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Prima dell'università neoliberale (Seconda parte)

Movimenti studenteschi e Riforme universitarie



Cominciamo i lavori di questa sezione con alcuni testi provenienti dalla più recente inchiesta di «Sudcomune», della quale Machina ha già pubblicato un paio di Note (www.machina-deriveapprodi.com/post/l-università-indigesta-note-da-un-inchiesta; www.machina-deriveapprodi.com/post/l-università-indigesta-2). Più precisamente, per i prossimi tre mesi, a cadenza quindicinale, affronteremo il tema dell’avvento dell’università neoliberale in Italia dal punto di vista dei movimenti studenteschi che l’hanno combattuta e delle riforme legislative che l’hanno imposta. Ripercorrere storicamente tale questione riteniamo sia ancora oggi utile, perché se è vero che solo gli studenti, in potenza, possono cambiare le sorti aziendali dell’università, è altrettanto vero che rivolgendosi alle generazioni precedenti possono scoprire e, soprattutto, attualizzare i motivi autentici per rimettersi in movimento.


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La normalizzazione Superato il pericolo degli “studenti e operai uniti nella lotta”, nel pieno del processo di massificazione dell’Università italiana, il primo governo Cossiga nei suoi pochi mesi di vita (soltanto otto) emana norme aventi valore di legge ordinaria per «il riordinamento della docenza universitaria e relativa fascia di formazione, e per la sperimentazione organizzativa e didattica». E non fu certo poca cosa. Il riordino della docenza significò in primis l’istituzione del ruolo di “Professore Associato” (seconda fascia) e di “Ricercatore universitario”, entro il quale confluirono attraverso procedure d’idoneità i precari generati dai «Provvedimenti urgenti» del 1973. A queste figure si aggiungerà, nei primi anni di sperimentazione, quella dei “Professori a contratto”, istituita come figura di raccordo con la società (e il mercato) e di supporto allo svolgimento delle attività proprie dell’università. La sperimentazione, invece, (il DPR 382/1980) ha corrisposto all’istituzione dei “dottorati di ricerca” e l’apertura dei “Dipartimenti”, in qualità di Enti preposti alla ricerca (rispetto alle Facoltà preposte invece alla didattica), che nei fatti venivano a sostituire “l’Istituto”, il feudo del Professore Ordinario reso anacronistico dalle lotte studentesche del ’68[1]. Il dibattito sulla Riforma ruotò intorno ai principi di Democrazia e di Autonomia. In nome della gestione democratica delle università vennero moltiplicati i controlli e i meccanismi elettivi, che innovarono le vecchie procedure decisorie ma generarono tutta una serie di fenomeni paradossali o distorsivi, come quelli dell’evaporazione delle responsabilità e delle clientele accademiche. Per il DPR 382 tutte le cariche dirigenziali e gestionali dovevano infatti essere elettive. Il Rettore, il Preside, il Direttore di Dipartimento (o di Corso di Laurea) e così via, per essere tali dovevano contare su una maggioranza di Professori votanti. Lo stesso dicasi per le cariche amministrative, gestionali e di supporto amministrativo e didattico. Un ricercatore napoletano, giovane Professor alla New York University, contento della posizione finalmente acquisita («L’ambiente accademico americano e’ totalmente diverso da quello italiano:»), convinto di lavorare in un paese dove «la meritocrazia è quasi del tutto trionfante e le risorse sono molto maggiori», riflettendo sulla condizione vissuta in Italia ai primi del secolo constatava che:

«A ripensarla oggi la situazione italiana mi sento di dire che la struttura eccessivamente ed apparentemente democratica dell’università in Italia favorisce piccole mafie e porta generalmente a un abbassamento del livello del dibattito. Esempio: a differenza di quanto avviene negli USA, in Italia il direttore di dipartimento, il preside, il rettore, sono eletti dai professori e quindi devono poi procedere non con in mente l’interesse reale della struttura, ma con in mente la necessità di mantenere un supporto politico. Viceversa negli USA si è appointed dall’alto, anche se con un importante input dal basso, e quindi si ha più libertà di fare quello che l’università necessita. Quando, alla fine dell’anno, il mio capo scrive il suo rapporto sulla mia performance (rapporto sulla cui base viene riconfigurato il mio stipendio), i fattori principali sono in qualche modo oggettivi e non basati sul fatto che i vari colleghi siano soddisfatti o meno del mio operato. Inoltre, in Italia si deve votare su ogni cosa, come per esempio il congedo di un ricercatore, e quindi si creano continue alleanze e contro alleanze»[2].

A ciò si aggiunge, è stato scritto, che nonostante le numerose votazioni nei Consigli (di Facoltà o di Dipartimento) nessuno poi si preoccupa di controllare l’esecuzione delle decisioni prese, tantomeno la qualità della messa in pratica di quanto deciso[3]. Le “continue alleanze e contro alleanze” nelle numerosissime votazioni sono anche alla base del fenomeno delle clientele e della corruzione accademica divenuto tristemente noto ai più per opera della magistratura[4]. L’autonomia, invece, si rivelò una vera e propria finzione, utile al governo delle dinamiche universitarie ma del tutto inefficace a compiere quella rivoluzione organizzativa che la dipartimentalizzazione prometteva. Basti pensare che i Dipartimenti, che in teoria avrebbero dovuto sostituire le Facoltà sul modello di diverse università straniere, nei fatti si affiancarono a queste, che resistettero energicamente a difesa di una loro prerogativa: la gestione dei posti di Professore. Facoltà e Dipartimenti hanno continuato a convivere, fino ad oggi, in modo autonomo ma sfasato, giustificando la loro minima comunicazione col fatto che i dipartimenti sono istituzionalmente votati alla ricerca mentre le Facoltà alla didattica. In generale, come ha osservato Raffaele Simone in un illuminante testo sull’Università al tempo della Riforma del 1980:

«non si può autonomamente introdurre una materia nuova, non si possono stabilire criteri per l’ammissione degli studenti, non si possono bandire concorsi locali. Perfino i dottorati di ricerca, che nascono autonomi (ogni università se li crea e regolamenta come vuole, anche se il ministero li finanzia con quattro soldi), finiscono centralizzati. Il CUN è il braccio a cui è affidata la gestione del centralismo e in cui si scaricano, come al solito, le tensioni e le mediazioni della politica accademica»[5].

Il Consiglio Universitario Nazionale fu istituito dalla 382 come il principale organo di garanzia e rappresentanza della autonomia universitaria ma, nel corso degli anni, fu «portato gradualmente a burocratizzarsi, sulla scia degli avvenimenti, anziché mantenere il ruolo di presidio dell’autonomia degli ambiti disciplinari e delle componenti universitarie che lo hanno espresso»[6]. Vista alla distanza di quattro decenni la Riforma 382 del 1980 fu una riforma cerniera, obbligata dalle lotte del movimento studentesco e giovanile degli anni settanta, che riuscì a traghettare l’università lungo il decennio del riflusso verso il nuovo che si andava preparando. Una riforma, soprattutto, che svolse un ruolo politico di primo piano, assorbendo nelle proprie file molti di quei giovani, un tempo rivoluzionari, che da quel momento divennero professori critici ed attenti analisti delle cose sociali e politiche. In questi termini, dunque, la Riforma svolse una efficace opera di normalizzazione (di pacificazione potremmo dire) che allo stesso tempo favorì, come abbiamo accennato, la progressiva crescita di fenomeni deteriori (corruzione, nepotismo e clientelismo) che nei decenni successivi divennero endemici e che sono anche alla base del cosiddetto “brain drain”[7]. Come abbiamo avuto modo di registrare molti anni addietro, infatti, uno dei motivi comuni nei racconti di laureati e ricercatori italiani trasferitisi all’estero è stato quello di non essere “protetti”, di essere cioè estranei ai network accademici giusti, di stare «fuori dal giardino dei baroni», secondo un ricorrente modo di dire, dove «le opportunità sono molto rare, quasi inesistenti». Coloro i quali, al contrario, fuori dal giardino dei baroni hanno continuato a coltivare aspirazioni accademiche, caparbi o ingenui, si sono ritrovati, (chi prima chi dopo) nella stessa situazione del Dr. Greco che, stressato dalla crescente dissonanza tra il lavoro scientifico e i comportamenti necessari per fare carriera, non può fare altro che prendere a calci una porta chiusa ed inviare una lettera al Magnifico Rettore per “avere indietro gli ultimi cinque anni di vita”[8]. Infine, la 382 può essere considerata l’ultima riforma che formalmente tentò di affrontare, senza riuscirci, la questione della democrazia negli atenei; dopodiché, con la successiva riforma, la famigerata Ruberti del 1989, ha inizio l’epoca neoliberale delle università italiane, tema che affronteremo da vicino nei prossimi interventi su Machina.

Note

[1] Per evidenza della dimensione spesso “feudale” degli Istituti basti ricordare che erano presenti anche Istituti “monocattedra”. Relativamente all’apertura dei Dipartimenti, invece, nel 1984 se ne contano 396, ai quali afferiscono oltre 10 mila docenti e 4 mila ricercatori confermati.

[2] Intervista ad Angelo Pallotta, ripresa da F.M. Pezzulli, In fuga dal Sud. Migranti qualificati e poteri locali nel Mezzogiorno, Bevivino Editore, Milano 2009. Cit. pag.38.

[3] R. Simone, L’Università dei tre tradimenti, Laterza, Bari 1993. Cit., pagg. 14-21.

[4] Gli studi sulla corruzione e le clientele accademiche si sono succeduti nei decenni e, in parallelo con le indagini giudiziarie che tentano di contrastare il fenomeno, sono ulteriormente aumentati. Consapevoli di non dar conto delle numerose sfaccettature del fenomeno citiamo qui solo alcuni titoli significativi: H. di Giuseppe, Ladri di futuro. Il concorrere e la grande impostura dell'università italiana, Ed. Scienze e Lettere, Roma 2020; S. Allesina, “Measuring Nepotism through Shared Last Names: The Case of Italian Academia”, in Plos one 6.8, 2011; N. Gardini, I Baroni, Feltrinelli, Milano 2009; G. Lanoue, “Mérite et patronage en milieu «moderne»: Les rituels politiques de victoire et d’échec dans les universités italiennes”, in Anthropologie et Sociétés, n. 23, 1999; B. R. Clark, Academic Power in Italy, University of Chicago Press, Chicago 1977; F. Froio, Università. Mafia e potere, La Nuova Italia scientifica, Firenze 1974.

[5] R. Simone, Cit., pag. 27.

[6] U. M. Miozzi, Cit., pag. 293.

[7] Sul rapporto tra clientelismo e migrazioni qualificate mi permetto di rimandare a F.M. Pezzulli, In fuga dal Sud. Migranti qualificati e poteri locali nel Mezzogiorno, Bevivino Editore, Milano 2009 (relativamente al clientelismo accademico vedi il cap. 2). Cfr. anche F.M. Pezzulli, “Una nuova emigrazione?”, in Sociologia e Ricerca Sociale, n. 70, 2003.

[8] Il Dr. Greco è il protagonista di un istruttivo e stimolante racconto di Tonino Perna sui rapporti tra le reti accademiche di potere ed i ricercatori che persistono in comportamenti fuori norma. Cfr. T. Perna, Al Magnifico Rettore, Rubettino, Soveria Mannelli 2006.


Immagine: Andrea Salvino


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Francesco Maria Pezzulli è sociologo e ricercatore indipendente. Ha insegnato presso l’Università La Sapienza di Roma e svolge attività di ricerca e inchiesta nel Laboratorio sulle Transizioni, il mutamento sociale e le nuove soggettività dell’Università degli Studi di Roma Tre. Si occupa delle tematiche inerenti lo sviluppo capitalistico e il mezzogiorno italiano.

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