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«Razzializzazioni umanitarie». Note postcoloniali sul governo delle migrazioni






Mettendo in dialogo gli studi critici sulla razza con il più recente dibattito sul «governo delle migrazioni», il testo propone una riflessione su umanitarismo e ragione umanitaria che richiama la genealogia della colonialità.


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Quelle che seguono sono alcune riflessioni, provvisorie e incomplete, su quelle che propongo di chiamare razzializzazioni umanitarie. Con questo concetto intendo sviluppare alcune proposte teoriche sul rapporto, finora rimasto poco analizzato, tra ragione umanitaria e razza, intesa qui come dispositivo moderno di produzione, gestione e decomposizione gerarchica dell’umano e della sua messa a valore e morte [1]. Nonostante in questi ultimi anni l’umanitarismo, inteso come dispositivo di governo delle popolazioni migranti, sia stato al centro di un ampio dibattito, sia accademico che politico, poche sono state le riflessioni che si sono concentrate sul rapporto che intercorre tra quest’ultimo e i processi di razzializzazione, del lavoro e dello spazio sociale in generale. Per processi di razzializzazione, è bene ribadirlo subito, qui non si intende tanto quei fenomeni sociali che a vario modo possono essere classificati come atti discriminatori di una parte della popolazione – bianca ed europea – nei confronti delle popolazioni migranti e/o della diaspora italiana ed europea. Guardando alla razza come dispositivo che si articola all’intreccio dello sviluppo del a) capitalismo, b) colonialismo, e dei c) regimi liberal-democratici [2], i processi di razzializzazione sono qui intesi come «fatti sociali totali» che comprendono sì atti soggettivi (razzismo popolare) ma che vanno oltre; strutturano cioè, e quindi al di là delle intenzioni puramente soggettive dei soggetti, il funzionamento della democrazia (neo)liberale, andando a differenziare gerarchicamente lo spazio della cittadinanza, l’accesso alle risorse – sociali, economiche e simboliche – e lo sfruttamento e il dominio dei gruppi sociali in base all’intersezione della linea del colore, del genere e della classe.

Governo umanitario

In linea generale, il governo umanitario viene qui concepito come parte di un assemblaggio più complesso di governo razziale delle popolazioni migranti provenienti dal sud del mondo e dalle ex colonie europee, diffusamente definito come governo «securitario-umanitario», sviluppatosi a partire dagli anni Novanta ed emerso in maniera compiuta a cavallo tra le cosiddette primavere arabe del 2011 e la crisi dei rifugiati del 2015 [3]. Questo governo razziale, che affonda le radici nella colonialità storica del progetto Europeo [4], ha tra le sue funzioni principali quella di stratificare in maniera gerarchica lo spazio della cittadinanza, e non solo, legando a una sorta di «ospitalità condizionale» [5] l’accesso ai diritti dei richiedenti asilo. All’interno di questa gestione securitaria-umanitaria, i e le migranti sono «forzati» a ricorrere all’asilo per venire regolarizzati, venendo dunque rappresentati come «vittime» bisognose di un salvatore bianco e, allo stesso tempo, come «minacce» all’ordine socioculturale Europeo. Aspetto, questo, che rimanda neanche troppo velatamente a uno dei tratti tipici della coscienza moderna europea, per la quale il soggetto nero e/o razzializzato veniva concepito nei termini del bambino e del terrorista.

Allo stesso tempo, proprio per il fatto che la razza ha rappresentato sin da principio anche un dispositivo di estrazione legato indissolubilmente allo sviluppo del capitalismo, è importante guardare ai modi, complessi e articolati, attraverso i quali questo governo razziale contribuisce a produrre specifiche figure in rapporto all’organizzazione produttiva, e peculiari dinamiche anche per quanto riguarda la riproduzione sociale, all’interno della logica del cosiddetto capitalismo razziale. Senza entrare nello specifico del dibattito sul capitalismo razziale, qui mi interessa, sulla scia del lavoro di Achille Mbembe, soffermarmi su un punto molto specifico del rapporto tra razza e capitalismo. In Critica della ragione negra, Mbembe definisce il soggetto nero – tra i soggetti razzializzati par excellence della modernità – come un soggetto che è costantemente reso in eccesso, fatto scarto, senza valore umano, ma allo stesso tempo uno strumento di lavoro cruciale per il funzionamento del capitalismo, che può essere sfruttato letteralmente fino alla morte, sia sociale che fisica. È su questo corpo che il capitalismo costruisce la sua espansione e ricomposizione; su quelli che potremmo definire esuberi razziali produttivi. Nelle sue parole, «la razza è uno dei materiali grezzi dai quali differenza e surplus – una vita che può essere sprecata e spesa senza limiti – vengono prodotti» [6].

Quello che mi interessa sottolineare qui, oltre al fatto che Mbembe ci permette di riformulare tramite una lente postcoloniale l’idea di «surplus population» marxiana, è il fatto che se guardiamo la razza attraverso questa prospettiva specifica, possiamo tentare di riconcettualizzare il rapporto tra umanitarismo, come governo delle vite di scarto, e regimi (ri)produttivi. Prendiamo, ad esempio, una famosa definizione di Agier sul governo umanitario, nella quale lo studioso francese afferma che il «campo» rappresenta «la metafora, e la realizzazione concreta, di uno “scarto” umano che non ha voce e non ha posto in questo mondo [...] in cui opera il governo umanitario» [7]. Oppure guardiamo a Baumann, che nel suo celebre Vite di scarto, guarda ai rifugiati come «scarti umani» che vengono relegati nei campi, e che gravano sulla comunità in quanto soggetti improduttivi e di fatto espulsi dall’ordine socioeconomico. Questo tipo di letture, che sono egemoniche negli studi critici sull’umanitarismo, influenzate in diversa misura dall’opera di Agamben sul paradigma della forma campo, si focalizzano in maniera esclusiva sulle dinamiche politiche di segregazione, abbandono ed esclusione sociopolitica che incarnano i richiedenti asilo/rifugiati.

Nonostante contengano degli elementi di verità, mi preme sottolineare ciò che questo tipo di analisi tendono a nascondere. Se infatti si assume uno sguardo etnografico sul governo di richiedenti asilo e rifugiati, queste letture perdono di efficacia. Come mostrato per esempio da un recente articolo: «per chiunque abbia lavorato con i rifugiati, l’affermazione di Bauman che vede i rifugiati come persone completamente estranee al capitalismo appare errata. In quasi tutti i campi del mondo, i rifugiati restano dentro al sistema capitalistico: lavorano, spesso come lavoratori senza documenti con salari significativamente più bassi rispetto alla popolazione locale. Commerciano, a volte apertamente e a volte in modo illecito, spesso oltre i confini (del paese ospitante) con il loro paese d'origine. Acquistano beni di consumo oltre ai beni che ricevono come aiuti» [8]. Oppure, per rimanere nel contesto italiano ed europeo, basti pensare alle migliaia di richiedenti asilo che ogni giorno, e notte, lasciano i cosiddetti centri di accoglienza per andare a lavorare spesso in condizioni di iper-sfruttamento in settori quali l’agricoltura, la logistica e i servizi [9].

Da un punto di vista teorico, gli approcci à la Agier e Bauman, sono ciechi rispetto al fatto che durante la modernità gli «scarti dell’umano» hanno rappresentato, e rappresentato, una delle risorse sulle quali il capitalismo razziale ha fondato il suo stesso sviluppo. La razza, come viene letta da Mbembe e altri autori e autrici che fanno parte dell’eterogenea costellazione postcoloniale, svolge proprio questa funzione cruciale: deumanizza, produce soggetti razzializzati, espulsi dal politico e dal regno dell’umano, ma allo stesso tempo li mette al lavoro fino alla morte. La piantagione, più che il campo di concentramento, per stare con Mbembe, ci rivelano questa natura produttiva della razza. Non considerando la razza, e dunque lo spazio coloniale, come dispositivo moderno cruciale di produzione di vite-di-scarto-messe-a-lavoro, queste letture ripropongono in buona parte il paradigma «eurocentrico e bianco» sviluppato da Agamben nella sua opera [10].

Alla luce di queste considerazioni, schematiche ed euristiche, che richiederebbero un ulteriore approfondimento, una delle questioni centrali che accompagnano questa riflessione riguarda il ruolo svolto dal governo umanitario nella produzione, e gestione, di un’umanità di scarto e razzializzata che non incarna solamente dinamiche di segregazione, esclusione ed abbandono sociopolitico, ma che svolge anche un ruolo produttivo imprescindibile all’interno dell’attuale fase di accumulazione neoliberale [11]. Nel ragionare attorno al rapporto tra ragione umanitaria e razza assumo una prospettiva specifica, ovvero la frattura razziale-coloniale che sin da principio struttura la moderna nozione di umano e umanità [12].

Razzializzazioni umanitarie, o chi è l’umano dell’umanitarismo?


Because you know, in Italy there is something that we, the blacks, sorry to say, we don’t have enough privilege like the way you have. So, like me, I don’t complain too much, because I believe in hard work, I always go to my work, because I am a rider, I do delivery.. I always go to my work so.. when the other people complain I don’t complain.

—Dani, richiedente asilo, Nigeria; Verona, 20 luglio 2021. Intervista durante il mio lavoro di campo, corsivo mio.


Come accennato in precedenza, tenterò di mostrare come, a livello storico e politico, la razza abbia giocato, e giochi tutt’ora, un ruolo fondante e generativo all’interno del governo umanitario.

Propongo dunque di provare a leggere il governo umanitario tramite il prisma della razza. Ritengo infatti che nonostante la razza abbia (giocato) un ruolo centrale all’interno di questo dispositivo di governo delle popolazioni, sia stata molto spesso trascurata nelle analisi sul funzionamento dell’umanitarismo. Questo è in parte dovuto al fatto che a un primo sguardo associare razza, razzismo e umanitarismo potrebbe sembrare azzardato, se non ossimorico. Non è un caso che buona parte dell’antirazzismo Europeo, liberale e progressista, veda nell’umanitarismo uno dei suoi valori cardine. Come mostrato da Anna Curcio, infatti, l’antirazzismo umanitario potrebbe essere letto come un «tentativo tardivo e maldestro di scrollarsi di dosso il senso di colpa coloniale» che infesta la coscienza Europea [13]. In aggiunta, la mancanza di analisi che facciano i conti sul rapporto tra razza e governo umanitario è anche dovuta al fatto che in questi ultimi anni nei cosiddetti migration studies la razza tende a essere vista come una sorta di categoria «pre-teorica» che non necessita uno studio profondo e articolato. Prendendo sul serio la sollecitazione di Denise Ferreira da Silva sulla necessità di guardare al «razziale» come il concetto politico più importante del presente, cercherò di avanzare alcune considerazioni sul rapporto tra razza e umanitarismo.

Per fare ciò, intendo guardare al ruolo svolto dallo spazio coloniale, inteso sia a livello storico che politico, per la formazione dell’idea moderna di umanità, così cruciale per lo sviluppo della ragione umanitaria. Mi soffermerò su due dei lavori più dibattuti e influenti sul tema. Il primo è il testo dell’antropologo francese Didier Fassin, Ragione umanitaria. Una storia morale del presente [14], mentre il secondo è l’articolo di William Walters, teorico politico, sulla nascita del confine umanitario come dispositivo di governo delle migrazioni. Sebbene questi due lavori abbiano avuto il pregio di mettere in luce sia la logica operativa dell’umanitarismo che le sue contraddizioni etiche e politiche, entrambi presentano, in diversa misura, una sorta di limite eurocentrico che può essere disteso e superato, qui in maniera provvisoria, tramite uno «sguardo postcoloniale».

Secondo Fassin, la ragione umanitaria rappresenta una razionalità di governo che facendo appello a un orizzonte morale si prefigge di gestire le vite precarie. Gli «indigenti e i dominati» – rifugiati e richiedenti asilo, poveri e senzatetto, vittime di conflitti armati e disastri naturali – sono alcune delle popolazioni target del governo umanitario. Questa tecnologia di governo può essere intesa come una politica del salvataggio, della cura e della compassione che mette in ombra le origini strutturali delle disparità sociali. In quanto feticismo politico ed epistemico incentrato sull'atto di salvare vite e portare soccorso in una situazione di emergenza, l'umanitarismo contribuisce a nascondere le cause, politiche e storiche, all’origine dell’emergenza stessa. Piuttosto che evocare un lessico politico, questo tipo di governo tende a codificare e presentare la realtà sociale in termini morali, per cui «le disuguaglianze lasciano il posto all’esclusione, la dominazione si trasforma in sventura, l’ingiustizia viene espressa con le parole della sofferenza, e la violenza con quelle del trauma» [15].

Come notato da Fassin, una serie di ambiguità e contraddizioni sono alla base del governo umanitario. Infatti, pur rivendicando l'uguaglianza di tutti gli individui in nome di un'umanità comune e universale, la relazione umanitaria implica una gerarchia ontologica degli esseri umani, dove la «vittima» è subordinata e dipendente al soggetto sovrano responsabile della sua salvezza e protezione: «questa tensione fra disuguaglianza e solidarietà e fra relazione di dominazione e relazione di aiuto reciproco è alla base di ogni governo umanitario […] la soggettività, le rivendicazioni e la voce dell'altro che soffre sono sistematicamente messe a tacere e negate in quella che risulta essere una relazione di “dominio umano”» [16]. A conti fatti, l'idea di un’umanità comune e universale si rivela più come un'astrazione ideologica che come una condizione materiale che apre a possibilità emancipatrici per chi si viene a trovare nella posizione di «vittima». Perciò, la gerarchia ontologica che struttura ogni relazione umanitaria può essere vista come il sintomo di un differenziale di umanità e potere che attraversa il regno stesso dell'umano. Alcuni gruppi e popolazioni sono sistematicamente riprodotti, e ridotti, allo status di «vittime senza voce» e relegati negli strati inferiori dell'umanità. È il caso, per esempio, delle centinaia di migliaia di persone nere e quasi-nere che, sulla scia della cosiddetta crisi dei rifugiati del 2015, sono state costruite, a livello discorsivo e governamentale, come vittime bisognose di un salvatore bianco e come potenziale minaccia per le società europee.

Detto questo, se Fassin mette acutamente in luce la gerarchia ontologica che sta alla base di ogni relazione umanitaria, allo stesso tempo tende a concepirla in una prospettiva astorica [17]. In altri termini, la sua analisi non considera i fattori, politici e storici, che sin da principio hanno reso l’idea moderna di umanità un concetto gerarchico e, in una certa misura, inconciliabile [18]. Nell'ultimo capitolo del volume, intitolato emblematicamente Gerarchie dell'umanità, l’autore francese sottolinea che «la ragione umanitaria è parte della nostra modernità» [19] ma non vi è alcun accenno al terreno razziale-coloniale su cui la modernità, insieme ai suoi principi universali – l'umanità in primis – è radicata. Come ricordato per esempio da Lisa Lowe, il soggetto coloniale, soggetto razziale per eccellenza, ha svolto un ruolo cruciale per la formazione della moderna nozione di umanità. È stato un prerequisito per la sua creazione, e allo stesso tempo per la sua decomposizione razzialmente strutturata: «la razza, come segno della differenza coloniale, rappresenta un residuo duraturo dei processi attraverso i quali l’umano è universalizzato e liberato in una prospettiva liberale, mentre le persone che hanno creato le condizioni di possibilità per questo tipo di libertà sono assimilate o dimenticate» [20].

Questa «svista eurocentrica» di Fassin appare quantomeno sorprendente se si considera il fatto che buona parte delle sue argomentazioni si sviluppano a partire dal contesto francese, tra i maggiori laboratori (post)coloniali per quanto riguarda le fratture razziali che hanno attraversato la concezione moderna di uomo, a partire dal rapporto inscindibile tra Rivoluzione francese e haitiana. Sulla «svista eurocentrica» di Fassin rimando a questo passaggio di Mellino:


La prospettiva di Fassin, in linea con il repubblicanesimo francese, finisce per trascurare e quindi riparare la «frattura coloniale» interna alla categoria euro-occidentale dell'umano, ovvero la sua costitutiva grammatica razziale. Non è un caso che eventi come la rivoluzione haitiana e la figura di Touissant l'Overture, le lotte antischiaviste e anticoloniali non trovino spazio nella genealogia storica dell'umanitarismo di Fassin [21].


L’analisi di Fassin non tiene in considerazione il fatto che la figura moderna dell'umano, che è la stessa figura sulla quale si è storicamente dato il governo umanitario, è inseparabile da un costante processo di espulsione dell'altro coloniale dallo stesso regno dell'umano. L'umanità è emersa da un processo continuo di demarcazione tra l'umano - bianco, europeo, liberale, maschile, cristiano - e il sub-umano o quasi-umano razzializzato dello spazio coloniale. L’umano moderno assume un significato radicalmente diverso se si riconosce o meno che questa frattura razziale-coloniale, abissale e generativa, crea e struttura, così come frattura e decompone, questa figura giuridico-politica. Questo punto, che potrebbe sembrare scontato, viene spesso presentato negli studi critici sull’umanitarismo più come una questione minore e tutto sommato irrilevante piuttosto che come una delle poste in gioco politiche del governo umanitario [22].


Umanitarismo e colonialismo

Queste considerazioni, di stampo politico, assumono un particolare significato se seguiamo la strada aperta da alcuni recenti studi storici sul rapporto tra umanitarismo e colonialismo. Come dimostrato da Alan Lester e Fae Dussart nel loro fondamentale contributo Colonization and the Origins of Humanitarian Governance [23], è proprio lo spazio coloniale moderno uno dei laboratori principali che ha visto l’emergere della ragione umanitaria. Se Michael Barnett nel suo Empire of Humanity [24] aveva già tracciato una genealogia imperiale dell’umanitarismo, il suo studio, come altri d’altronde, tendeva a concepire «l’umanitarismo coloniale» come una sorta di lobby esterna al governo coloniale stesso, vedendo nella guerra il momento di emersione della ragione umanitaria. Tramite un capillare lavoro d’archivio, invece, Lester e Dussart mostrano in maniera convincente proprio come l’umanitarismo, inteso in termini foucaultiani come arte di governo delle popolazioni, si sia sviluppato proprio a partire dal governo europeo delle colonie. In questa prospettiva, la nascita della ragione umanitaria, molto spesso fatta coincidere con la battaglia di Solferino, la nascita della Croce Rossa e il movimento per l’abolizione della schiavitù, deve essere ricentrata anche a partire dal governo delle colonie. È dunque proprio attorno al soggetto coloniale che emerge il discorso governmanetale di tipo umanitario.

Alla luce di queste brevi e schematiche considerazioni, possiamo tentare di riformulare la prospettiva astorica à la Fassin, che accomuna vari studi sul tema. Se per l’antropologo francese l’umanitarismo è attraversato da «una disuguaglianza ontologica che contravviene al principio di umanità», e allo stesso tempo riproduce «gerarchie implicite» [25], possiamo aggiungere che, nella maggior parte dei casi, queste gerarchie sono assemblate e strutturate razzialmente, radicate nella genealogia coloniale dell’umanità e dell’umanitarismo moderno. In altri termini, gli approcci à la Fassin rischiano di non riconoscere che «nelle odierne cornici umanitarie [...], la blackness, il più delle volte, continua a funzionare come simbolo e metafora [...] del vittimismo e della pietà, analogamente al ruolo che ha giocato il "selvaggio" coloniale nel pensiero politico europeo» [26].

Questo punto rimanda in maniera emblematica all'estratto dell’intervista riportato all'inizio di questa sezione. Durante il lavoro di campo, Dani, richiedente asilo nigeriano che lavora come rider a Milano, ha fatto riferimento alla questione della blackness sia come referente identitario (collettivo) sia come sintomo di una certa forma di oppressione: «we, the blacks, sorry to say, we don’t have enough privilege like the way you have». Il suo riferimento alla linea del colore è stato chiaro e perentorio durante tutto il nostro scambio, come lo è stato per molti altri che durante interviste e scambi informali si sono identificati come «blacks», alcune volte in aperta opposizione alla mia whiteness. Non potendo affrontare in maniera ulteriore questa sollecitazione empirica molto densa e carica di significati, ritengo fondamentale sottolineare come le categorie tipiche dell’umanitarismo, quali appunto la vittima, il richiedente asilo, la tensione umanitaria, rischiano continuamente di nascondere la dimensione razziale e coloniale su cui si basa questo stesso tipo di discorso (governamentale). Pertanto, se Fassin «finisce per trascurare e quindi riparare la “frattura coloniale” interna alla categoria euro-occidentale centrica dell'umano» [27], propongo invece di assumere proprio questo confine razziale come angolo epistemico per analizzare il funzionamento del governo umanitario.


Il «confine umanitario»: frattura razziale e governo delle migrazioni

Per provare a guardare ulteriormente tramite questo confine razziale che struttura la ragione umanitaria, può essere utile guardare all’articolo di William Walters, Foucault and Frontiers: Notes on the Birth of the Humanitarian Border. In questo contributo, vero e proprio classico degli studi sulle migrazioni, viene introdotto il concetto di confine umanitario («humanitarian border»). Il confine umanitario emerge nelle aree del mondo nelle quali l’attraversamento delle frontiere è diventato una questione di «vita o di morte». Il dispositivo umanitario deve essere considerato «come un dominio complesso che possiede forme specifiche di ragione governamentale», in cui prende forma «un’instabile alleanza tra una politica di alienazione e una politica di cura, tra una tattica di abiezione e una di accoglienza» [28]. Tuttavia, quello che qui mi interessa sottolineare è un dettaglio per così dire più descrittivo che analitico, ovvero la localizzazione e i punti d’emersione del confine umanitario. Walters, infatti, individua e scorge lo sviluppo del confine umanitario all’intersezione contesa e turbolenta tra il Global north e Global south. Un esempio paradigmatico è l'isola di Lampedusa, divenuta negli ultimi due decenni uno spazio geopolitico e simbolico cruciale per quanto riguarda la cosiddetta crisi migratoria europea. Riporto il passaggio integrale dell'articolo:


il governo umanitario delle migrazioni sta diventando comune a quelle che Freudenstein [29] chiama le «frontiere della povertà» del mondo. Si tratta di zone come i confini tra Stati Uniti e Messico [], o il complesso spazio formato dal Mediterraneo, dal Nord Africa e dagli Stati europei meridionali dell'Ue []. Questi spazi possono essere paragonati a faglie nello spazio liscio della globalizzazione, dove sembra che i mondi designati dai termini Global North e Global South si confrontino in modo molto concreto e abrasivo, e dove i gradienti di ricchezza e povertà, di cittadinanza e non-cittadinanza appaiono particolarmente netti [30].


Alla luce di questa considerazione, credo che l’autore ci offra uno spunto per sviluppare in maniera ulteriore il suo stesso ragionamento. Infatti, considerando razza e colonialità come i dispositivi fondanti, materiali ed epistemici, al centro della cesura tra il Nord e Sud globale [31], propongo di considerare il confine umanitario come uno spazio governamentale nel quale la frattura razziale-coloniale dell'umano viene riprodotta e istituzionalizzata, piuttosto che rovesciata o superata. Per parafrasare il famoso adagio di Gloria Anzaldúa sul confine tra Messico e Stati Uniti come «ferita aperta» dove il «terzo mondo» sanguina ed entra nel «primo mondo», potremmo affermare che il confine umanitario incarna una ferita postcoloniale nella quale la dimensione razziale-coloniale dell’umano (ri)emerge, viene governata e messa a valore. Questa suggestione concettuale si addice particolarmente allo spazio mediterraneo, se visto dalla prospettiva dei Black Mediterranean Studies, che rimangono sorprendentemente assenti in molti studi critici su umanitarismo e migrazioni in ambito europeo. In parte ispirati dal lavoro di Paul Gilroy sull’Atlantico nero, questi studi sottolineano che il Mediterraneo, in modo simile ma non identico allo spazio atlantico, è stato «sia una precondizione per il moderno capitalismo razziale sia un sito per la continua riproduzione di regimi di razzializzazione e di soggettività nere» [32].

Alla luce di queste considerazioni teoriche preliminari, possiamo concludere che oltre alle diverse antinomie, di stampo prevalentemente etico e politico, che in questi anni sono state sottolineate da diverse ricerche, credo che se approcciato da questa prospettiva postcoloniale il governo umanitario emerga anche e soprattutto come un dispositivo cruciale per la riproduzione, e gestione governamentale, di una specifica figura razzializzata dell’umano. Lungi dall’essere un’eccezione contemporanea, questa dimensione razziale dell’umanitarismo affonda le radici nella sua stessa genealogia coloniale. È a partire da qui credo che ci sia bisogno di sviluppare ulteriori considerazioni su quelle che in maniera provvisoria ho voluto chiamare razzializzazioni umanitarie. Come ho cercato di mostrare in apertura a queste note, ragionare sull’intreccio intimo tra umanitarismo e razza può essere cruciale per provare a illuminare ciò che molte teorie rischiano di non vedere, ovvero il ruolo cruciale svolto dall’umanitarismo nel mettere a lavoro e valore quegli «scarti dell’umanità» che tendono ad essere concepiti nei termini agambeniani della nuda vita, ma che da un punto di vista materiale svolgono un preciso ruolo produttivo all’interno delle dinamiche di accumulazione contemporanee.


Note [1] Achille Mbembe, Critica della ragione negra, Ibis, Pavia 2019. [2] Lisa Lowe, The intimacies of four continents, Duke university press, Durham e Londra 2015. [3] Si veda Miguel Mellino, Per una critica dell’antirazzismo europeo, in Tommaso Pami (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo, DeriveApprodi, Roma 2020. [4] Sul tema Nicholas De Genova, The European Question: Migration, Race, and Postcoloniality in Europe, Social Text, 34 (3 (128)): 75-102, 2016; Miguel Mellino, Cittadinanze postcoloniali. Appartenenze, razza e razzismo in Europa e in Italia, Carocci, Roma 2012; Fiorenza Picozza, The coloniality of Asylum, Rowman & Littlefield, Lanham e Londra 2021. [5] Vincenzo Carbone, Enrico Gargiulo, Maurizia Russo Spena (a cura di), I Confini dell’inclusione. La civic integration tra selezione e disciplinamento dei corpi migranti, DeriveApprodi, Roma 2018. [6] Mbembe, Critica della ragione negra, cit., p. 34. [7] Michel Agier, Humanity as an Identity and Its Political Effects (A Note on Camps and Humanitarian Government). Humanity: An International Journal of Human Rights, Humanitarianism, and Development. 1, 1, pp. 42-43, traduzione mia. [8] Frydenlund, Shae, Cullen Dunn, Elizabeth Cullen Dunn, Refugees and racial capitalism: Meatpacking and the primitive accumulation of labor, «Political Geography», 95, 2022, p. 6, traduzione mia. [9] Antonello Mangano, Chi sfrutta i richiedenti asilo, «Jacobin Italia», 2020. https://jacobinitalia.it/chi-sfrutta-i-richiedenti-asilo/. [10] Per una critica delle «aporie bianche» di Agamben rimando a Miguel Mellino, Governare la crisi dei rifugiati. Sovranismo, neoliberalismo, razzismo e accoglienza in Europa, DeriveApprodi, Roma 2019. [11] Sul rapporto tra razza e neoliberismo rimando a Lowe, The intimacies of four continents, cit. [12] Aime Césaire, Discorso sul colonialismo, ombre corte, Verona 2011; Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007; Sylvia Wynter, ‘Unsettling the Coloniality of Being/Power/Truth/Freedom: An Argument.’ Towards the Human, After Man, Its Overrepresentation, «CR: The New Centennial Review» 3(3), 2003, 257–337. [13] Anna Curcio, Razza e capitale: la doppia traccia del razzismo, in Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo, cit., p. 51. [14] Didier Fassin, Ragione umanitaria. Una storia morale del presente, DeriveApprodi, Roma 2018. [15] Ivi, p. 15. [16] Ivi, p. 11-12. [17] S. M. Reid-Henry in Humanitarianism as liberal diagnostic: humanitarian reason and the political rationalities of the liberal will-to-care, Transactions of the Institute of British Geographers, (39) 418–431, nota a proposito del lavoro di Fassin che manca di una prospettiva storica riguardo lo sviluppo della ragione umanitaria come razionalità moderna di governo. [18] Sulla natura inconciliabile dell'umanità moderna da una prospettiva razziale, rimando a quella che Cedric Robinson ha definito «Black radical tradition». Si vedano anche, da prospettive diverse, Achille Mbembe e Franck B. Wilderson III. «È un “Negro” chi, costretto ai piedi di un muro senza porte, pensa che alla fine comunque si aprirà. Allora bussa, supplica, poi bussa ancora, aspettando che gli venga aperta una porta che non esiste» (Mbembe, Critica della ragione negra, cit., p. 152). «La relazione nero/uomo si presenta come una dinamica strutturale che non può essere riconciliata e che non ha una modalità coerente di riparazione» (Franck B. Wilderson III, Blacks and the Master/Slave relation, in Afro-Pessimism: An introduction, Racked & dispatched, Minneapolis 2017, p. 17, traduzione mia). [19] Fassin, Ragione umanitaria, cit., p. 272. [20] Lowe, The intimacies of four continents, cit., p. 7, traduzione mia. [21] Mellino, Governare la crisi dei rifugiati, cit., p. 68. [22] Ad esempio, Miriam Ticktin e Ilona Feldam (a cura di) nell’introduzione di In the name of Humanity, (Duke university press, Durham e Londra, 2010), intitolata Government and Humanity, prendono in considerazione la dimensione razziale del moderno concetto di umanità, non sviluppano però una lettura approfondita sulle poste in gioco di questa questione. [23] Alan Lester, Fae Dussart, Colonialism and the Origins of Humanitarian governance. Cambridge university press, Cambridge 2014, si vede in particolare il primo capitolo. [24] Michael Barnett, Empire of Humanity. A History of Humanitarianism. Cornell university press, Ithaca e Londra, 2011. [25] Fassin, Ragione umanitaria, cit., p. 227. [26] Ida Danewid et al., Introduction, in The Black Mediterranean Collective (a cura di), The Black Mediterranean. Bodies, Borders and Citizenship. Palgrave McMillian, Cham 2021, p. 12, traduzione mia e corsivo aggiunto. [27] Mellino, Governare la crisi dei rifugiati, cit., 68. [28] William Walters, Foucault and frontiers: Notes on the birth of the humanitarian border, in Bröckling, U. Krasmann, S. Lemke, T. (a cura di), Governmentality: Current issues and future challenges, Routledge, New York 2011, p. 143, 145. [29] Roland Freudenstein, Río Odra, Río Buh: Poland, Germany, and the Borders of Twenty-First-Century Europe, in Peter Andreas and Timothy Snyder (a cura di), The Wall around the West: State Borders and Immigration Controls in North America and Europe, Rowman and Littlefield, Lanham 2000. [30] Walters, Foucault and frontiers: Notes on the birth of the humanitarian border, cit., p. 145. [31] Si veda sul tema Anzaldúa, Gloria. 1987. Borderlands/La Frontera. The New Mestiza, Aunt Lute Books, San Francisco 1987; Walter Mignolo, The Global south and the world dis/order, «Journal of Anthropological Research», vol. 67, n. 2, 2011, pp. 165–88. [32] Danewid et al., Introduction, cit., 2021, p. 14, traduzione mia.


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Francesco Marchi è dottorando in Studi internazionali presso l’Università L’Orientale di Napoli. Si occupa di razzismo, migrazioni e studi postcoloniali. Attualmente svolge un lavoro di ricerca sullo sfruttamento di richiedenti asilo e rifugiati tra Italia e Germania. Fa parte del progetto editoriale «Malora rivista».

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