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Queerness, salute mentale, Cura



Queerness, salute mentale, Cura
Immagine: Pedro Lemebel, Las Yeguas del Apocalipsis. Las Dos Fridas, 1989. Collezione MoMA, New York

La psichiatria tradizionale - i suoi assunti positivisti, il suo potere di assoggettamento e la sua pretesa di neutralità - ha un impatto ambivalente sulla costruzione dei processi di soggettivazione queer: la patologizzazione del desiderio omosessuale - attraverso i codici e i significati del regime della differenza sessuale - riconferma il modo di produzione e riproduzione della soggettività capitalista; le soggettivazioni queer, mettendo in discussione il portato patologizzante delle categorie (la disforia che diviene strumento demedicalizzato di rivendicazione), aprono alla critica dei regimi oppressivi di riproduzione sociale e a nuove pratiche di cura.

 

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Con lo scoppio della sindemia globale da Covid-19 i discorsi sulla salute mentale si sono moltiplicati tanto nel campo mediatico che in quello accademico, scientifico. In questo proliferare di discorsi la salute mentale ha costituito la polarità positiva rispetto alla quale si denunciava, da diverse prospettive – mediche, sociologiche, antropologiche, «morali» –, quanto le condizioni esistenziali che stessimo vivendo si fossero esacerbate al punto tale da diffondere esponenzialmente una serie di psicopatologie degne del massimo allarme sociale (depressione, disturbi d’ansia, disturbi d’attenzione, borderline, OCD, comportamenti giovanili devianti o autolesivi ecc)[1]. Obiettivo di questo contributo è approfondire un aspetto del rapporto tra condizioni di vita e questioni psicopatologiche che resta spesso oscurato tanto nel discorso mediatico quanto in quello accademico-scientifico: parlare di salute mentale, e quindi discutere del rapporto che intratteniamo con la nostra salute psico-fisica, non può esulare dall’analisi della struttura sociale e politica in cui siamo immerse e a cui partecipiamo, proprio perché le nostre condizioni di salute sono strettamente legate al modo di produzione e riproduzione del lavoro, della vita e della soggettività, che delineano e producono le nostre condizioni materiali e immateriali. Non si parlerà, allora, soltanto di come stiamo, o dello stato delle nostre sinapsi, o delle nostre capacità neuro-cognitive, ma di come sta il mondo che abitiamo e di come lo stiamo abitando.

 


Il paradigma bio-medico e il mandato disciplinare della psichiatria

 Per situare teoricamente e storicamente questa prospettiva, è importante considerare l’impatto che la medicina, la sua forma positivista e medicalizzante – soprattutto nella psichiatria tradizionale –, ha avuto sulla definizione di salute, integrandola in una visione sanista che vede come prototipo perfetto il corpo senza malattie, iper-produttivo, abile, preferibilmente etero, bianco e cis. L’estensione dell’approccio bio-medico nella psichiatria ha ampliamente contribuito alla depoliticizzazione e naturalizzazione dei concetti di salute e malattia, benessere e malessere, contrapponendo significati disposti su un continuum al fine di istituire un rigido binomio tra le categorie di follia/ragione, patologico/normale. La psichiatria egemone, affermatasi dal diciannovesimo secolo come uno dei principali dispositivi di potere disciplinare, ha storicamente operato al fine di escludere i folli e territorializzare la follia nell’individuo, producendola attraverso le sue pratiche di «cura», oggettivando il corpo malato per separarlo dai suoi desideri, dalle sue espressioni, dai suoi significati e dai suoi affetti, che è ciò che bisogna osservare se si vuole capire la sua storia e la sua origine. Qui è il limite della psichiatria tradizionale: la volontà di studiare la malattia come fosse estranea al corpo che la ospita, la disumanizzazione delle persone che chiama alla sua verifica, l’arbitrarietà della sua voce nella produzione della diagnosi, la disfunzionalità terapeutica del suo approccio curante. La definizione stessa di salute come «assenza di malattia» è una definizione prodotta dall’alleanza tra il modo di produzione e riproduzione capitalista e l’approccio bio-medico della medicina, che patologizza la dimensione esistenziale del disagio rendendola malattia per poi leggerla in un’ottica meramente negativa, come «fine del corpo vivo», come intoppo in un percorso lineare del corpo oggettivato, su cui la medicina può e deve intervenire per farlo tornare ad essere brillante, forte, produttivo. Ci sono però dei gap che si manifestano tra la richiesta insostenibile di performance nel neoliberismo e la scarsa capillarità dell’intervento medico che dovrebbe aiutarci a sostenere i ritmi richiesti: i tagli alla sanità pubblica e lo smantellamento del welfare, l’esternalizzazione e la privatizzazione dei servizi sanitari, decisioni politiche che limitano l’accesso universale al diritto alla salute e lo rendono un privilegio da conquistare. In soldoni funziona in questa maniera: ci ammaliamo a causa di condizioni che non scegliamo direttamente e non possiamo neanche curarci adeguatamente, neanche da un punto di vista bio-medico – che è lo stesso di cui mettiamo in dubbio il paradigma. Quello dell’accesso alla salute è un terreno di lotta che tiene dentro numerose rivendicazioni che i movimenti sociali – da quelli operaisti, a quelli femministi e di liberazione omosessuale, trans e Nera –, in base alle loro specificità, hanno costruito analizzando una lunga serie di variabili.

 


Soggettivazione queer e crisi del paradigma

 Se parliamo delle esperienze legate alla salute mentale di noi persone LGBTQIAP+ vanno tenute insieme due prospettive indissolubilmente collegate: la prima, quella genealogica dei corpi queer, pensati come folli e storicamente psichiatrizzati, in cui il desiderio omosessuale è stato regolamentato e bollato come deviante dal regime della differenza sessuale e dai suoi dispositivi di potere – sortendo il controeffetto della sua diffusione segreta nel privato delle case, dei cinema, dei bagni pubblici, delle caserme, dei luoghi di cruising o nei glory hole. La seconda, quella interna ai corpi queer nel presente, che mostra la costruzione del processo di soggettivazione queer in un mondo profondamente disforico – recuperando l’uso che fa del concetto di disforia Paul B. Preciado[2], non quello della psichiatria egemone – ed eteronormato che riproduce una violenza sistemica tale da «ammalare» i soggetti esclusi dal potere psichiatrico-patriarcale. I feedback reciproci scambiati tra queste prospettive ci restituiscono un quadro complesso circa gli elementi da tener presente quando parliamo di «salute mentale e soggettivazione queer»: la medicalizzazione e patologizzazione storica dei nostri orientamenti sessuali e identità di genere, con la conseguente violenza medico-psichiatrica a cui frocie, lesbiche, intersex, trans e bisessuali sono state sottoposte; il rapporto «materiale» intrattenuto con la propria salute mentale e con l’eventuale presenza di una diagnosi psicologico-psichiatrica; la «catena della cura» con cui siamo in rete, i suoi anelli che racchiudono diversi tipi di relazioni e che contribuiscono alla nostra cura e riproduzione sociale quotidiana. I movimenti di liberazione omosessuale e trans radicali degli anni Sessanta e Settanta hanno contribuito moltissimo allo stato dell’arte circa la critica alla psichiatria tradizionale: la lotta alla psichiatrizzazione e medicalizzazione dei nostri orientamenti e identità dissidenti era centrale per il nostro riconoscimento e per la nostra autodeterminazione, che la psichiatria regolamentava, limitava e controllava istituendo la sua verità incontestabile – la Natura è Ragione, e la Ragione è Eterosessualità, e l’Eterosessualità è Natura, e Natura è Normalità, e Normalità è Eterosessualità, e Normalità è Ragione. Come persone queer, allora, il nostro diritto alla salute mentale è stato storicamente violato e trasformato in assoggettamento al potere psichiatrico, forzandoci a violenze brutali come terapie di conversione, abusi, torture, TSO. E questo elemento d’analisi è fondamentale per capire meglio la seconda prospettiva sopra citata: nonostante la dissidenza dall’eterosessualità obbligatoria non sia più trattata come malattia mentale a livello clinico, il regime della differenza sessuale vigente continua a riprodurre sul piano politico, sociale e culturale, delle condizioni esistenziali invivibili per le persone queer, che devono sopravvivere barcamenandosi in un’epistemologia caotica divisa tra assimilazionismo e conservatorismo, in cui lo sguardo psichiatrico rimane sovradeterminante. I nostri processi di soggettivazione queer sono costruiti sulle macerie del riduzionismo biologico e del regime della differenza sessuale, e mediati da un capitalismo neoliberale che crea tante malattie quante cure, tanti vuoti quanti modi per riempirli, tante mancanze quante dipendenze. È dire l’ovvio, che non tutte le persone della sigla – il modo con cui Antonia Caruso chiama l’acronimo LGBTQIAP – siano così sofferenti verso l’eteropatriarcato da accusare una malattia mentale; come è dire l’ovvio che non tutte le persone della sigla che convivono con un disagio psicologico-psichiatrico siano necessariamente malate a causa dell’eteropatriarcato. I livelli di percezione quotidiana individuale e collettiva di quest’ultimo, con i suoi effetti materiali, non sono fissi – variano tanto quanto variano i processi di soggettivazione queer – ma mediati dal vissuto, dal posizionamento che si occupa, dalla lettura che si ha del mondo e, più importante, dalle condizioni strutturali in cui siamo immerse e dal grado di assoggettamento a cui si è esposte. La rimozione dalla narrativa individualizzante della salute mentale va completata con il suo inserimento in una contro-narrazione che metta al centro proprio la «catena della cura» e gli snodi, i livelli e i rapporti di potere che la connotano: per «catena della cura» intendo quel processo continuo e infinito di tamponamento delle ferite «del fisico, della mente e del cuore», di produzione e costruzione di gioia e spensieratezza collettiva, di interventi quotidiani sulle peculiari difficoltà della vita, di costruzione di solidarietà attiva, che coinvolge curante e curato, comunità e famiglie, movimenti e società, non in una assiomatica medicalizzante, ma in ciò che è stato marxianamente identificato col nome di «riproduzione sociale».

La cura, separata dal suo significato eziologico, non è una pratica esclusivamente erogabile e fornibile attraverso la relazione medico-paziente, né risolvibile soltanto con l’ospedalizzazione o la terapia farmacologica. È piuttosto una prassi che attraversa, in diversa misura e a diverse intensità, tutte le relazioni sociali con cui siamo in rete, da quelle macro con le istituzioni, gli ambienti e le leggi che le regolano, a quelle micro con le persone con cui condividiamo il quotidiano, sia negli spazi fisici che in quelli virtuali. Il livello di qualità di queste relazioni sociali incide fortemente sulla nostra salute mentale, sia positivamente che negativamente, ed è per questo che la questione della salute mentale è fortemente politica e dev’essere trattata come problema sociale collettivo, sulla scia del lascito teorico del movimento basagliano e di deistituzionalizzazione degli anni Settanta.

 


Materialità della riproduzione sociale e soggettivazione queer

 Le pratiche di cura e di riproduzione sociale, forgiate dalla divisione sessuale del lavoro prodotta dal regime della differenza sessuale[3], hanno sofferto e soffrono della subalternità al lavoro salariato, creando un dislivello di potere nelle formazioni sociali così organizzate dalle strutture sociali occidentali – e conseguentemente rapporti di dipendenza economica e relazionale. La svalutazione del lavoro di cura è una strategia dell’organizzazione capitalista – e delle sue alleanze patriarcali, razziste, abiliste – per accumulare profitti e ricchezze gratuite dalle soggettività femminilizzate, e contribuisce alla riproduzione delle disuguaglianze sociali in termini di classe, genere, etnia e provenienza. L’egemonia di valori orientati alla crescita economica è inevitabilmente in antitesi con ogni pratica di cura non direttamente valorizzabile e monetizzabile. L’esternalizzazione del lavoro di cura, assieme al suo decentramento rispetto alle interrelazioni umane, ha scaricato sulla famiglia «biologica» o «naturale» (per moltə di noi identificabile con la sola famiglia d’origine) le responsabilità totali della cura, concedendo a quest’ultima un potere decisionale (che risponde alla delega sociale al controllo e al disciplinamento), instaurando per contro un forte senso di abbandono e isolamento ogniqualvolta si provi a mettere in crisi questa delega. In assenza di comunità di riferimento formalmente riconoscibili che non siano quelle identificabili con la cosiddetta famiglia «biologica» o «naturale» si producono conseguenze bio-psico-sociali esasperanti. La gestione neoliberale della sindemia da Covid-19 ha messo particolarmente in luce questo aspetto: nonostante la narrazione dominante eleggesse la casa come luogo sicuro – esclusivamente dall’esposizione al virus –, la realtà dei soggetti minoritari è stata ben altra: persone queer hanno dovuto convivere con parenti omo-lesbo-bi-trans-fobici senza opportunità di avere via di fuga, allo stesso modo in cui donne vittime di violenza domestica hanno dovuto convivere con mariti o partner violenti. Per quanto vero che il distanziamento fisico fosse una forma di prevenzione, l’obbligo di rimanere confinati nelle mura domestiche, in certi casi, ha rappresentato un rischio ben peggiore dell’esposizione al virus. La carenza e la precarizzazione delle case rifugio, dei centri antiviolenza femministi, delle strutture di aiuto e ascolto per persone LGBTQIAP+, contribuisce al peggioramento e all’esasperazione della violenza di genere e omo-lesbo-bi-trans-fobica, soprattutto nel momento in cui, come recita un famoso slogan femminista, «l’assassino ha le chiavi di casa». Il welfare state, lo stato sociale, gli interventi pubblici radicali per il contrasto alla violenza di genere – radicali in quanto alternativi ai paradigmi egemoni di militarizzazione e securitarizzazione –, i progetti di educazione sessuale e all’emotività nelle scuole, si configurano allora come pezzi di un puzzle più grande che compongono la definizione di «prevenzione» fuori dal contesto sanitario, che necessita di interventi politici, sociali e culturali a trecentosessanta gradi. L’intolleranza generale delle società verso le soggettività più deboli e marginali fa sì che, ad occuparsi e preoccuparsi delle persone fragili, siano le persone che sentono maggiore responsabilità morale ed etica verso loro – e in una società patriarcale e familista come la nostra, chi più della componente familiare ha queste responsabilità? Le conseguenze di questa paradossale sovrapposizione tra il luogo della residualità della cura e quello del disciplinamento moralizzante nel dispositivo familistico sono distruttive ad ogni livello: famiglie logorate dall’eccessivo carico di cura – invisibilizzato, non pagato ed emotivamente pesante, soprattutto in quanto caratterizzato da un’indicibile ambivalenza –, limitazione dell’autodeterminazione e dell’autonomia delle persone con fragilità, de-responsabilizzazione degli Stati verso i suoi abitanti, diffusione di un generale senso di malessere attanagliante e irrisolvibile. Queste condizioni sono intrinsecamente legate alle disuguaglianze sociali, alla mancanza di reddito e tempo, e alla riduzione del significato di parentela ai legami di sangue.

 


Verso una ripoliticizzazione queer della cura

 Da tempo, molti economisti e movimenti sociali discutono dell’importanza di un reddito di base incondizionato per far fronte alla miseria delle condizioni esistenziali a cui il capitalismo ci relega. Un reddito che non sia legato a contratti di lavoro, cittadinanza e produttività, che liberi e aumenti il tempo di cui disponiamo e che non ci costringa ad accettare salari da fame, posti di lavoro insicuri e pericolosi e turni insostenibili, in modo da predisporre le nostre energie fisiche, mentali ed emozionali – che allo stato attuale ci permettono a malapena di prenderci cura di noi stesse – alla cura promiscua[4] di cui necessitiamo se si vuole radicalmente cambiare la costruzione di questo mondo. Questo tipo di cura promiscua è una pratica che, per necessità storiche e sociali, ha riscontrato un grande successo nelle comunità LGBTQIAP+, che molto spesso non possono contare sulle famiglie d’origine in quanto prima fonte di discriminazione, abusi e rifiuti, nel momento cui si rivelano omo- lesbo-bi-trans-fobiche. Pratiche di cura dal basso – siano esse attivate in contesti virtuali o offline – hanno spesso rappresentato non solo un modo per rispondere alle mancanze strutturali di Stati e servizi inadeguati, ma anche modi di autodeterminarsi individualmente e collettivamente attraverso comunità che riconoscono, comprendono e condividono desideri, bisogni, aiuti materiali e immateriali, così da rendere più vivibili e sopportabili le condizioni di vita. Riconoscere l’interdipendenza dei corpi e de-patologizzare il bisogno sono i primi passi per distruggere la cultura individualista e familista propagandata dal neoliberismo, e sono fondamentali per creare precedenti e testimonianze che dimostrino che un altro tipo di cura è possibile: una cura universale in cui ogni individuo e comunità riesca ad avere tempo e risorse per prendersi a cuore le difficoltà degli altri, non solo dei nostri «congiunti», ma anche di quelle persone che non abbiamo mai incontrato. Lottare per un altro modello di cura, però, non può tradursi soltanto in costruzione di pratiche di mutuo-soccorso dal basso: significa soprattutto dare vita a lotte politiche di ampio respiro in cui si mettano a tema l’accesso universale al diritto alla salute e il ruolo che le istituzioni devono avere per permettere la reale applicazione di questo diritto, lo stato del Sistema sanitario nazionale e dei servizi territoriali, la necessità da parte del sistema medico di adottare una visione bio-psico-sociale come strumento di interpretazione del benessere e del malessere, della salute e della malattia e di ribaltare la sua epistemologia patriarcale, binaria e razzista[5].


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 Mylos La Neve ha studiato Antropologia Culturale ed Etnologia presso l'Università di Bologna «Alma Mater Studiorum», conseguendo la laurea Magistrale con una tesi sull'impatto che la psichiatria tradizionale ha avuto sul processo di soggettivazione queer. Da anni è attivo nei movimenti femministi e transfemministi queer, e attualmente fa parte del Laboratorio Smaschieramenti e Rivolta Pride di Bologna.

 


Note

[1]T. Cantelmi – E. Lambiase – M. Pensavalli – P. Laselva – S. Cecchetti, Covid-19: impatto sulla salute mentale e supporto psicosociale. Modelli della Mente 2021, p.7-39.

 [2] P.B. Preciado, Dysphoria Mundi, Fandango Libri, Roma 2022.

[3] P.B. Preciado, Sono un mostro che vi parla, Fandango Libri, Roma 2021.

[4] The Care Collective, Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, Alegre Edizioni, Roma 2021.

[5] M. Fragnito – M. Tola, Ecologie della cura. Prospettive transfemministe, Orthotes, Napoli-Salerno 2021.

 

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