, di un Dio trascendente, né di un Io trascendentale[6].

E il territorio in cui vivono queste popolazioni, la foresta amazzonica, viene definito «foresta vivente» perché è il luogo che ospita tutte le tipologie di esseri viventi, sia umani sia non umani, reciprocamente costitutivi e interdipendenti. È bene ricordare che parliamo di uomini e di donne che hanno elaborato cosmologie molto complesse, delle quali solo da poco cominciamo a sondarne la portata e lo spessore, il cui universo multiforme e multistrato si rivela come un campo denso di forze nascoste e in costante trasformazione, a cui si può accedere attraverso conoscenze, anche molto raffinate, modificando il proprio stato di coscienza, ricorrendo in questo caso all’ausilio di operatori non umani, provenienti da altri regni della vita, come quello vegetale[7].


5. Nel ’17 Max Weber in una celebre conferenza si poneva la seguente domanda: «Ha il “progresso” in quanto tale un senso riconoscibile che vada al di là del piano tecnico?»[8]. Inutile osservare come questa domanda mantenga oltre modo oggi il suo valore. La riformulo così: può la civiltà occidentale, giunta a una soglia critica del suo progresso, cercare altre strade ed elaborare cosmovisioni che ridimensionino l’esercizio del calcolo razionale come strumento per dominare il mondo? La mia risposta è affermativa, il mondo occidentale possiede al suo interno anche quelle forze utili a reagire e a invertire la direzione del processo. Diverse sono le fonti a cui attingere e, in questo quadro, un ruolo significativo lo può svolgere quella che viene chiamata cultura psichedelica, con tutta la sua storia.

Stiamo parlando di un campo di studi e di ricerche giovane rispetto alle esperienze secolari, se non millenarie, di altre civiltà, ma che si può avvalere del sapere e degli strumenti che la scienza occidentale può mettere a disposizione, coniugandole con i saperi provenienti da altre civiltà[9]. Parliamo di un campo di esperienze che nella sua non lunga storia ha incontrato ostacoli, proibizioni e criminalizzazioni; certo, sono stati compiuti anche errori in passato, come può accadere quando si muovono i primi passi, ma ciò che interessa oggi è la strada che abbiamo davanti. Lo ripeto: il movimento psichedelico ha le potenzialità e le risorse per contribuire a costruire una nuova cosmovisione. È proprio verso questa direzione che dovrebbe orientarsi il «rinascimento psichedelico» attualmente in corso.

C’è innanzitutto la necessità di familiarizzare il mondo occidentale con i «mille piani» di stati di coscienza a cui è possibile transitare, al di là della realtà consensuale in cui siamo immersi, contrassegnata dall’imperativo categorico e compulsivo di produrre e consumare. Si tratta pertanto di collocare questo discorso all’interno di un più ampio percorso educativo integrale riguardante l’essere umano, concernente processi formativi che si sviluppano lungo l’arco dell’intera esistenza (lifelong learning)[10].

Parliamo di cosmopedagogia, di un’educazione corrispondente all’acquisizione di una nuova cosmovisione. Parliamo di stati di coscienza a cui tutti possono accedere o ai quali magari molti hanno già avuto accesso in maniera spontanea e inaspettata e che hanno costituito momenti festivi nella propria vita, indipendentemente da un credo religioso o altro. C’è chi a questo proposito ha parlato di «piccola mistica», vissuta da soggetti ai margini degli ambienti confessionali o anche agnostici o indifferenti in materia religiosa, ma i cui resoconti possono rivelarsi per nulla inferiori, quanto a intensità e forza disvelatrice, a quella dei grandi mistici[11].

Il punto d’avvio di questa cosmopedagogia a venire è qualcosa alla portata di tutti: la riscoperta di quello che Albert Hofmann chiamava il «puro contemplare». Questo puro contemplare è l’esatto contrario della ragione strumentale o della finalità cosciente di cui si è detto, è quell’andare incontro al mondo naturale senz’altra finalità se non il piacere di osservare lo spettacolo gratuito della natura, per raccogliersi all’interno del mondo e del suo dispiegarsi, nell’eterno accadere del momento presente. Il puro contemplare vuol dire reincantarsi del mondo[12]. Con le parole di Hofmann: «Là ove le mani dell’uomo non l’abbiano devastata, la natura ci offre tuttora la sua magnificenza e i suoi tesori», per accompagnarci a sospendere una buona volta la distinzione «tra soggetto e oggetto, tra osservatore e osservato, fra me e ciò che mi sta di fronte, quando divengo tutt’uno con il mondo e il suo fondamento»[13].

Successivamente sarà possibile accompagnare a transiti verso stati di coscienza non ordinari ricorrendo a risorse endogene (come, ad esempio, le pratiche meditative e contemplative trasmesse da molte tradizioni spirituali), così come a risorse esogene, siano esse naturali o chimiche[14].


6. Questo discorso su una nuova cosmovisione ha ovviamente anche un versante politico. Tale aspetto, se vogliamo, ha delle evidenze immediate: si sa, ad esempio, come la ricerca psichedelica abbia incontrato e incontri ancora molti ostacoli a livello legislativo, impedendo lo sviluppo di ricerche scientifiche in materia[15]. Tutto ciò è un problema politico, schiettamente politico. Riporto le limpide parole con cui R. Laing commentava tali divieti: «Trasformazioni nell’ambiente chimico del nostro cervello mutano la nostra mente. Si dovrebbe permettere che la gente abbia libero accesso ai comandi chimici della propria mente? Oppure questi pulsanti chimici dovrebbero essere sotto gli stessi comandi governativi in tutto il mondo? Questa è una delle pochissime questioni in cui sembra che tutti i governi vedano più o meno con gli stessi occhi»[16].

Ma ritenere che il lato politico del problema si esaurisca nella possibilità di piegare la volontà del legislatore in favore di più ampi spazi di ricerca immiserisce l’intero discorso, sarebbe una sorta di rivendicazione corporativa. Qui invece la politica diventa, deve diventare cosmopolitica, dev’essere espressione attiva della nuova cosmovisione, sovvertendo le consuetudini e gli assetti interni dello stesso agire politico. Il centro non è l’amministrazione della polis, ma la nostra relazione con il cosmo e le su molteplici interazioni.

Se la modificazione degli stati di coscienza, da quelli più semplici a quelli più impegnativi, ci mettono in presenza di un senso profondo di interconnessione e coappartenenza con il vivente, sarebbe misera cosa custodire avidamente una simile esperienza, confinandola nel proprio spazio interiore, guardando con diffidenza e sospetto ciò che si muove nel resto del mondo. Al contrario queste esperienze possono costituire l’apertura a una diversa rete di relazioni fra sé, la propria e le altre specie, l’ecosistema e il pianeta in cui viviamo, sentendoci attivi e partecipi di un grande organismo vivente, mettendo in campo una diversa sensibilità e un differente agire cosmopolitico. Così davvero potremo reincantare e reinventare la vita, così che la politica sia espressione di un amore per il mondo.

Faccio un passo indietro. Negli anni Sessanta e Settanta un po’ dappertutto (in particolare nel cosiddetto primo mondo) si è manifestata una composita e multicolore mobilitazione politica e sociale, soprattutto giovanile, che reagendo a una società improntata al produttivismo e al consumismo sognava una diversa qualità della vita e dei rapporti. Era il «movimento» (termine lapidario: di comprensione immediata, epidermica e intuitiva per chi era ad esso interno, ma il cui significato diveniva ostico per chi stava fuori). Questo movimento, lo sappiamo, è stato anche attraversato dalla psichedelia. Ed era abitato al suo interno da molte anime: c’era chi propugnava il primato di una rivoluzione interiore, come unica via per generare il cambiamento, mentre tutto il resto era maya, illusione; e c’era chi propendeva per una rivoluzione esteriore, in grado di trasformare radicalmente l’intera struttura sociale a partire dalle dinamiche economiche. Alcuni, pochi per la verità, ritenevano necessarie entrambe. Su questo piano del confronto ci fu una frattura. Negli USA accadde prima, in Italia si verificò all’incirca nella metà degli anni Settanta. Fu una spaccatura dolorosa che indebolì tutti e contribuì alla sconfitta di questo movimento. Di tali errori dobbiamo farne tesoro.

La domanda che s’impone a questo punto è: cosa può permettere di coniugare questi due piani, rispettando entrambi, il dentro e il fuori, in modo organico e non con astratte sintesi dialettiche? L’elemento che li può unire è uno solo, è quello che attraversa entrambi, un elemento per lo più sottovalutato nella pratica politica o, quando fatto, adoperato ambiguamente. Hofmann nel suo elogio del puro contemplare ha parlato di una condizione di amore infinito, come molti altri dinanzi a queste esperienze (v. anche la citazione iniziale di Laing). È questa esperienza transpersonale che ha la forza di unire ciò che appare separato. È infatti nella sfera intima della vita che emerge l’amore, il quale contribuisce a mettere insieme le cose, a uscire dai confini della propria pelle, a dare origine a forme di vita, al prendersi cura, a costruire pratiche di solidarietà e di convivenza. In questo senso l’amore può diventare un concetto politico unificante[17].


7. Concludo con una suggestione. Riguarda un film uscito non a caso nel 1970. Si tratta di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni. Il film all’epoca fu un flop commerciale, ma in seguito venne rivalutato come un cult-movie sugli anni della ribellione giovanile. I protagonisti della storia sono due giovani, Mark e Daria. In estrema sintesi, lei rappresenta la dimensione interiore, contemplativa, lui invece è l’attivista politico. Il film termina drammaticamente, così come drammaticamente si è concluso quel ciclo di proteste e di lotte, ma il cuore del film si svolge a Zabriskie Point, nel paesaggio lunare della Valle della Morte, in Nevada. Qui i due, raccolti nella solitudine del luogo, a un certo punto si baciano, si abbracciano e fanno l'amore. E mentre si abbracciano e rotolano sulla sabbia, quello spazio deserto di colpo si anima: una dopo l'altra, altre coppie si materializzano, divengono moltitudine e anche loro fanno l'amore, disseminate a perdita d'occhio lungo l’intera valle. Non dimentichiamolo: là, a Zabriskie Point è accaduto l’imprevedibile, la dimensione contemplativa e quella attiva per una volta si sono incontrate, si sono amate, son diventate moltitudine.



Note [1] «Il sonno della ragione genera mostri» (El sueño de la razón produce monstruos) è un'acquaforte e acquatinta realizzata nel 1797 da Goya e facente parte di una serie di ottanta incisioni chiamata Los caprichos, pubblicata nel 1799, in cui vengono ritratti vizi e miserie umane in forma allegorica e satirica. [2] Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1976, p. 448. [3] Cfr. Jason W. Moore, Antropocene o Capitalocene?, Verona, Ombre Corte, 2017. [4] A questo riguardo un ricco serbatoio di suggestioni è costituito dal saggio di Donna Haraway, Chthulucene, Roma, Nero, 2019. [5] Esiste un mondo a venire? È il titolo di un saggio di Deborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro (Milano, Nottetempo, 2017), in cui, dopo aver ampiamente mostrato il punto definitivamente critico in cui la Terra e i suoi abitanti si trovano, perlustrano i percorsi per rifondare un futuro «altro» che riguardi l’intera catena delle esistenze che compongono il pianeta. Anche il presente scritto parte dalla medesima radicale domanda: esiste un mondo a venire? [6] Cfr. Eduardo Viveiros de Castro, Prospettivismo cosmologico in Amazzonia e altrove, Macerata, Quodlibet, 2019. [7] Cfr. Davi Kopenawa, Bruce Albert, La caduta del cielo. Parole di uno sciamano yanomani, Milano, Nottetempo, 2018. È il resoconto quanto mai articolato (oltre mille pagine!) della vita e del pensiero cosmoecologico di uno sciamano yanomani. [8] Max Weber, La scienza come professione. La politica come professione, Torino, Einaudi, 2004. [9] Come dirà ad esempio S. Grof a proposito della terapia psichedelica: «Sebbene questo trattamento sia una diretta conseguenza della moderna ricerca farmacologica e clinica, esso ha strette corrispondenze in varie culture non occidentali contemporanee e le sue radici affondano nella preistoria e nei riti sciamanici e nelle cerimonie di guarigione di molte civiltà antiche». Stanislav Grof, Joan Halifax, L’incontro con la morte, Milano, SIAD, 1978, p. 24. [10] L’importanza di un’educazione integrale della persona è presente in Georges Lapassade e Claudio Naranjo, figure di rilievo negli studi sugli stati di coscienza. [11] Cfr. Michel Hulin, La mistica selvaggia, Milano, IPOC, 2012. [12] Laddove Weber nella conferenza citata parlava di «disincantamento del mondo» con il fine di «dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale» (op. cit.). [13] Albert Hofmann, Elogio del puro contemplare, «Altrove», 14/2008, pp. 26-33. Nel lungo scambio epistolare intercorso con Ernst Junger così riferirerà Hofmann all’amico: «Potrei riassumere le percezioni, le esperienze e le conseguenti conoscenze che mi sono state riservate nella mia lunga vita con questa formula che da un po’ si è imposta alla mia mente: Solo l’amore infinito, la gioia infinita e la fiducia infinita si addicono al miracolo della creazione». Ernst Junger, Albert Hofmann, LSD. Carteggio 1947-1997, Macerata, Giometti & Antonello, 2017, p. 134. [14] Sul ruolo della chimica e delle scienze in generale cito ancora Hofmann: «Il significato delle scienze naturali nell’evoluzione della società umana non consiste in primo luogo che esse forniscono delle basi per lo sviluppo delle moderne tecnologie e attività industriali, che hanno cambiato radicalmente la nostra vita e il nostro pianeta, ma nel fatto che sono in grado di aprire gli occhi alle persone sul miracolo della creazione e sull’unità di tutte le forme di vita su questa terra». Albert Hofmann, I sogni della materia, Viterbo, Stampa alternativa, 2017, p. 40. Ma, confidandosi con Junger, così scriverà sconsolato del suo lavoro alla Sandoz: «Nella nostra azienda, come d’altronde in tutta la grande industria farmaceutica, il puro profitto ha preso il sopravvento in modo spaventoso, perciò non guardo alla pensione ormai prossima con grande dispiacere». Ernst Junger, Albert Hofmann, LSD. Carteggio 1947-1997, cit., p. 83. [15] Mi riferisco a progetti di ricerca come quelli condotti allo Spring Grove State Hospital prima e al Maryland Psychiatric Research Center dopo, tra gli anni ’60 e ’70, con i malati terminali di cancro, i quali hanno preso parte a sessioni psichedeliche al fine di umanizzare l’esperienza della morte, per dare dignità a questo passaggio, non riducendolo a mero disastro biologico. Su questo cfr. Stanislav Grof, Joan Halifax, L’incontro con la morte, cit. e più recentemente Richard Yensen, Donna A. Dryer, «Thirty Years of Psychedelic Research: The Spring Grove Experiment and Its Sequels», in Yearbook of the European College for the Study of Consciousness (ECBS) 1993-1994, Berlin, Verlag für Wissenschaft und Bildung, 1995, pp. 73-101. [16] Ronald D. Laing, I fatti della vita, Torino, Einaudi, 1978, p. 79. [17] Sull’amore come nozione politica di potenza produttiva di soggettività e di comunità cfr. Michael Hardt, Antonio Negri, Comune, Milano, Rizzoli, 2010. Cito, ad esempio (qui gli autori si stanno riferendo al pensiero di Spinoza): «L’amore è una produzione del comune che mira costantemente in alto, che cerca di creare di più con sempre più potenza, fino al punto di incontrare l’amore di Dio, che è amore per la natura nella sua interezza».

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