Engles scrisse nel 1875 (Karl Marx - Friedrich Engels, India Cina Russia. Le premesse per tre rivoluzioni, Saggiatore, Milano, 1970):
«Il popolo russo, (…) ha compiuto in ordine sparso innumerevoli rivolte contadine contro la nobiltà e singoli funzionari del governo, ma non ne ha mai compiuta nessuna contro lo zar, a meno che un falso zar non ne prendesse la testa per rivendicare il trono».
Il «falso zar» cui si riferisce Engels, era stato il capo cosacco Pugacěv che, nella prima metà degli anni 70 del XVIII secolo, si era fatto passare prima come mercante, poi come lo zar Pietro III in persona, scatenando la rivolta armata e promettendo ai suoi seguaci libertà di pesca e di caccia, senza obblighi fiscali. Il primo ad occuparsi organicamente di questa terza rivoluzione settecentesca, colpevolmente e troppo a lungo ignorata dagli storici concentrati su quella americana e quella francese, fu Alexander Pushkin (1799-1837) che nel 1834 pubblicò non un romanzo, ma un resoconto documentario della Storia di Pugacěv, e nel 1836 inserì Pugacěv nel suo celebre romanzo La figlia del capitano. Un’altra eco di Pugacěv risuona nel Taras Bulba di Gogol (1835). Il personaggio è un cosacco ucraino, ma pienamente assimilato da Gogol all’epica nazionale russa, al punto che in punto di morte proclama:
«Aspettate, dunque, verrà un tempo in cui conoscerete che cos’è la fede russa ortodossa! Già anche ora lo sentono i popoli lontani e quelli vicini: sta sorgendo dalla terra russa un nuovo zar e non ci sarà forza al mondo che non si sottometterà a lui».
Lenin verrà chiamato, in modo derisorio, dai russi bianchi, «il Pugacěv vittorioso», ma i bolscevichi non celebrarono affatto la memoria di Pugacěv, forse per uno scrupolo politico-morale: come si fa a celebrare un impostore zarista? Soltanto Sergej Aleksandrovic Esenin dedicò, nel 1921, un Poema al cosacco sconfitto. In questo lungo poema si esprime una visione molto diversa da quella di Pushkin e lontana anni luce dal celebrativismo ortodosso e panrusso di Gogol. Esenin, nato in un piccolo villaggio della Russia centrale, era profondamente legato all’anima contadina. Del mondo rurale aveva un’idea rude, ribelle, persino blasfema, e ne avvertiva profondamente la nostalgia (toskà, una nostalgia malinconica). Il suo misticismo rurale che identificava cielo e terra, si era pienamente espresso nel poema teatrale Misterija-Buff messo in scena il 1° maggio 1921, contaminando misteri medievali e farsa popolare. Di quest’opera (che ispirò il Mistero Buffo di Dario Fo) Majakòvskij scrisse (cito da: Ettore Lo Gatto, La Letteratura russo-sovietica, Sansoni, Firenze, 1968):
«Misterija-Buff è la nostra grande rivoluzione, condensata nel verso e nell’azione teatrale. “Misterija” è quel che vi è di grande nella rivoluzione, “Buff” quel che in essa vi è di comico. Il verso di Misterija-Buff sono le parole d’ordine dei comizi, le grida della folla, la lingua dei giornali. L’azione di Misterija-Buff è il movimento della folla, l’urto delle classi, la lotta delle idee: la miniatura del mondo nelle pareti del circo».
Anche il Pugacěv di Esenin intendeva all’origine essere un poema teatrale, ma restò non rappresentato. Pugacěv vi viene dipinto come un eroe malinconico che rimpiange la sua perduta giovinezza (più non stormisci nella steppa col ciliegio selvatico). Gli ripugna doversi fingere un altro, per di più un morto (a questo mondo, l’uomo non è una casa di travi, / non puoi sempre rifarlo da capo). Nella settima scena, Burnov, da ribelle sconfitto, recita un monologo:
«Io voglio vivere, vivere, vivere / seppur tra minacce e terrori/ da ladro o da teppista non importa / pur di vedere i topi scorrazzare vispi nei campi / e ascoltare le rane che cantano ubriache nel pozzo».
Burnov-Esenin rimpiange la campagna perduta. Alieno dall’industrialismo, dal costruttivismo della Russia postrivoluzionaria, non rinnega la rivoluzione, seppur tra minacce e terrori, e non coltiva alcun mito arcadico, per lui la campagna è quella dei topi e delle rane. Al contrario di Pushkin, non si sofferma sulle epiche battaglie del cosacco, ma, non vincolato a una narrazione storico-documentaria, raffigura poeticamente l’anima, straziata, dei contadini sconfitti.
Vediamo ora, nella propaganda bolscevica del tempo, come viene rappresentato il contadino.
Fig.1 - Moor (Orlov) Dmitrij Stechevich (1883-1946), Aiuto!
L’immagine parla da sé: dal contadino alla fame parte una disperata richiesta di soccorso.
Fig.2 - L’Armata Bianca si ritira bruciando i villaggi (1918-1921)
In questo manifesto di non chiara attribuzione, i contadini subiscono ulteriori vessazioni da parte dell’esercito dei Bianchi allo sbando.
Fig.3 - Contadini, aiutate l’Armata Rossa con il pane! (1920)
Con l’Armata Rossa, si raccomanda ai contadini generosità, in cambio di merci varie provenienti dai centri industriali e veicolate dalla ferrovia.
Fig.4 – Manifesto di Alexandr Petrovich Apsit (1880-1944)
Si celebra la vittoriosa alleanza tra operai e contadini. Un manifesto in genere attribuito ad Apsit, ma più probabilmente di un suo imitatore, replicherà la coppia falce e martello un paio d’anni dopo, nel 1920.
Fig.5
Gian Piero Piretto (Quando c’era l’URSS. 70 anni di storia culturale sovietica, Cortina, Milano 2018) a proposito della prima immagine (fig.4) riporta le interpretazioni di alcuni studiosi russi. La prima (Plungjan, 2017) presenta questa descrizione del manifesto:
«Un operaio con fucile in spalla e martello nella mano destra e un giovane contadino con falce e lancia decorata con un drappo rosso si ergono su un basamento in posa da condottieri romani. Il basamento schiaccia i simboli del passato: la corona zarista, l’aquila a due teste, lo scudo e le catene. Attraverso la cornice si scorgono colonne di gente. Una giovane madre protende il suo bambino verso gli eroi perché venga “benedetto”, chiaro riflesso degli antichi riti di dominazione. Sul lontano sfondo, sopra la città, fumano le ciminiere delle fabbriche e sorge un sole dorato».
La seconda citazione (Michajlin, Baljaeva, 2013) va più in profondità:
«Il contadino è in posa passiva, oltre che considerevolmente più giovane del suo compagno. A differenza dell’operaio, il cui volto è rappresentato di tre quarti, lui appare di profilo e fissa devotamente il personaggio più anziano; la falce gli serve contemporaneamente da strumento di produzione e, in un certo senso, da arma primitiva; questa, a differenza del fucile ostentatamente esibito sulla spalla dell’operaio, è passivamente rivolta verso il basso. Come ulteriore elemento di militarizzazione, non meno arcaico, si può considerare anche il bastone della bandiera rossa simile a una lancia. Se si valutassero gli aspetti elencati dal punto di vista del discorso “coloniale”, il contadino apparirebbe una figura sottomessa, “indigena” e addirittura femminea».
C’è da osservare che tali elementi, indubbiamente pertinenti al primo manifesto, non lo sono al secondo (fig.5), successivo e semplificato: le posizioni dei due personaggi risultano invertite, il contadino, di tre quarti, inalbera la falce, l’operaio, di profilo, in camicia rossa, non ha il fucile, anzi regge anche lui, abbassata, una piccola falce, e pare benedire il suo giovane compagno. La rappresentazione del giovane contadino è assai più folclorica, simboleggia una Russia primigenia, omaggiata come tradizione. Piretto osserva però:
«L’auspicata cooperazione tra città (operai) e campagna (contadini) non si realizzava, a dispetto della massiccia campagna promozionale. La smyčka (fraternizzazione) tra le due categorie restava un’utopia (…) si abbracciavano retoricamente soltanto nelle immagini dei manifesti e delle opere di propaganda».
Inoltre, tra i contadini, «la diffidenza nei confronti dello Stato restava grande, il sacrificio del grano, immolato sull’altare delle odiate città stremate dalla fame, era vissuto dai villici come un’imposizione».
Fig.6 - Contadini, fate il vostro dovere! Pagate le tasse in natura, 1921
A conferma, il manifesto di una campagna contro la riluttanza dei contadini a contribuire allo sviluppo a proprie spese. Le campagne di propaganda rivolte ai contadini si susseguono su tutti i temi. A proposito delle forniture, si invitano i coltivatori indipendenti a vendere alle cooperative rosse.
Fig.7 - Vendete il vostro tabacco alle cooperative, 1925
Fondamentale la campagna per l’alfabetizzazione, che promuove l’istruzione pubblica, l’auto-formazione, e ammonisce sui guasti dell’analfabetismo, come nei seguenti manifesti.
Fig.8 – Apsit, Riempite le sale di lettura, 1919
Fig.9 - Sergei Bigos (1895-1937), Campagna per l’autoeducazione, 1924
Fig.10 - Campagna contro l’analfabetismo, 1925
Qui è un bimbo pioniere, cresciuto alla scuola di partito, che insegna a leggere alla mamma contadina. E veniamo a manifesti più intimidatori.
Fig. 11 - Alexej Alexandrovich Radakov (1877-1942), L’analfabeta è come un cieco. Da tutti i lati, fallimento e disgrazia lo attendono, 1919
Radakov era un disegnatore satirico, come si vede, modernissimo nel tratto. Lavorò per i popolari periodici umoristici Satyricon (1908-1914) e Nuovo Satyricon (1913-1918) e fu uno dei principali protagonisti delle campagne per l’alfabetizzazione.
Fig. 12 – Radakov, Analfabeti e istruiti
Qui si chiariscono all’estremo le due prospettive: (sopra) l’analfabetismo conduce alla miseria, agli incendi causa fulmini, al degrado dei campi, e persino alla morte dei capi di bestiame; (sotto) con un libro aperto in mano, marito e moglie possono permettersi il cappotto, la loro abitazione non brucia più perché è stata dotata di parafulmine e di tetto in tegole, non più in paglia, le coltivazioni prosperano, e il cavallo è un robusto stallone.
Fig.13 – Leonid Sayansky, Prima e adesso, 1921
Un’altra contrapposizione tra prima e dopo. Dall’ubriachezza alla cultura.
Fig. 14 - Alexey Nikonorovich Komarov (1879 – 1977), Contadini, proteggete le donne incinte, 1925
La campagna più lodevole è questa, che invita i contadini a non sfruttare le donne in stato di gravidanza come bestie da soma.
Sta di fatto che negli anni successivi alla rivoluzione e in particolare nell’aspra fase di costruzione economico-industriale della Nep (1921-1929) i contadini da soggetti rivoluzionari diventano oggetti di continue campagne di propaganda, intese a renderli all’altezza del futuro di sviluppo verso cui si proietta una Russia in perenne emergenza. Delle contraddizioni di questo periodo, scriveranno acutamente Boris Pilniak nel suo romanzo L’anno nudo (Garzanti, Milano 1965) e, nello stesso anno, Aleksandra Kollontaj in Vassilissa (Savelli, Roma 1978). In entrambi i romanzi, il richiamo alla campagna risuona forte. Nel primo, si tratta di una campagna atavica, riluttante a ogni tipo di civilizzazione, dove i giovani intellettuali bolscevichi con tutta la loro spinta innovativa e le loro inclinazioni al comando, si ritrovano disorientati, perennemente riuniti in conciliabolo, oppure essi stessi coinvolti nella concreta, spossante fatica quotidiana del lavoro, ma non quello dei campi, quello ingegneristico e industriale; nel secondo di una campagna da ritrovare e da rinnovare, consapevoli che ben più dell’ideologia, attraverso e al di là lavoro, anche quello educativo, conterà un rianimante desiderio di vita che valga la pena di vivere e che nei campi potrà trovare maggiori stimoli che nelle città industriali. Le ultime righe del romanzo della Kollontaj, parole rivolte da Vassia all’amica Gruša, sono versi poetici.
«Bisogna vivere Gruša. Vivere. / Vivere e lavorare / Vivere e lottare / Vivere e amare la vita / come le api nei cespugli di lillà! / come gli uccelli in fondo al giardino / come le cavallette nell’erba!»
Ma l’unica utopia proposta, nei manifesti degli anni successivi, sarà quella industriale. Il prospero e felice futuro promesso al mondo rurale è quello della meccanizzazione agricola (fig.15), anche se poi il grano prenderà il treno per approvvigionare i grandi centri urbani (fig.16).
Fig. 15 - Lavora bene e ne ricaverai il pane!
Fig.16
Piuttosto interessante il lavoro del pittore polacco contemporaneo Jakub Rozalsky che in una serie di dipinti fantascientifici ambientati nel 1920 visualizza il rapporto di estraneità del mondo rurale a quello delle macchine (fig.17 e fig.18) che evocano ai loro occhi scenari di guerra robotica.
Fig.17
Fig.18
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