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Quando la fiction capitalista recita il genere



Con Il latte dei sogni, la Biennale di Venezia 2022 mette in scena il femminismo come icona pop depoliticizzata e celebra la cattura capitalistica del genere e la definitiva spietata affermazione dell’Artecrazia. Ne parla Elvira Vannini.


Immagine: Leonora Carrington con Max Ernst, 1937, fotografia di Lee Miller


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Che l’arte contemporanea abbia assunto un ruolo cruciale nell’assetto economico neoliberista è ormai dichiarato da tempo. In nessun caso, e in modo forse così emblematico, come in quello dell’arte, della sua produzione e del suo mercato, la forma di organizzazione sociale che Marx chiama sussunzione reale è oggi realizzata. Toni Negri lo affermava già nel 1988 [1]. Occorre, tuttavia certamente chiarire cosa intendiamo per «arte» in termini di accelerazione conservatrice e come mondo spaccato dal confine di classe. Dietro il concetto di arte si celano, sin dall’antichità, alcuni tra i sistemi di oppressione più consolidati e concreti, ammantati dalle retoriche di un paradigma culturale universalistico, innocente e neutrale che ammette solo le differenze che non intacchino la sua egemonia e le sue regole. L’arte contribuisce attivamente a stabilizzare regimi patrimoniali; di fatto è uno dei principali agenti di naturalizzazione della ricchezza in mano a pochi e di normalizzazione delle disuguaglianze sociali. Il capitalismo ha trovato proprio nell’artista un modello e un alleato. Qualsiasi posizione volta a mettere in discussione questo stato di cose, soprattutto quando proviene da direttori di istituzioni, curatori o artisti che traggono privilegi da questo stesso sistema, è semplicemente reazionaria.


D’altronde sappiamo fin troppo bene come il capitalismo lavori sulla sovrapposizione e la cancellazione dei codici del politico, dell’economico e del culturale, rendendo difficile individuare uno spazio separato, come avveniva nelle avanguardie storiche, che si ponga al di fuori dal potere, dal mercato e dai protocolli delle istituzioni e dei suoi valori dominanti. Quindi dobbiamo iniziare a distruggere il mito patriarcale del genio romantico e l’idea che l’arte eserciti una qualche virtù salvifica: l’unico salvataggio messo in campo è quello dell’economia finanziaria. Il sistema degli addetti ai lavori è ormai diventato la nuova unità produttiva del capitale semiotico, ma rispetto a qualche anno fa quando queste analisi sono iniziate - penso al neologismo quanto mai appropriato di Artecrazia definito da Marco Scotini nell’omonimo testo uscito per DeriveApprodi nel 2017 - una maggiore e spietata intensificazione della separatezza di classe e delle asimmetrie di genere e razza, nello smantellamento dei diritti e nella coercizione forzata al lavoro gratuito, si sono confermati pienamente. La configurazione sociale ed economica, di cui abbiamo più volte delineato i confini e le ambivalenze, incentrata sulla dequalificazione dei saperi e la precarietà della forza-lavoro, attua continuamente la spettacolarizzazione del capitalismo in quanto il sistema artistico attuale è costitutivamente uno dei più efficaci dispositivi di soggettivazione neoliberale (e patriarcale).


Se il potere si serve dell’arte per far passare le proprie forme di cattura, oggi l’espropriazione di libertà ha assunto pienamente il vocabolario delle industrie creative, segnando inesorabilmente un’accelerazione nell’interesse per le mostre e il loro potenziale valore d’uso come modelli all’interno un programma speculativo di costruzione capitalista e neocoloniale. Se solo qualche anno fa, il curatore nigeriano Okwui Enwezor auspicava la possibilità che le esposizioni potessero funzionare come «topografia della critica» [2] oggi difficilmente riusciamo ad avere delle aspettative circa questa posizione. Biennali, triennali, Manifesta, Documenta, Capitali della cultura, festival, fiere, mostre blockbuster sono tutte «well-oiled art-event machine»: piattaforme espositive in rapporto con il capitale. Macchine estrattive di valore e denaro che fissano rappresentazioni, desideri e sistemi di attese, attraverso un presidio sul tempo - garantito dalla loro periodicità - nei discorsi ufficiali e nell’immagine culturale che l’istituzione proietta di sé. Ogni documento o voce dissenziente che possa minarne la reputazione resta schermata, mentre affluiscono alti numeri di pubblici obbedienti e addomesticati, incapaci di riconoscere il proprio asservimento. Non è un caso che Guy Debord parlando del valore dell’arte, affermava che i collezionisti e i musei per mantenerne la loro reputazione, devono agire allo stesso modo del Fondo Monetario Internazionale che mantiene la finzione del valore positivo degli enormi debiti nazionali [3].


Internazionale Situazionista, Destruktion RSG-6, Galerie EXI, Odense, giugno 1963


La funzione del «curatore-guardiano» è, fondamentalmente, quella di separare l’arte dal resto della società - ammoniva Robert Smithson nel 1972 [4]. Abbiamo infatti assistito a un cambio di direzione, una svolta curatoriale che, attraverso un salto di paradigma in direzione del cosiddetto postfordismo, ha definito da una parte il ruolo di potere del curatore e dall’altra l’illusione di essere una figura indipendente. Sullo sfondo dell’establishment e dei rituali delle mode globali, il curatore è una figura manageriale che amministra proprietà, beni materiali e non persone, controlla i soggetti e fa la guardia ossia governa gli oggetti, nella più esemplare cooptazione neoliberale. Ogni istanza di autonomia emersa a partire dal 1968, è ora orientate a dominare il mercato (e l’immaginario), contraltare della globalizzazione neo-capitalista nei decenni a seguire. Ma finché saranno valide le attuali condizioni capitalistiche, quale azione diventerà possibile?


Contestazione alla Biennale di Venezia, 18 giugno 1968


La cultura dove sta? Con chi sta? Come si rapporta nella lotta di classe attuale? Incalzando con queste domande, iniziava la contestazione della Biennale di Venezia nel giugno del 1968 all’indomani della sua inaugurazione, con la denuncia del ruolo classista e oppressivo dell’arte nella società borghese, di cui la storica istituzione lagunare ne rappresentava la fortezza. Le violente cariche dei celerini contro gli studenti e il Comitato per il boicottaggio, diedero inizio alle sollevazioni, in un’apertura per la stampa blindata, con la città e le sedi della manifestazione assediate dalla polizia, mentre artisti e studenti si riunivano in assemblea permanente presso l’Accademia delle Belle Arti occupata. Dentro i giardini e le sedi espositive, almeno 18 artisti ritirarono le proprie opere come gesto oppositivo e alcuni spazi di rappresentanza nazionali chiusero, in polemica con la militarizzazione della rassegna; Gastone Novelli, tra i partecipanti del Padiglione italiano, con una torsione politica e reale, rovesciava le sue tele contro il muro scrivendo sul retro: LA BIENNALE È FASCISTA [5].


Da sinistra a destra:

Gastone Novelli scrive «La Biennale è fascista» dietro una sua opera alla Biennale di Venezia del 1968;

Gastone Novelli, azione di protesta alla Biennale di Venezia, 18 giugno 1968


L’anno successivo esce Non consumiamo Marx di Luigi Nono che aveva preso parte alle proteste – immortalato da uno scatto fotografico mentre lancia una sedia contro la polizia in Piazza San Marco; l’opera contiene due suite per voci e nastro magnetico in cui convergono proprio le registrazioni effettuate in presa diretta durante la contestazione, e che forse bisognerebbe ricordare per quello che è stata, un’eccedenza estetico-politica che ha fatto dell’arte un campo di soggettivazione.

Sempre Nono, nel novembre del 1968, sottoscrive il Documento per la costituzione di un comitato di azione, firmato da artisti, intellettuali e operai, che inizia perentoriamente – e in termini quanto mai attuali e condivisibili – con una sentenza che sarebbe da interrogare e ridiscutere oggi: «La Biennale è morta. Da molti anni non era più un centro vivo della produzione e di diffusione della cultura» [6].


Le strategie con cui il sistema culturale ha estromesso e assimilato queste eccedenze – spesso attraverso l’istituzionalizzazione di pratiche ed enunciazioni che avevano criticato le istituzioni stesse – sono chiare: depotenziarle e re-immetterle nel ricchissimo e perverso ingranaggio economico dell’arte, per neutralizzare il valore sovversivo e le istanze di lotta da cui derivano. Nel solco aperto lungo questa strada il capitale ha performativamente indossato la maschera del genere o del colore intensificando, a seconda dei contesti, i meccanismi di cattura della conflittualità in una realtà fictionale dove non c’è più posto per alcuna verifica, né tantomeno per rovesciarne i rapporti di forza.


Proteste alla Biennale di Venezia del 1968


Slogan nell'Accademia Occupata, Venezia, 1968


Nel mondo mainstream assistiamo ormai a forme – continue e violente - di espropriazione e cooptazione di linguaggi e immaginari di rottura che vengono sussunti e depotenziati: non si contano le tantissime narrazioni e produzioni (dai boschi verticali, i fashion show di maison del lusso come Dior, gli spot queer di Gucci, le innumerevoli sponsorizzazioni di esposizioni e progetti artistici, fino a trovare Black Lives Matter al primo posto nella classifica Power 100 - The annual ranking of the most influential people in art della rivista «Art Review» insieme a collezionisti, galleristi e altre potenti comparse del sistema): femminismo, radicalità politica ed ecologia vengono messi a soggetto ma, al di là di una superficiale tematizzazione – o forse meglio chiamarla appendice decorativa – i dispositivi di produzione, le economie, i canoni e le funzioni rimangono inalterati. Personaggi di potere che rappresentano la classe privilegiata si appropriano di parole, strumenti e istanze conflittuali che appartengono alle tante lotte transnazionali, ora recuperate, mercificate, messe a valore. Suonano ancora attuali le parole di Benjamin, nel 1934, che avvertiva come l’apparato di pubblicazione borghese possa tranquillamente propagandare una considerevole quantità di temi rivoluzionari, senza mettere seriamente in discussione la propria stabilità: quella di una classe che ne è proprietaria e tratteggia la tipica situazione da valorizzazione capitalistica in cui ci è consentito di partecipare ed esprimerci creativamente ma a patto di rimanere esclusi dal regime di proprietà.


Il latte dei sogni: la prossima Biennale di Venezia

Tra le forme espositive basate sul dominio dello spettacolo e della spettacolarizzazione dell’arte e della cultura La Biennale di Venezia occupa un ruolo strategico. Con la retorica del femminile, il ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo, Dario Franceschini annunciava, già prima della pandemia, la nomina in rosa di Cecilia Alemani alla direzione della 59. Esposizione Internazionale d’Arte, ultimo atto del presidente uscente Paolo Baratta, dopo un paio di decenni di dominio esclusivo e alla scadenza del suo incarico incontrastato. Con la totale complicità della stampa di settore e insieme alla disarmante assenza di ogni critica o di qualsiasi forma di antagonismo dal mondo dell’arte, dopo quasi vent’anni di nomine politiche, in assenza di un consiglio direttivo trasparente o di un board (come avviene in altre biennali internazionali e come accadeva un tempo a Venezia), abbiamo la «prima donna italiana» a dirigere la kermesse lagunare, ampiamente accompagnata da un’unanime esaltazioni identitarie.


Cecilia Alemani, conosciuta dagli addetti ai lavori più per essere la moglie di Massimiliano Gioni che non per il suo lavoro curatoriale, prevalentemente estraneo alla storia dell’exhibition-making, è alla terza biennale di famiglia. Dopo Il Palazzo Enciclopedico, l’edizione curata dal marito nel 2013 e dopo il Padiglione Italia da lei curato nel 2017, dal titolo Il mondo magico, che è costato 672.915,94 euro (di cui 600.000 euro conferiti dalla Direzione Generale Arte e Architettura Contemporanee e Periferie Urbane e il restante reperito dalla curatrice con sponsor finanziari e donors, tra cui la casa di moda Fendi) per esporre tre artisti. Non si è mai occupata di ecologia, tantomeno di femminismo, ma nel grande campo d’improvvisazione quale è il sistema dell’arte, questo non ha alcun rilievo, perché oggi questi temi cool sono strumenti immancabili nel kit di ogni artista, curatore o casa editrice al passo coi tempi. L’annuncio dello statement curatoriale e del titolo, attesi da un pò, riprendono un libro di fiabe di Leonora Carrington Il latte dei sogni che ci proietta nella surrealtà e nel mistero, chiudendo gli occhi su una realtà che ha ben poco di occulto. Le differenze che separano l’animale, il vegetale, l’umano e il non-umano, sono alcune delle suggestioni che la curatrice chiama in causa e che struttureranno la mostra in tre aree tematiche: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra individui e tecnologie; le connessioni tra i corpi e la terra.

Fecondità, simbolismo esoterico, sogno, divinità e creature femminili schiudono un immaginario e una cosmogonia che, in un momento storico di crisi irreversibile, in cui meglio non parlare della realtà, non poteva trovare miglior correlato nell’evasione dal reale. Ma, da una tribuna di tal rilievo, la prospettiva d’indagine, non può essere individuale, soggettiva e narcisistica. Cosa può ancora raccontarci l’imponente macchina espositiva veneziana? Senza dubbi Alemani incarna una visione manageriale, capitalista e liberale dell’arte. E sicuramente non possiamo che aspettarci l’ennesima mostra a cui l’industria culturale ci ha abituati.


Leonora Carrington, The Giantess, 1950, particolare. © 2019 Estate of Leonora Carrington. Artists Rights Society (ARS), New York. Courtesy of Gallery Wendi Norris


Reincantare il mondo non significa praticare la magia

Se la riflessione femminista attraversa lo spazio dell’arte, d’altra parte, mai come in questo momento, l’istituzionalizzazione neoliberale del femminismo mainstream ha trovato nelle industrie culturali un terreno di cattura privilegiato, totalmente mimetizzato da un’apparente libertà di espressione e creatività (nella promessa dell’emancipazione e del binomio quote rosa e mercato) - in gran parte sostenuto da enormi capitali, corporate collection, maison d’alta moda e industrie del lusso - solo per ricavarne profitto. Slogan che qualche anno fa sarebbero stati considerati insolenti, al limite dell’insulto, resistenti alle formazioni egemoniche, sono diventati le parole d’ordine di quell’arsenale orientato alla naturalizzazione identitaria. L’intreccio tra genere, visualità e potere è un campo di analisi decisivo, perché le nostre soggettività si formano attraverso rappresentazioni. Una prospettiva femminista sul presente deve considerare che la produzione di genere si esercita attraverso una serie di dispositivi di dominio che passano per il visuale e funziona servendosi di costruzioni simbolico-discorsive correlate a segni, immagini e immaginari che possono essere esercitati, ma anche combattuti. Interrogare gli stereotipi del femminile e le sue rappresentazioni plasticamente riprodotte e reificate da e nella società capitalista è essenziale, come ricordare che l’essere donna non è di per sé un’istanza politica: il femminismo è diventato un movimento identitario solo quando si è istituzionalizzato.


Femminismo e critica al capitalismo sono inseparabili, il non riconoscimento dei lavori – svalutati, invisibilizzati e sfruttati – che riproducono la vita è intrecciato alla logica che governa la nostra società capitalista. Così, tornando a Il latte dei sogni, ecco che la rabbia diventa legittima quando leggendo il testo di Cecilia Alemani si scorge citata Silvia Federici, riferimento imprescindibile per intere generazioni di femministe e movimenti transnazionali, ma con l’accurata rimozione della dimensione immediatamente materialista e conflittuale delle lotte contro il capitale, la riproduzione delle nostre vite, il controllo dei corpi, evitando di usare parole come capitalismo, patriarcato, diseguaglianze e ingiustizie sociali, femminismo popolare, eludendo qualsiasi traiettoria del suo impegno teorico e militante:


«Molte artiste e artisti ritraggono la fine dell’antropocentrismo, celebrando una nuova comunione con il non-umano, con l’animale e con la terra, esaltando un senso di affinità fra specie e tra l’organico e l’inorganico, tra l’animato e l’inanimato […] Altri ancora praticano ciò che la filosofa femminista e attivista Silvia Federici descrive come il “re-incantesimo del mondo”, mescolando saperi indigeni e mitologie individuali, in modi non dissimili da quelli immaginati da Leonora Carrington» chiude Alemani [7].


Quando Federici parla di re-incantare il mondo si riferisce alla scoperta di logiche diverse da quelle imposte dallo sviluppo capitalista: re-inventare e re-immaginare il rapporto con la vita, con la natura e con il nostro corpo; vuol dire recuperare il senso della creatività come qualcosa che appartiene a tutti, non a una ristretta cerchia elitaria che governa e amministra i capitali dell’arte.

Così quando è il padrone a citarla e senza un’analisi marxista di quei rapporti di forza e di classe che, se taciuti (e che la stessa Alemani incarna in un modello femminile manageriale, filoamericano e di potere), confondono il nemico con la controparte, diventano frasi espropriate di senso e direzione politica, un tentativo di glamourizzazione depoliticizzata e inaccettabile. Le indicazioni che vengono dal lavoro di Silvia Federici usiamole semmai per distinguere tra i processi di soggettivazione e quelli di cattura del capitale, perché il «re-incantesimo del mondo» significa costruire un’alternativa al capitalismo, re-immaginare pratiche, saperi, forme di organizzazione contro il disincanto capitalista, colonialista e patriarcale. Non è una formula accademica o una speculazione teorica ma deve avere una ricaduta politica, dentro una realtà che non è un’utopia ma uno spazio innervato da processi di trasformazione. Perché rivendicare ancora un’arte separata dal sociale e come fuga nel mondo magico? È solo a partire dalle lotte che possiamo reincantare il mondo.


Disarmare il potere, rispetto all’eredità storicistica e coloniale delle istituzioni; rompere la centralità delle narrazioni eteronormative, fondate su rapporti di razza, classe e di ordine patriarcale, dare voce ai corpi disobbedienti, rimasti invisibilizzati e silenziati nei documenti ufficiali; disimparare la storia e creare delle contro-storie, perché nella sola che abbiamo ereditato, e che ci è stata imposta come assoluta e incontrastabile, il corpo oggettivato è bianco, maschile e occidentale. Questi dovrebbero essere i vettori per l’istituzione di una critica decostruttiva, e non solo affermativa, dentro le nostre configurazioni culturali, altrimenti anziché smascherare queste retoriche, produciamo solo un tipo di arte funzionale a consolidarne le economie.


Leonora Carrington, Down Below, 1940, particolare © 2019 Estate of Leonora Carrington. Artists Rights Society (ARS), New York. Courtesy of Gallery Wendi Norris


La critica femminista dovrebbe iniziare a smontare il segno «donna» dalla trappola naturale (cioè biologica) delle essenze. Come ha scritto bell hooks nei riguardi di Frida Kahlo, che oggi è diventata un’icona pop depoliticizzata, la sua radicalizzazione si è compiuta contro l’imperialismo e per la causa rivoluzionaria, vicina ai movimenti per la giustizia sociale e la lotta di classe e non per la questione di genere: le femministe bianche hanno preso un’artista di colore il cui essere politico è fondato sul marxismo e ne hanno fatto un modello per la ribellione stilistica![viii] La colonia surrealista messicana rischia di passare dall’anticolonialismo al dominio esclusivo della dimensione onirica: Leonora Carrington, che si definì un «animale umano femminile», ottenne asilo in Messico dopo il 1942 e qui concepì Il latte dei sogni, con visioni e incubi che presero forma sulle pareti della sua casa e che spaventavano i bambini. Nel 1972 ha creato un poster per il gruppo femminista Mujeres Conciencia, da cui deriva il titolo della sua opera considerata quasi un manifesto del movimento di liberazione delle donne messicano: la nuova Eva è nera, restituisce la mela alla vecchia Eva del mito giudaico-cristiano della cacciata dal paradiso, e sembra dire: non farò più parte di questa mitologia razzista, sessista patriarcale.


Leonora Carrington, Mujeres Conciencia, 1972. Courtesy of Gallery Wendi Norris, San Francisco. © 2019 Estate of Leonora Carrington / Artists Rights Society (ARS), New York © Estate of Leonora Carrington / ARS, NY and DACS, London 2019


Se l’estetizzazione di queste forme di assoggettamento rivela solo una profonda inadeguatezza nelle strutture produttive e ideologico-culturali – che includono ed escludono, soprarappresentano e sottorappresentano – l’assorbimento simbolico dell’estetico a livello della sua funzione, in quanto spettacolo, non fa che confermare la profonda difficoltà della cultura di porsi come soggetto di riferimento nella crisi del presente. Nel terreno strategico in cui l’arte ridefinisce la valorizzazione del capitale attraverso sé stessa, la separatezza di classe è incolmabile e i modelli di riferimento sono quelle soggettività edoniste, esaltate e accettanti che il potere crea e cattura, allora non resta che sbarazzarsi di ruoli e assegnazioni, per riappropriarsi di uno spazio per la critica, il solo strumento per sputare ancora su Hegel e distruggere la «casa del padrone».


Note [1] Toni Negri, Arte e multitudo (a cura di Nicolas Martino), DeriveApprodi, 2014, p. 62 [2] Okwui Enwezor, Topographies of Critical Practice: Exhibition as a Place and Site, in «The Exhibitionist», n.2, giugno 2010, pp.47-52. [3] cfr. Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, Fausto Lupetti Editore, 2012. [4] Robert Smithson, dallo statement che inviò al posto dell’opera per documenta 5 e che Harald Szeemann inserì nel catalogo della manifestazione, 1972. [5] È sicuramente paradossale che queste foto e documenti della contestazione siano stati esposti a Le muse inquiete. La Biennale di Venezia di fronte alla storia (con coordinamento di Cecilia Alemani), nella ricorrenza dei 125 anni dalla sua fondazione; Padiglione Centrale dei Giardini della Biennale, 29 agosto - 8 dicembre 2020, mostra realizzata dall’Archivio Storico della Biennale – ASAC. [6] «L’estate scorsa, la contestazione e il movimento studentesco le hanno tolto l’ultima maschera svelando i reali rapporti di classe e di poteri sui quali si reggeva e vorrebbe continuare a reggersi […] da una Biennale morta non può uscire un dibattito vivo. Il problema di oggi è uno solo: seppellire questo cadavere», pubblicato in: La Biennale di Venezia. Rassegna delle Arti contemporanee, 64–65, gennaio-giugno 1969, p. 21. [7] Lo statement di Cecilia Alemani, la sua Biennale si svolgerà dal 23 aprile al 27 novembre 2022: https://www.labiennale.org/it/arte/2022/dichiarazione-di-cecilia-alemani [8] http://www.hotpotatoes.it/2018/04/25/feminist-iconography-conversazione-tra-bell-hooks-e-amalia-mesa-bains/ Feminist Iconography. Conversazione tra bell hooks e Amalia Mesa-Bains; la conversazione è tratta dal testo Homegrown: Engaged Cultural Criticism, costituito interamente dai dialoghi tra bell hooks e Amalia Mesa-Bains, South End Press, Cambridge, MA, 2006.

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